Bitcoin può essere hackerato? I computer quantistici possono distruggerlo?

Bitcoin può essere hackerato?

È possibile che Bitcoin venga hackerato? I computer quantistici riusciranno a distruggere la blockchain? Scopri di più

La blockchain di Bitcoin è estremamente sicura a livello informatico, prevalentemente grazie ai modelli crittografici che utilizza. Nonostante questo, all’orizzonte c’è una minaccia che preoccupa alcuni crypto enthusiast: i computer quantistici. 

Queste macchine, incredibilmente potenti, sono in grado di svolgere calcoli ad una velocità esponenzialmente più elevata rispetto a quelle tradizionali e, per questo motivo, potrebbero mettere a rischio la blockchain di Bitcoin. La sicurezza dell’intera rete si basa, infatti, proprio sulla potenza di calcolo, messa a disposizione dai miner e costantemente in equilibrio.

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Visto che lo sviluppo di queste macchine sta avanzando velocemente negli ultimi anni, è necessario preoccuparsi? Bitcoin potrà, davvero, essere hackerato per colpa dei computer quantistici?

Bitcoin può essere hackerato? Cosa sono i computer quantistici

L’intuizione che sta alla base di questa tecnologia risale al 1981, quando Richard Feynman propose la sua teoria della computazione quantistica. L’idea era quella di creare elaboratori che simulassero la realtà proprio nel modo in cui si manifesta, e quindi attraverso artefatti quantistici, e non attraverso variabili binarie.

La differenza principale tra i computer quantistici e quelli tradizionali sta, dunque, nell’architettura delle più piccole unità che compongono il linguaggio macchina

Il linguaggio macchina di un elaboratore tradizionale è, infatti, basato su un’architettura binaria; l’unità di informazione che sta alla base di questa si chiama Bit e codifica uno stato che può essere o 0 o 1.

Al contrario, l’unità di informazione dei computer quantistici, il Qubit, o bit quantistico, si ispira alle particelle. Senza entrare troppo nel tecnico si può dire che i Qubit possono oltre ad assumere lo stato 0 o 1, possono restituirne uno qualsiasi di quelli compresi tra i due valori.

Il funzionamento di queste macchine è estremamente complesso, perciò non entreremo nel dettaglio. Anche perché il focus di questo articolo è comprendere se Bitcoin può essere o meno hackerato da queste macchine all’avanguardia.

Come funziona la crittografia di Bitcoin?

Per capire se i computer quantistici saranno in grado di hackerare Bitcoin dobbiamo comprendere come lavora la sua blockchain a livello crittografico. Il network di BTC utilizza, in questo senso, tre funzioni principali:

  1. La funzione di hash Secure Hash Algorithm (SHA) 256: è un algoritmo che viene utilizzato da Bitcoin per garantire l’integrità delle informazioni memorizzate in un blocco. La SHA-256 è unidirezionale, ovvero è possibile generare un hash (o impronta digitale) da qualsiasi contenuto ma, al contrario, non è possibile svolgere il procedimento inverso, ovvero non si può risalire al contenuto partendo dall’hash. Il risultato di questa funzione crittografica, che viene utilizzata principalmente nel processo di mining, in particolare per creare l’hash del blocco e garantire il funzionamento del meccanismo di consenso Proof-of-Work, è sempre un codice alfanumerico di 64 caratteri, codificato in 256 bit o 32 byte ed essa;
  1. RIPEMD-160: questa è un’altra funzione hash crittografica usata in Bitcoin, principalmente per ridurre la lunghezza degli hash SHA-256 da 256 bit a 160 bit. Questo ridimensionamento viene utilizzato nella creazione dell’indirizzo Bitcoin, che inizia con un hash SHA-256 della chiave pubblica seguito da un hash RIPEMD-160;
  1. Le Curve Ellittiche: Bitcoin usa l’Elliptic Curve Digital Signature Algorithm (ECDSA) per garantire che le monete possano essere spese solo dal legittimo proprietario. La curva specifica usata in Bitcoin è la secp256k1, che aiuta a generare la chiave pubblica dalla chiave privata e a firmare le transazioni.

Bisogna anche specificare che Bitcoin utilizza funzioni crittografiche che siano battle tested. Ciò significa che esse non sono funzionanti soltanto a livello matematico ma sono state già testate “sul campo” per diversi anni, o addirittura, decenni. 

Guarda il prezzo di BTC

Perché i computer quantistici sono una minaccia?

È arrivato il momento di rispondere alla domanda centrale di questo articolo: Bitcoin può essere hackerato?

Per farlo ci concentreremo sulla modalità teoricamente più possibile, ottenere il controllo di più del 50% della potenza computazionale della rete, e quindi effettuare un 51% attack. Se un hacker riuscisse in questa impresa potrebbe, potenzialmente, spendere due volte i Bitcoin, il che porterebbe al fallimento dell’intera blockchain

Scongiurare la minaccia della doppia spesa (double spending) è stato uno degli obiettivi principali del creatore di Bitcoin Satoshi Nakamoto. D’altronde, BTC non sarebbe andato lontano se qualcuno avesse potuto impiegare la stessa somma in più scambi economici. 

In questo senso i computer quantistici sono sempre stati considerarti una minaccia per Bitcoin e, più in generale, per la crittografia, dato che sono, teoricamente, in grado di effettuare complicatissimi calcoli ad una velocità esponenzialmente più alta rispetto a quelli tradizionali. Queste operazioni matematiche complesse, stanno alla base della sicurezza di Bitcoin, dato che vengono svolte dai miner per validare i blocchi e quindi rendere sicuro l’intero network.

Perché Bitcoin dovrebbe essere al sicuro?

Bitcoin può, davvero, essere hackerato? I quantum computer sono, all’atto pratico, una minaccia o, nel caso in cui la loro adozione dovrebbe crescere, non avranno comunque nessun impatto sul network di BTC? È impossibile dare una risposta certa a questa domanda. Tuttavia, possiamo analizzare alcuni dati e toerie per fare chiarezza sulla questione. 

Una delle più popolari sostiene che, una volta che questa tecnologia verrà adottata e i computer quantistici diventeranno davvero acquistabili, i miner di Bitcoin saranno tra i primi soggetti ad utilizzarli. In passato essi si sono aggiudicati le componentistiche hardware più avanzate, proprio perché la validazione dei blocchi della rete di BTC è un’attività fortemente competitiva e chi la svolge è fortemente incentivato ad aggiornare costantemente il proprio setup. Attualmente l’80% di questi soggetti possiede macchine estremamente costose, dotate dei chip più potenti in circolazione.

Secondo alcune stime, per replicare la potenza di calcolo in possesso dal 51% dei partecipanti alla rete, bisognerebbe spendere circa 3,7 miliardi di dollari in componenti hardware. Questa cifrà non tiene conto dell’aumento di prezzo che subirebbero i componenti, dato un tale incremento della domanda. Senza considerare poi che l’autore di un attacco di questo tipo non produrrebbe nessun beneficio economico per se stesso, dato che, nel caso in cui andasse a buon fine, ogni Bitcoin perderebbe, istantaneamente, il suo valore.

Insomma, non si trarrebbe alcun vantaggio tendando hackerare Bitcoin, nonostante sia teoricamente possibile, mentre il costo, approssimato per difetto a 3,7 miliardi di dollari, è incredibilmente elevato. Sarebbe più facile, e remunerativo, provare ad hackerare una banca centrale.

Riunione FED dicembre 2025: cos’è successo?

Riunione FED ottobre 2025: cos’è successo?

Riunione FED dicembre 2025: il FOMC taglia i tassi di interesse di 25 punti base (pbs). Quali sono le motivazioni? Come hanno reagito i mercati? 

Si è appena conclusa la riunione della FED del 10 dicembre 2025 in cui il Presidente Jerome Powell ha comunicato la decisione del FOMC sui tassi di interesse. Come previsto, il Comitato ha scelto di tagliare i tassi di 25 pbs, nel range tra il 3,5% e il 3,75%.

Riunione FED dicembre 2025: come da previsione, il FOMC taglia i tassi

Al termine della sua riunione del 10 dicembre 2025, il Federal Open Market Committee (FOMC) ha annunciato la sua attesa decisione sulla politica monetaria statunitense. Il comitato guidato da Jerome Powell ha optato per tagliare i tassi di interesse di 25 pbs, nel range tra il 3,5% e il 3,75%, come ampiamente previsto.

Le motivazioni

I motivi alla base della decisione potrebbero essere sintetizzati in due frasi pronunciate in conferenza stampa da Jerome Powell. Leggiamole insieme. 

La prima ci dà l’idea generale della situazione macroeconomica degli Stati Uniti: “Sebbene alcuni importanti dati del governo federale siano stati ritardati a causa dello shutdown, quelli disponibili del settore pubblico e privato suggeriscono che le prospettive per l’occupazione e l’inflazione non sono cambiate molto dalla nostra riunione di ottobre. Le condizioni del mercato del lavoro sembrano raffreddarsi gradualmente e l’inflazione rimane in qualche modo elevata“.

Nulla di nuovo. Il mercato del lavoro fatica a prendere forza, col tasso di disoccupazione ai massimi da ottobre 2021 – ora al 4,4% – mentre l’inflazione, seppur relativamente sotto controllo, non accenna ad arrestarsi. Quindi lo scenario attuale, afferma Powell, non presenta forti differenze rispetto a settembre. 

Dato che la Federal Reserve, come sappiamo dai tempi di Jackson Hole, adesso maggiore rilevanza al controllo della disoccupazione piuttosto che alla stabilità dei prezzi, un contesto sostanzialmente invariato che permette ai Governatori che presiedono il FOMC di proseguire con una politica monetaria espansiva.

Successivamente, il Presidente della Fed si è concentrato sul mercato del lavoro: “sebbene i dati ufficiali sull’occupazione relativi a ottobre e novembre siano in ritardo, le prove disponibili suggeriscono che sia i licenziamenti che le assunzioni rimangono bassi. Il rapporto ufficiale sul mercato del lavoro per settembre, l’ultimo pubblicato, ha mostrato che il tasso di disoccupazione ha continuato a salire leggermente, raggiungendo il 4,4%, e che l’aumento dei posti di lavoro aveva rallentato in modo significativo rispetto all’inizio dell’anno”.

Powell ci sta dicendo che, nel medio termine, i dati dipingono un quadro occupazione in leggero peggioramento. Sulla base di ciò, la Fed ha deciso di tagliare i tassi per stimolare l’economia e, di conseguenza, provare a ravvivare il mercato del lavoro.  

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La Federal Reserve ritorna al Quantitative Easing, ma soft

Verso la fine del suo speech, Jerome Powell si è focalizzato sul tema del bilancio della Federal Reserve. Il primo giorno di dicembre, infatti, la banca centrale degli USA ha ufficialmente terminato il Quantitative Tightening (QT): ha smesso di ridurre il suo balance sheet con l’idea di mantenerlo flat, cioè stabile.

Col FOMC di dicembre, invece, “il Comitato ha deciso di avviare l’acquisto di titoli del Tesoro a più breve termine – principalmente Treasury bills – con l’unico scopo di mantenere un’ampia disponibilità di riserve nel tempo”. Detto in altre parole, questa dichiarazione di Powell segnala che la Fed ricomincerà a immettere liquidità nel sistema affinché le banche abbiano liquidità a sufficienza per supportare la crescita dell’economia. 

Nello specifico, “gli acquisti per la gestione delle riserve ammonteranno a 40 miliardi di dollari nel primo mese e potrebbero rimanere elevati per alcuni mesi”.

La Federal Reserve, pertanto, torna a un regime di Quantitative Easing (QE), ma soft: per dare un termine di paragone, durante il Covid il QE della Fed prevedeva acquisti di Treasuries per 200 miliardi di dollari al mese, un decimo rispetto alla cifra menzionata qualche riga sopra. 

Gli utili di Oracle rovinano la festa ai mercati

Oracle, l’azienda guidata da Larry Ellison che, recentemente, si è tuffata a capofitto nel business dell’IA con collaborazioni miliardarie con OpenAI e NVIDIA, ha dichiarato le trimestrali intorno alle ore 22 italiane del 10 dicembre, a mercati chiusi. 

Prima di ciò, i tre principali indici di Wall Street avevano reagito molto bene alla notizia del taglio dei tassi: S&P500 e Dow Jones su dello 0,7%, col Nasdaq 100 a +0,8%. Se poi ci concentriamo sulle singole aziende, soprattutto del settore AI-Tech, vediamo che Oracle ha chiuso la seduta a +1,9%, NVIDIA a +0,65%, Broadcom a +1,65%, Meta a +0,8%, Tesla e Google a +1,4%. Anche il mercato crypto ha partecipato alla festa, con Bitcoin ed Ethereum su del 2,5% circa.

Poi è scattata l’ora X, Oracle ha pubblicato i guadagni per il trimestre appena concluso: 16,06 miliardi di dollari contro i 16,21 previsti. Se una società non batte le previsioni non è un buon segno; se questa è una delle top del settore AI, la situazione è ancora più grave. Le paure relative all’AI Bubble si impossessano della mente degli investitori. 

Questo è ciò che succede nel pre-market, a borse ancora chiuse: i futures sull’S&P 500 sono scesi dello 0,6%, quelli sul Dow Jones dello 0,2% e quelli sul Nasdaq 100 dello 0,8%.

Quadro ancora più grave sull’azionario, col crash delle azioni di Oracle, giù dell’11%. Con loro, quelle di NVIDIA (-1,73%), Broadcom (-1,6%), Meta (-0,9%), Tesla e Google (-0,8%). Naturalmente, l’evento ha colpito anche Bitcoin (-4,4%) ed Ethereum (-7,3%) – dal picco  post-FOMC. 

Prossime riunioni della FED: taglio dei tassi all’orizzonte?

Difficile prevedere il comportamento dei banchieri centrali statunitensi, anche perché a maggio 2026 ci sarà un cambio al vertice della Fed – abbiamo scritto un articolo dedicato ai potenziali candidati presidenti

In ogni caso, al momento della scrittura, il FedWatch Tool, a 48 giorni dalla prossima riunione, stima un taglio di 25 pbs al 19,9%, mentre il No Change è dato all’80,1%.
L’appuntamento, quindi, è fra un mese e mezzo abbondante, per il FOMC del 30-31 gennaio: entra nel nostro gruppo Telegram o iscriviti a Young Platform e non perderti le notizie rilevanti che muovono i mercati!

Dove investire oggi? Le strategie sono cambiate?

Dove investire oggi? Le strategie sono cambiate?

Il portafoglio attuale deve tenere in considerazione che il mondo è cambiato e con esso anche le strategie di investimento. Come muoversi?

Investire oggi significa concepire e costruire il portafoglio di investimento come uno strumento in grado di assorbire gli shock esterni senza capitolare: in due parole, dovrebbe  essere diversificato. Fino a qualche anno fa, vi erano alcune linee guida precise e condivise prese come riferimento nel processo di pianificazione finanziaria. Oggi la situazione è cambiata. Che fare?   

Perché bisognerebbe ripensare le strategie di investimento?

Il mondo, negli ultimi 5 anni, è completamente cambiato. Dal 2020 – almeno – stiamo assistendo a una serie di eventi che stanno stravolgendo l’ordine costituito a cui eravamo abituati. 

Tutto ciò che davamo per scontato e immutabile a proposito di interventi militari, alleanze geopolitiche e accordi economici, sta evolvendo verso un nuovo assetto. Per dirla in breve, potremmo essere arrivati al capolinea della fase di globalizzazione assoluta, cominciata con la dissoluzione dell’Unione Sovietica del 1991. 

Le basi: da dove parte tutto ciò?

Il momento di avvio di questo processo di netto cambiamento potremmo collocarlo nel periodo tra gli anni 2018 e 2022. Nel quinquennio, tre accadimenti storici hanno contribuito  a modificare gli equilibri passati: la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, la pandemia da Covid-19 e l’invasione russa dell’Ucraina

La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina

Nel marzo del 2018, infatti, l’amministrazione americana guidata proprio da Donald Trump impose dazi al 25% su circa 50 miliardi di merci importate dalla Cina, a seguito di un report di Robert Lighthizer, Rappresentante per il Commercio USA, in cui si denunciavano alcune pratiche commerciali scorrette da parte della Repubblica Popolare. Questa, naturalmente, rispose e impose tariffe su 128 prodotti strategici americani

Si diede inizio a una guerra commerciale che svelò le criticità di un sistema super connesso, forse troppo dipendente dalla manifattura cinese: il deterioramento dei rapporti coincise con la crisi delle catene di approvvigionamento. Inoltre, i toni di scontro fra le due principali potenze mondiali, che incarnavano – e incarnano tuttora – allo stesso tempo due sistemi economici e politici contrapposti, contribuirono alla riemersione di dinamiche di polarizzazione proprie di tempi passati, soprattutto del periodo della Guerra Fredda. Le cancellerie del mondo tornarono a porsi una vecchia domanda: da quale parte schierarsi? Stati Uniti o Cina? 

La pandemia da Covid-19

Arriviamo al 2020: a febbraio è epidemia, a giugno è pandemia. Il Covid-19 blocca il mondo e Papa Francesco può camminare da solo in Via del Corso a Roma. Iconografie a parte, il lockdown prolungato amplificò i problemi legati alla supply chain, emersi nel biennio precedente, oltre a immobilizzare la produzione nazionale: come riporta Statista, il Prodotto Interno Lordo (PIL) mondiale subì una contrazione del 3,4% o, in dollari, di 2 trillion. Ovviamente, anche i mercati finanziari incassarono il colpo: il Dow Jones (DJI) – l’indice più importante al mondo – perse il 35% circa da metà febbraio a metà marzo. Nello stesso periodo, Bitcoin passò da 9.970$ a 5.300$, una diminuzione del 46,6%. 

Come sappiamo, sia il PIL che i mercati recuperarono dalla botta con un rimbalzo clamoroso: da quel momento ad oggi, il DJI ha guadagnato il 144%, l’S&P500 il 187% e Bitcoin il 2.100% (percentuale che sale a 3.130% se consideriamo l’ATH a 126.000$). 

Iniziarono a circolare le info sui primi vaccini, il panico collettivo si ridusse e la fiducia tornò a livelli accettabili. Ma soprattutto, i governi di tutto il mondo inondarono le rispettive economie con una quantità infinita di liquidità e stimoli fiscali

Prendendo in considerazione solo le tre principali potenze economiche, gli Stati Uniti ratificarono il CARES Act da 2,2 trillion di dollari, la Cina approvò un piano da 3,6 trillion di yuan (circa 500 miliardi di dollari) e l’Unione Europea mise in campo una serie di interventi – i più importanti il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program) e il NextGenerationEU – per un totale di quasi 2 trillion di dollari. A questo, occorre aggiungere le varie misure di politica economica finalizzate a ridurre il costo del denaro: tassi di interesse bassi, quantitative easing e così via. 

Oggi, solo negli USA, la M2 Money Stock, cioè la quantità totale di dollari in circolazione nell’economia reale, ha raggiunto i 22 trillion dai 15,4 trillion di febbraio 2020. A questo punto, un grande problema si iniziava ad aggirarsi fra i corridoi delle banche centrali di tutto il mondo. Un problema su cui noi, in Young Platform, dedichiamo moltissimo tempo: l’inflazione. Ma il “bello doveva ancora arrivare”. 

La Guerra russo-ucraina

Febbraio 2022: la Russia di Putin invade l’Ucraina, è la tempesta perfetta. Sorvolando la questione umanitaria che, pur essendo centrale e gravissima, non è il target del nostro articolo, la Guerra russo-ucraina è considerata il catalizzatore decisivo: il suo scoppio coincide con la conclusione di quel periodo di pace apparente e libera circolazione delle merci reso possibile dalla globalizzazione di stampo americano. 

Russia e Ucraina, prima della guerra, erano nodi vitali per il commercio globale. Basti pensare che, insieme, i due Paesi rappresentavano il 30% circa dell’export mondiale di grano e cereali a basso costo, mentre la Russia era uno dei principali fornitori europei di gas, oltre a ricoprire una posizione di prim’ordine nella fornitura di fertilizzanti in giro per il mondo – necessari all’agricoltura. 

Con la guerra, tutto ciò cessa di esistere. La conversione delle economie russa e ucraina a economie di guerra provoca grandi difficoltà strutturali all’interno dei due Paesi, che non producono più ai livelli pre-conflitto e non riescono a soddisfare la domanda. Inoltre, le filiere ora sono politicizzate: se prima si comprava dove era conveniente, adesso si cerca di acquistare dagli alleati, anche a prezzi più alti (sanzionando i nemici). Infine, il danneggiamento e i blocchi strategici delle infrastrutture logistiche – come i porti ucraini del Mar Nero – costituiscono un impedimento permanente all’accesso delle risorse.

Lo stato attuale delle cose

Sono definitivamente crollati alcuni tra i pilastri che resero possibile la creazione di un’economia globale interconnessa ed efficiente, come la disponibilità costante di materie prime a basso costo, il trasporto internazionale a costi irrisori e la sicurezza logistica, ovvero la certezza di ricevere merci senza interruzioni o ritardi. In poche parole: è la fine del modello JIT (Just-In-Time).

È cambiato il paradigma. La priorità è la sicurezza degli approvvigionamenti, non l’efficienza, anche in virtù della politicizzazione delle supply chain menzionata poco fa. L’esempio più recente è la decisione della Cina di limitare l’accesso alle terre rare su base discrezionale, a cui Trump ha risposto imponendo tariffe al 100%: l’emergenza è “rientrata” in pochi giorni, ma queste tensioni hanno causato liquidazioni per miliardi di dollari

L’inflazione diventa un problema persistente in quanto sistemico, anche perché è importata, cioè a monte: se prima il fornaio vendeva il pane a 5 perchè pagava le bollette 2 e la farina 1, tenendo per sé un altro 1, adesso paga le bollette 3 perchè non può più avvalersi del gas russo a basso costo, la farina 2 ed è costretto ad alzare il prezzo finale per guadagnare 1 – abbiamo approfondito l’argomento dopo esserci chiesti per quale motivo il prezzo del pane aumentasse di anno in anno

In Italia, per esempio, dal 2004 al 2021 i prezzi sono cresciuti a ritmo lento e costante: come riporta Pagella Politica, in 17 anni l’incremento è stato pari al 28%, con una media annua dell’1,5%. Solamente nel 2022, invece, l’indice generale dei prezzi è salito dell’11%, per scendere all’8% nel 2023 e tornare al 2% nel 2024. Detto in un altro modo, per utilizzare le parole degli autori della ricerca, “poco meno della metà dell’incremento accumulato in vent’anni si è quindi concentrato in soli tre anni”.

Ora che abbiamo un quadro chiaro delle trasformazioni in atto e delle loro cause, è arrivato il momento di rispondere alla domanda centrale. 

Investire oggi: cosa è necessario considerare? 

Nel mondo attuale, la variabile principale da considerare quando si vuole costruire un portafoglio – come abbiamo visto – è l’alta inflazione, ormai elemento costitutivo del nostro sistema economico. 

In passato, nel mondo degli investimenti, una “regola” in particolare ha influenzato l’arte della diversificazione per moltissimo tempo: il celebre portafoglio 60/40. In due parole, questa stabiliva che il portafoglio perfetto dovesse essere composto per il 60% dall’azionario e per il 40% dall’obbligazionario

Il motivo è semplice: la correlazione negativa tra le due asset class. Questo perché, nel “vecchio mondo”, nei periodi di crescita economica le azioni performavano meglio delle obbligazioni e, al contrario, nei momenti di recessione le obbligazioni – o bond – compensavano le perdite delle azioni. In questo momento storico, tuttavia, il portafoglio 60/40 potrebbe non essere più così valido

Azioni e obbligazioni sono sempre più correlate e le seconde sarebbero gradualmente perdendo lo status di safe haven – rifugio sicuro per preservare il capitale – in favore di altri asset. 

L’inflazione, infatti, costituisce un grosso problema per le obbligazioni, per almeno due motivi: in primo luogo gli investitori che le detengono ricevono in cambio degli interessi fissi, o cedole, che si stanno rivelando inadatti a proteggere il capitale dalla perdita di potere d’acquisto; in secondo luogo, con un’inflazione così radicata, le banche centrali sono costrette a tenere i tassi alti provocando, in ultima istanza, una discesa del valore delle obbligazioni

Per fare esempio, prendiamo il TLT, un ETF che permette agli investitori di esporsi sui titoli di stato USA con scadenze superiori ai 20 anni: dal suo lancio nel 2002, fino al 2020, il TLT ha performato abbastanza bene, crescendo in modo lento ma costante, mettendo a segno il +100% circa, con l’ATH proprio nella prima settimana di marzo 2020. Da quel momento, tuttavia, è iniziato un declino clamoroso: da aprile 2020 ad oggi, questo ETF ha perso più del 40%. Se avessi investito nel TLT al day zero nel 2002, oggi avresti guadagnato il 10% scarso

Dove investire i soldi oggi?

Naturalmente, prima di cominciare questa sezione, è necessario ricordare che ciò che leggerete qui non sono consigli di investimento, o consigli finanziari (come dice la formula), ma solo considerazioni che prendono piede dalla lettura di pareri di esperti – il disclaimer, quello preciso e accurato, è in fondo all’articolo. 

Detto ciò, un’analisi interessante proviene dalle mura di Goldman Sachs, più precisamente dalla sezione dedicata alle analisi di mercato, la Goldman Sachs Research. Nello studio, coerentemente con quanto scritto finora, si legge che una strategia di “accettazione passiva”, come l’investimento in indici globali (World Portfolio), potrebbe non essere più così funzionale. Al contrario, potrebbe essere più adatto il cosiddetto Strategic Tilting, letteralmente “Inclinazione Strategica”, ovvero la gestione quasi attiva del proprio portafoglio per salvaguardarsi dalle vulnerabilità attuali – inflazione in primis. 

Fare Strategic Tilting, dunque, significa diversificare ma in modo consapevole. Una metafora semplice, che ci aiuta a comprendere il concetto, arriva dall’ambito culinario

Immagina di voler preparare la tua torta preferita, quella che ti ha insegnato nonna da piccolo quando tornavi da scuola. Bene, la ricetta di nonna, con le quantità e i tempi di cottura, funzionava perfettamente col forno di casa di nonna. Il tuo forno, invece, scalda di più

È una variabile che devi considerare, altrimenti la torta verrà totalmente differente e, magari, bruciata. Pertanto soppesi gli ingredienti in modo tale che il problema del tuo forno venga minimizzato: dei 500 grammi di farina, ne togli 50 per sostituirli con altri 50 grammi di amido per ammorbidire. 

Ora, la ricetta classica di tua nonna è l’indice globale, che funzionava perfettamente col vecchio forno (il “vecchio mondo”). Il forno nuovo, tuttavia, è più potente – il contesto macroeconomico è diverso, l’inflazione è strutturale. Per questo motivo, hai cambiato gli ingredienti o, in termini finanziari, hai gestito attivamente – ma non troppo – le tue allocazioni, affinchè la torta (l’investimento) possa performare al meglio. Questo è lo Strategic Tilting

L’analisi, in merito, descrive cinque macroaree da considerare per mitigare i rischi. 

  1. Protezione dall’inflazione: il portafoglio 60/40, lo abbiamo visto, fatica a proteggere il capitale dall’erosione inesorabile dell’inflazione. Per questo motivo, spiegano gli esperti della sezione Research, è necessario ribilanciarlo incrementando l’esposizione agli asset reali – immobiliare, materie prime e risorse naturali – e all’oro. In merito, il Chief Information Officer di Morgan Stanley Mike Wilson ritiene che il nobile metallo debba pesare almeno il 20%. Con la speranza che non si verifichino altri crash come quello di ottobre.
  2. Protezione dalla fine del dominio degli Stati Uniti: nuove potenze sfidano quotidianamente la leadership degli USA nel mondo, Cina in testa. Per questa ragione, le azioni non-statunitensi meriterebbero maggiore attenzione al momento in cui si pianifica una strategia a medio-lungo termine.
  3. Protezione dal dollaro debole (Pt.1): la causa e allo stesso tempo la conseguenza del secondo punto. Se gli Stati Uniti perdessero la leadership, il dollaro smetterebbe di essere il centro della finanza mondiale. Il discorso vale anche al contrario: se la dedollarizzazione prendesse forza, gli USA cederebbero il comando. In funzione di ciò, i mercati emergenti, storicamente correlati negativamente col dollaro, potrebbero rappresentare un’ancora di salvezza. 
  4. Protezione dal dollaro debole (Pt.2): per tutelarsi da questo fenomeno, ha senso anche ridurre l’esposizione in USD e iniziare a guardare verso altri lidi, come euro franco svizzero.
  5. Protezione dalla volatilità: le azioni Tech statunitensi, che hanno un peso immenso nell’S&P500 e nel Nasdaq, sono molto volatili. Per esempio, le trimestrali di NVIDIA hanno spostato il titolo dell’8% in un giorno – da +5% a -3% in una seduta. In questo senso, le azioni low volatility possono attenuare gli scossoni: utilities (aziende che forniscono servizi di pubblica utilità) e healtcare (salute pubblica). 

Le strategie sono cambiate?

Per rispondere alla domanda di apertura: si, le strategie sono cambiate. I nuovi paradigmi di investimento, per essere al passo coi tempi, dovrebbero inserire nell’equazione alcuni parametri che ormai non possono essere più ignorati. Le scuole di pensiero sono molte e propongono approcci diversi fra loro. Il denominatore comune, però, è uno: il portafoglio 60/40, massima espressione di un mondo ormai passato, potrebbe non essere più la cura per tutti i mali
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Disoccupazione e Non Farm Payroll: i dati USA

Occupazione USA: i dati e le reazioni dei mercati

Sono usciti i dati sull’occupazione negli Stati Uniti: Non Farm Payrolls e disoccupazione. Come hanno reagito i mercati?

Nella giornata di giovedì 20 novembre, il BLS (Bureau of Labor Statistics) americano ha comunicato i dati relativi al mercato del lavoro. Nello specifico, sono uscite le rilevazioni sui Non Farm Payrolls (NFP), cioè i nuovi posti di lavoro creati al netto del settore agricolo, e sul tasso di disoccupazione. Qual è la situazione? Come si sono comportati i mercati e perchè? 

I dati: Non Farm Payroll e tasso di disoccupazione 

La rilevazione del 20 novembre è la prima dalla fine ufficiale dello shutdown, che ha impedito la raccolta dei dati per ottobre, e si riferisce al mese di settembre. Ma andiamo subito al sodo: i NFP (Non Farm Payroll) sono cresciuti di 119.000 unità, un dato di molto superiore rispetto alle aspettative che stimavano 50.000 nuovi posti di lavoro, mentre il tasso di disoccupazione sale al 4,4%, sopra dello 0,1% rispetto alle previsioni e alle misurazioni precedenti. 

Le implicazioni 

Come è noto, il mondo della finanza fremeva dalla voglia di conoscere queste rilevazioni dal momento che, come abbiamo ricordato, i dati di ottobre non sono stati resi noti. 

In ottica tassi di interesse, il mercato del lavoro è un indicatore preso in forte considerazione, soprattutto da quando il Presidente della Federal Reserve Jerome Powell, nel suo discorso a Jackson Hole, ha confermato il cambio di priorità: nel valutare le mosse di politica monetaria, la banca centrale statunitense ora dà più rilievo al contenimento della disoccupazione piuttosto che alla stabilità dei prezzi. 

Sulla base di queste dichiarazioni, la catena logica che guida gli investitori da almeno due mesi è la seguente: se i NFP sono inferiori alle previsioni e il tasso di disoccupazione sale, allora è molto probabile che il prossimo meeting del FOMC vedrà un taglio dei tassi. Effettivamente, è stato così fino all’ultima riunione. In questa occasione, tuttavia, il Presidente Powell ha pronunciato delle frasi che hanno impaurito i mercati, una su tutte:  “Un ulteriore taglio dei tassi di interesse di riferimento alla riunione di dicembre non è scontato, anzi” – se ti interessa, abbiamo approfondito tutto questo in un articolo dedicato ai tassi e al prossimo FOMC.

In ogni caso, quanto comunicato oggi dal BLS in merito alla situazione lavorativa negli USA non ha contribuito minimamente a diradare la nebbia: molti posti di lavoro creati ma tasso di disoccupazione in salita.

Le previsioni sul FOMC di dicembre

Il FedWatch del CME Group, uno strumento che calcola le probabilità del taglio dei tassi da parte del FOMC sulla base dei prezzi dei futures sui Fed Funds, attualmente dà il No Change al 58,4%, mentre il taglio di 25 punti base – cioè dello 0,25% – è probabile al 41,6%. Ma si tratta di percentuali totalmente provvisorie che cambiano di ora in ora: saranno sicuramente meno mobili a ridosso della riunione. 

Anche su Polymarket gli scommettitori si aspettano un esito simile, ma leggermente più sbilanciato: la probabilità di No Change è data al 66%, quella del taglio di 25 punti base all’34%

Come hanno reagito i mercati?

Al momento in cui scriviamo, c’è moltissima volatilità sull’azionario, soprattutto a causa del rilascio delle trimestrali di NVIDIA. Il titolo del colosso dei microchip, spinto dagli ottimi utili, nel pre market è volato a +5%, per poi perdere tutto quello che aveva guadagnato e scendere sotto ai livelli dell’ultima chiusura a -1,8%

Stessa identica cosa per i principali indici di Wall Street, che hanno emulato i movimenti di NVIDIA: Dow Jones, S&P500 e Nasdaq 100 hanno aperto a razzo per poi riassestarsi. Attualmente, i tre indici oscillano fra il -0,6% e il +0,8%.

Il mercato crypto, suo malgrado, subisce quanto sopra: Bitcoin sta perdendo il 4,9% e viaggia in zona 87.000$, così come Ethereum, che fa peggio e cede il 6,7%: attualmente si trova sui 2,810$. Solana segue ma fa meglio di ETH e cala del 5,2%, fermandosi sui 130$. Chiudiamo questa sezione con la Total Market Cap, che scende sotto la soglia dei 3 trillion, precisamente a 2,94T

Il DXY, che misura l’andamento del dollaro contro le principali sei valute mondiali, resta invariato rispetto a ieri, giornata in cui aveva messo a segno un +0,5%, mentre l’oro è in flessione dello 0,7%, continuando sui 4.000$.

What’s next?

Nei prossimi giorni, con ogni probabilità, assisteremo a un mercato estremamente volatile, in particolare lato crypto: il momento attuale, infatti, è condizionato da una forte emotività che può spostare miliardi di capitale in poche ore. 
In ogni caso, noi saremo qui ad aggiornarti sulle notizie e sui fatti che muovono i mercati. Iscriviti al nostro canale Telegram – se già sei dentro condividi il link con amici e amiche interessati – e a Young Platform per non perderti ciò che conta!

Trimestrali: il calendario delle principali aziende quotate in borsa

Trimestrali NVIDIA e azionario: calendario e previsioni

Scopri il calendario dei dati trimestrali di NVIDIA e delle aziende più importanti dell’azionario

Il calendario dei dati trimestrali di NVIDIA e delle aziende più importanti dell’azionario è uno strumento essenziale per seguire al meglio i mercati. Ogni tre mesi, NVIDIA e tutte le aziende quotate sono tenute a pubblicare le trimestrali. Questi report contengono i risultati finanziari dell’azienda per l’ultimo trimestre, tra cui ricavi, profitti, spese, previsioni future e molto altro.

Scopri perché sono importanti, come influenzano le decisioni degli investitori e il calendario completo e aggiornato in questo articolo.

Trimestrali: perché le aziende come NVIDIA devono pubblicarle?

Prima di addentrarci nel calendario delle trimestrali di NVIDIA e delle altre aziende principali del mercato azionario, è utile capire alcune caratteristiche di questi report. Innanzitutto, va specificato che la pubblicazione di questi documenti è un obbligo normativo, volto a garantire un livello di trasparenza accettabile all’interno dei mercati. 

La pubblicazione delle trimestrali consente agli investitori di valutare l’andamento di un’azienda, comprendendo se sta crescendo, se è in grado di registrare profitti e fornendo gli elementi necessari per decidere se comprare o vendere le sue azioni.

Le trimestrali non sono solo un’indicazione della salute finanziaria di un’azienda, ma anche uno strumento per confrontarla con i suoi competitor. Per esempio, i risultati di NVIDIA possono essere utilizzati per confrontare l’azienda con altre nel settore tecnologico. Nel 2025, per esempio, la quotazione delle azioni di NVIDIA, che produce GPU, è cresciuta del 32% circa, portando la capitalizzazione di mercato dell’azienda a 4,38 trillion di dollari. 

Il prezzo delle azioni rappresenta il valore reale di NVIDIA? La market cap è ancora giustificata? Le risposte a queste domande, almeno in parte, possono essere trovate analizzando le trimestrali.

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Come influenzano i mercati

Le trimestrali di NVIDIA, così come quelle di tante altre aziende quotate, hanno un impatto significativo sui mercati. Tuttavia, l’effetto che queste hanno non è mai scontato e richiede esperienza e una comprensione approfondita per essere interpretato correttamente.

Intuitivamente, si potrebbe pensare che, quando i risultati di un’azienda sono positivi, il prezzo delle sue azioni è destinato a salire. In realtà, la reazione del mercato a questi dati non è così lineare.

La verità è che non esiste una formula precisa per prevedere come reagirà il mercato ai dati trimestrali. Le reazioni possono essere influenzate da molteplici fattori. Le aspettative degli investitori sono cruciali: se i risultati di un’azienda sono in linea con le previsioni degli analisti, o meglio ancora li superano, il titolo tenderà a salire. Tuttavia, se i risultati sono positivi ma non riescono a superare le aspettative, il titolo potrebbe scendere.

Un altro fattore determinante è il contesto macroeconomico. I mercati adesso si trovano in un periodo di incertezza e debolezza a causa dell’atteggiamento imprevedibile di Donald Trump, che impedisce agli investitori di avere una visione chiara del prossimo futuro, e del caos geopolitico causato dalle guerre in corso.

In questa situazione altalenante, anche una trimestrale positiva potrebbe non ricevere l’attenzione che merita. Per esempio, se durante il prossimo Federal Market Open Committee (FOMC) la Federal Reserve dovesse alzare o mantenere invariati i tassi di interesse, anche dei risultati trimestrali ottimi potrebbero non influire positivamente: in due parole, le politiche monetarie restrittive innescano la fuga del capitale dal mercato azionario verso alternative meno rischiose, come le obbligazioni e i titoli di stato. 

Infine non si possono non citare altri aspetti che giocano un ruolo centrale. La dimensione dell’azienda, il settore in cui opera, le quote di mercato e la sua reputazione sono tutti fattori che possono avere un effetto sulle percezioni e sulle reazioni del mercato ai risultati trimestrali. 

Trimestrali NVIDIA: utili da record per il Q3

Mercoledì 19 novembre, alle 22 circa, il CEO di NVIDIA Jensen Huang ha comunicato al mondo gli utili del terzo trimestre: 57 miliardi di dollari, una cifra superiore di poco più di 2 miliardi rispetto ai 54,89 previsti.

Le azioni NVIDIA, subito dopo la notizia, sono arrivate a guadagnare fino al 5,25%. Si tratta, infatti, di un risultato da record, dal momento che gli earnings del colosso dei microchip sono superiori del 22% sul Q2 (QoQ, quarter-on-quarter) e del 62% sullo stesso trimestre dell’anno scorso (YoY, year-on-year).

Una performance del genere, inoltre, ha raffreddato i timori relativi all’AI Bubble, che da un paio di settimane stavano inquietando gli animi dei maggiori player finanziari: le paure di una bolla del comparto dell’intelligenza artificiale, “ufficializzata” dalla scommessa di Michael Burry contro Palantir e la stessa Nvidia, avevano portato i titoli principali dell’S&P500 e del Nasdaq 100 a perdere più del 10% dai massimi toccati alla fine di ottobre.

Infatti, un profitto superiore del 22% rispetto a tre mesi fa, tenderebbe a giustificare il valore delle azioni di Nvidia in primis e, per estensione, delle restanti sei del gruppo “Magnificent 7” – Alphabet, Amazon, Apple, Meta Platforms, Microsoft e Tesla.

Huang, durante l’earning call, ha dichiarato che “le vendite di Blackwell sono alle stelle e le GPU cloud sono sold out. La domanda di potenza di calcolo continua a crescere in modo esponenziale“. Ha poi concluso affermando che “l’ecosistema dell’AI sta crescendo rapidamente” e che “l’AI sta arrivando ovunque, facendo di tutto, contemporaneamente”. Parole che, evidentemente, scacciano i fantasmi di un crash del settore – almeno temporaneamente.

Calendario e storico 

Giovedì 4 settembre 2025

  • Broadcom – Market Cap: 1,65 trilioni di dollari | Utili: 15,95 miliardi di dollari (contro i 15,82 previsti)

Martedì 9 settembre 2025

  • Oracle – Market Cap: 830,46 miliardi di dollari | Utili: 14,93 miliardi di dollari (contro i 15,03 previsti)

Giovedì 25 settembre 2025

  • Costco – Market Cap: 414,96 miliardi di dollari | Utili: 86,16 miliardi di dollari (contro gli 86,08 previsti)

Martedì 30 settembre 2025

  • Nike – Market Cap: 99,59 miliardi di dollari | Utili: 11,72 miliardi di dollari (contro gli 10,79 previsti)

Martedì 14 ottobre

  • JPMorgan – Market Cap: 810,02 miliardi di dollari | Utili: 46,43 miliardi di dollari (contro i 45,25 previsti)
  • Wells Fargo – Market Cap: 262,24 miliardi di dollari | Utili: 21,43 miliardi di dollari (contro i 21,14 previsti)
  • Goldman Sachs – Market Cap: 237,63 miliardi di dollari | Utili: 15,18 miliardi di dollari (contro i 14,13 previsti)
  • BlackRock – Market Cap: 180,1 miliardi di dollari | Utili: 6,51 miliardi di dollari (contro i 6,29 previsti)

Mercoledì 15 ottobre 2025

  • Bank of America – Market Cap: 375,85 miliardi di dollari | Utili: 28,09 miliardi di dollari (contro i 27,48 previsti)
  • Morgan Stanley – Market Cap: 252,44 miliardi di dollari | Utili: 18,22 miliardi di dollari (contro i 16,66 previsti)

Venerdì 17 ottobre 2025

  • American Express – Market Cap: 238,77 miliardi di dollari | Utili: 18,43 miliardi di dollari (contro i 18,05 previsti)

Martedì 21 ottobre 2025

  • Netflix – Market Cap: 477,45 miliardi di dollari | Utili: 11,51 miliardi di dollari (contro i 11,51 previsti)
  • Coca Cola – Market Cap: 304,62 miliardi di dollari | Utili: 12,5 miliardi di dollari (contro i 12,41 previsti)

Mercoledì 22 ottobre 2025

  • Tesla – Market Cap: 1,46 trillion di dollari | Utili: 28,1 miliardi di dollari (contro i 26,22 previsti)
  • IBM – Market Cap: 267,82 miliardi di dollari | Utili: 16,33 miliardi di dollari (contro i 16,09 previsti)

Martedì 28 ottobre 2025

  • Visa – Market Cap: 662,08 miliardi di dollari | Utili: 10,7 miliardi di dollari (contro i 10,61 previsti)
  • UnitedHealth – Market Cap: 312,23 miliardi di dollari | Utili: 113,2 miliardi di dollari (contro i 113,04 previsti)

Mercoledì 29 ottobre 2025

  • Microsoft – Market Cap: 3,91 trillion di dollari | Utili: 77,7 miliardi di dollari (contro i 75,32 previsti)
  • Alphabet – Market Cap: 3,4 trillion di dollari | Utili: 105,35 miliardi di dollari (contro i 99,79 previsti)
  • Meta Platforms – Market Cap: 1,67 trillion di dollari | Utili: 51,24 miliardi di dollari (contro i 49,36 previsti)

Giovedì 30 ottobre 2025

  • Apple – Market Cap: 4,03 trillion di dollari | Utili: 102,5 miliardi di dollari (contro i 101,69 previsti)
  • Amazon – Market Cap: 2,38 trillion di dollari | Utili: 180,2 miliardi di dollari (contro i 177,75 previsti)
  • Mastercard – Market Cap: 498,17 miliardi di dollari | Utili: 8,6 miliardi di dollari (contro i 8,54 previsti)

Sabato 1 novembre 2025

  • Berkshire Hathaway – Market Cap: 1,08 trillion di dollari | Utili: 94,97 miliardi di dollari (contro i 95,65 previsti)

Martedì 5 novembre 2025

  • McDonald’s – Market Cap: 215,6 miliardi di dollari | Utili: 7,08 miliardi di dollari (contro i 7,1 previsti)

Mercoledi 19 novembre 2025

  • NVIDIA – Market Cap: 4,53 trillion di dollari | Utili: 57 miliardi di dollari (contro i 54,89 previsti)

Giovedì 20 novembre 2025

  • Walmart – Market Cap: 902,96 miliardi di dollari | Utili: 179,5 miliardi di dollari (contro i 177,4 5 previsti)

Mercoledì 10 dicembre 2025

  • Oracle – Market Cap: 635,76 miliardi di dollari | Utili: 16,1 miliardi di dollari (contro i 16,2 previsti)

Giovedi 11 dicembre 2025

  • Broadcom – Market Cap: 1,89 trillion di dollari
  • Costco – Market Cap: 388, 2 miliardi di dollari

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Tassi Fed: il prossimo FOMC spaventa i mercati?

Tassi Fed: il prossimo FOMC spaventa i mercati?

Tassi, Fed indecisa sulle prossime mosse: l’esito del FOMC di dicembre non è scontato come quelli di settembre e ottobre. Cosa prevedono gli analisti? 

I tassi della Fed influenzano notevolmente i mercati finanziari: gli investitori, consapevoli dell’importanza dei tassi di interesse, cercano di anticipare le decisioni del FOMC (Federal Open Market Committee) per posizionarsi al meglio. Rispetto alle ultime due riunioni, in cui gli esiti erano praticamente scontati, il meeting di dicembre presenta numerose incognite: qual è l’esito più probabile? 

Cosa è successo in occasione dell’ultimo FOMC?

La Fed, lo scorso 28-29 ottobre, si è riunita nella sede principale di Washington per discutere in merito alla situazione macroeconomica e decidere cosa fare coi tassi di interesse: il Consiglio, con dieci voti favorevoli su dodici, ha optato per il taglio di 25 punti base, abbassando i tassi dello 0,25%, nel range fra il 3,75% e il 4%. 

L’esito, come abbiamo anticipato, era ampiamente previsto e già scontato dai mercati che, infatti, crescevano da settimane – con l’eccezione dello stop del 10 ottobre, quando Trump ha annunciato tariffe al 100% alla Cina.

Ma è stata la conferenza stampa successiva al meeting il vero momento chiave. Qui il Presidente della Federal Reserve Jerome Powell, nell’elencare le motivazioni alla base del taglio, ha pronunciato una frase molto pesante: “Un ulteriore taglio dei tassi di interesse di riferimento alla riunione di dicembre non è scontato, anzi”. Mercati nel caos.

Da quando Powell ha pronunciato quelle parole ad ora – cioè al momento in cui scriviamo – i principali indici azionari sono entrati in una fase di forte difficoltà: l’S&P500 ha perso il 4,5%, il Dow Jones il 3,6%, il Nasdaq 100 il 6,4%. 

Anche il mercato crypto, naturalmente, ha accusato la botta, con Bitcoin che dal 29 ottobre è giù di 18,5 punti percentuali ed Ethereum di quasi 23. Nel complesso, da quel fatidico giorno, la total market cap si è ridotta di 640 miliardi di dollari, da 3,75 trillion a 3,11 trillion.

Fed, shutdown e blocco della pubblicazione dei dati macroeconomici 

Powell, durante quella conferenza stampa, ha risposto alle domande di alcuni giornalisti a proposito del blocco delle attività federali causate dallo shutdown. In particolare, le curiosità si sono concentrate sull’atteggiamento che la Fed potrebbe adottare in occasione del prossimo FOMC, in un contesto di quasi totale assenza di dati cruciali per l’analisi dello scenario macroeconomico.  

Già lo stesso Powell aveva menzionato le difficoltà le difficoltà del momento, affermando che “nonostante alcuni importanti dati siano stati ritardati a causa dello shutdown, quelli del settore pubblico e privato che sono rimasti disponibili suggeriscono che le prospettive per l’occupazione e l’inflazione non sono cambiate molto dalla nostra riunione di settembre”. 

Sul tema, in ogni caso, la risposta più interessante è quella fornita dal Presidente della Fed ad Howard Schneider, della nota testata Reuters. Il giornalista, giustamente, gli chiede se la mancanza di informazioni chiave, come l’inflazione o l’occupazione, avrebbe potuto portare i membri della banca centrale statunitense a “fare politica monetaria basandosi sugli aneddoti”, cioè sui dati qualitativi – come le opinioni personali – piuttosto che sui modelli economici fondati sui dati quantitativi. 

Powell, inizialmente, ha affermato che “si tratta di una situazione temporanea” e che “faremo il nostro lavoro”. Ha poi continuato dicendo: “Se mi chiedi se potrà influenzare la riunione di dicembre, non sto dicendo che succederà, ma sì, puoi immaginarlo… cosa fai quando stai guidando nella nebbia? Rallenti”.

Insomma, la conferenza stampa dell’ultimo FOMC ci ha regalato un Jerome Powell apparentemente ancora più cauto del classico “we’ll wait and see” – aspetteremo e valuteremo – che ha contraddistinto i primi sei mesi del 2025. Un Jerome Powell determinato, che vuole portare avanti il suo compito fino all’ultimo, anche se a maggio 2026 lascerà il vertice per far spazio al nuovo Presidente della Fed.

Tassi Fed: cosa prevedono analisti e prediction market?

Anche qui la questione è totalmente aperta. Fondamentalmente, le voci più autorevoli si distribuiscono su due fazioni: taglio di 25 punti base contro No Change (tassi invariati). Del taglio di 50 punti base, ovviamente, neanche l’ombra. 

La prima fazione, quella del taglio di un quarto di punto, fa leva sulla debolezza del mercato del lavoro e, in particolare, sul rallentamento delle assunzioni: in un sondaggio somministrato da Reuters a 105 economisti, 84 hanno scommesso sul taglio di un quarto di punto, mentre i restanti 21 hanno scelto l’opzione No Change. 

In particolare, Abigail Watt, economista presso UBS, ha giustificato il suo voto a Reuters affermando che “la sensazione generale è che il mercato del lavoro appaia ancora relativamente debole e questa è una delle ragioni chiave per cui riteniamo che il FOMC effettuerà il taglio a dicembre”. Watt prosegue precisando che cambierebbe opinione qualora uscissero dei dati che “smentissero questo senso di debolezza”. 

La seconda fazione, quella dei tassi invariati, invece prende come principale argomentazione le parole di Powell che abbiamo riportato sopra: “le prospettive per l’occupazione e l’inflazione non sono cambiate molto dalla nostra riunione di settembre”. 

Per esempio Susan Collins, Responsabile della Fed di Boston, è di questa idea ed è convinta che il terzo taglio di fila potrebbe alimentare l’inflazione in una fase in cui l’impatto delle tariffe trumpiane non è ancora chiarissimo. Precisamente, ha dichiarato a CNBC che “sarà probabilmente appropriato mantenere i tassi di interesse al livello attuale per un certo periodo di tempo, al fine di bilanciare i rischi di inflazione e occupazione in questo ambiente di alta incertezza”. 

I tassi di interesse secondo il FedWatch Tool e Polymarket

Il FedWatch è uno strumento finanziario fornito dal CME (Chicago Mercantile Exchange) che calcola le probabilità implicite delle future decisioni della Federal Reserve sui tassi di interesse. Perchè “implicite”? Perché deduce le probabilità basandosi sui prezzi di mercato dei futures sui Federal Funds a 30 giorni e non su opinioni, appunto, esplicite. 

In parole semplici, il FedWatch riporta le aspettative del mercato guardando il portafoglio degli investitori: se dice “Probabilità di taglio all’80%“, significa che l’80% dei soldi investiti oggi nel mercato sta scommettendo che ci sarà un taglio

Attualmente, secondo questo strumento, il taglio di 25 punti base è probabile al 48,9%, mentre il No Change si attesta al 51,6%. Il mercato, pertanto, è convinto che la Fed lascerà i tassi invariati. 

Passando rapidamente al prediction market più famoso del momento, cioè Polymarket, il risultato è ancora più incerto: taglio di 25 punti base al 49%, No Change al 47%, taglio di 50 punti base al 2% e aumento di 25 punti base all’1% circa – se ti interessa sapere il suo funzionamento, abbiamo scritto un articolo di Academy dedicato proprio a Polymarket

Cosa farà la Federal Reserve? 

La Fed, come abbiamo spiegato finora, dovrà tenere in considerazione un gran numero di variabili prima che il suo Presidente esca dalla saletta, si avvicini al microfono e pronunci il noto “Good afternoon
A prescindere dall’esito, noi saremo qui a raccontartelo: il consiglio spassionato è di iscriverti al nostro canale Telegram e a Young Platform cliccando qui sotto, in modo da non perderti gli eventi che condizionano i mercati. Alla prossima!

Le informative contenute in questo articolo hanno finalità esclusivamente divulgative. Non costituiscono in alcun modo una consulenza finanziaria, legale o fiscale, né una sollecitazione o offerta al pubblico di strumenti o servizi di investimento, ai sensi del D. Lgs. 58/1998 (TUF). L’investimento in cripto-attività comporta un rischio elevato di perdita – anche totale – del capitale investito. Le performance passate non garantiscono risultati futuri. L’utente è invitato a compiere valutazioni autonome e consapevoli prima di assumere decisioni economiche e/o di investimento.

Young Platform sostiene Fondazione Umberto Veronesi ETS

Young Platform al fianco di Fondazione Umberto Veronesi ETS per la ricerca sui tumori pediatrici

Young Platform è al fianco di Fondazione Veronesi e mette a disposizione l’infrastruttura per poter ricevere le donazioni in criptovalute: la ricerca sui tumori pediatrici può contare su un nuovo canale di sostegno

Young Platform, con grande orgoglio, scende in campo per sostenere la ricerca sui tumori pediatrici e lo fa con Fondazione Veronesi, un vero e proprio punto di riferimento per il finanziamento della ricerca oncologica e per la promozione di campagne di prevenzione e divulgazione scientifica sulla salute e i corretti stili di vita.

La situazione in Italia 

In Italia, secondo i dati più recenti, ogni anno vengono diagnosticati quasi 1.500 nuovi casi di tumore in età pediatrica, compresa cioè tra i 0 e i 14 anni, e 800 nuovi casi in età adolescenziale, dai 15 ai 18 anni. Questo significa che, in totale, ogni anno circa 2.300 nuovi bambini e ragazzi scoprono di essere affetti da una patologia oncologica senza aver neanche raggiunto la maggiore età.

Le diagnosi più comuni riguardano leucemie (33%), tumori del sistema nervoso centrale (22%), linfomi (12%), neuroblastomi (8%), sarcomi ossei e dei tessuti molli (7%) e tumori renali (7%). 

Nonostante la gravità di queste condizioni mediche, la speranza di vita, rispetto a qualche anno fa, per fortuna è migliorata molto: oggi, il tasso di sopravvivenza  si attesta intorno all’80%. Questo incredibile progresso è stato reso possibile, in particolare, grazie alla ricerca scientifica, che nel tempo ha saputo trovare soluzioni sempre più efficaci e meno invasive, capaci di migliorare notevolmente la qualità di vita dei pazienti pediatrici, riducendo anche gli effetti collaterali. 

Ebbene, di fronte a questo, è un dovere di cittadinanza aiutare i ricercatori affinché riescano a trasformare quell’80% in 90%, per arrivare sempre più vicini al 100%. È possibile: è solo una questione di soldi e tempo, e le donazioni possono avere un impatto decisivo nel processo di ricerca, quantomeno dal punto di vista dei fondi a disposizione

Le criptovalute come strumento di beneficenza: i numeri

Nel corso del 2024, secondo il Crypto Philanthropy Report 2025, il totale delle donazioni in criptovalute, a livello mondiale, ha superato il miliardo di dollari, con una media di 10.978$ per donazione – un numero 100 volte maggiore rispetto alla media delle donazioni online classiche. Inoltre, prosegue il report, il 70% delle 100 principali organizzazioni di beneficenza ha incluso le criptovalute nel novero degli strumenti di finanziamento accettati. 

Per dare un altro dato, secondo Chainalysis, con l’invasione russa dell’Ucraina, il governo di Kyiv ha ricevuto donazioni in criptovalute per circa 70 milioni di dollari solo nel primo anno di guerra – da febbraio 2022 a febbraio 2023. Per CoinDesk, il totale dei contributi in crypto a favore di Kyiv attualmente si aggira intorno a 225 milioni di dollari

Insomma, i dati ci dicono che le criptovalute si stanno affermando sempre di più come una delle principali forme di finanziamento solidale.      

Young Platform sostiene Fondazione Veronesi

La nostra mission è chiara e semplice: rendere il mondo delle criptovalute più accessibile. Per questo motivo, per noi di Young Platform è fondamentale facilitare l’accesso a questo mondo anche e soprattutto alle associazioni del terzo settore, le quali, col loro lavoro, si occupano di migliorare la comunità in cui viviamo

L’abbiamo già fatto in passato – con Emergency e Save the Children, per citarne due – e continuiamo a farlo: sosteniamo Fondazione Veronesi con l’infrastruttura necessaria per aprire un nuovo canale di beneficenza, permettendo a chiunque vorrà donare di scegliere tra sei criptovalute, tra cui Bitcoin ed Ethereum.  

Il tutto, naturalmente, senza costi di transazione né per chi decide di sostenere la causa né per l’ente che riceve il contributo.

In merito, riportiamo le parole di Andrea Ferrero, Co-CEO di Young Platform, che incarnano perfettamente la nostra posizione: “Le criptovalute rappresentano oggi un nuovo linguaggio economico e culturale. Renderle anche uno strumento di solidarietà è il modo più concreto per mostrare che la tecnologia può servire la società. Siamo orgogliosi di sostenere la Fondazione Veronesi nella ricerca sui tumori pediatrici, una delle sfide più importanti della medicina contemporanea”. 

Donare, donare, donare!

Donare è un gesto che pesa poco per il singolo ma che, al contempo, vale molto per la comunità: basti pensare che, se ogni cittadino italiano donasse 1€, si potrebbero raccogliere agilmente più di 50 milioni di euro

Concludiamo con una massima attribuita al celebre autore latino Marco Tullio Cicerone, che esprime tutta la potenza del fare beneficenza: “L’uomo non è mai così vicino agli dei di quando fa del bene al proprio prossimo”. 

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Debito pubblico: quali sono i 9 paesi più indebitati al mondo nel 2025?

Debito pubblico: la classifica dei paesi più indebitati nel 2025

Quali sono i paesi in cui il debito pubblico è più alto? Scopri la classifica e dove si posiziona l’Italia

Il debito pubblico è uno dei parametri che descrive la situazione economica di un paese. Lo sentiamo nominare ovunque, spesso rapportato ad un’altra misura, il PIL, che indica l’insieme delle attività produttive di uno stato.

L’intera economia globale, dato che ci troviamo in un sistema capitalistico, si basa sul debito. È una sorta di linfa, indispensabile per raggiungere l’obiettivo principale imposto dal sistema economico in cui viviamo: la crescita. 

Nel 2008 però, è nata una tecnologia che ha le carte in regola per rivoluzionare il sistema monetario globale. Il documento che ne sanciva la nascita cominciava con un titolo destinato a riecheggiare nell’eternità: A Peer-to-Peer Electronic Cash System. Parliamo, ovviamente, di Bitcoin

Abbiamo discusso delle soluzioni al problema del debito e della povertà in un altro articolo, per cui ora torniamo al problema: quali sono gli stati più indebitati al mondo? E quindi, qual è la classifica dei paesi con il debito pubblico più alto? 

Debito pubblico: è un problema da affrontare

La classifica dei paesi per debito pubblico è cambiata dopo la pandemia di Covid-19, non tanto per l’ordine degli stati in classifica ma per la quantità di denaro che questi devono ai propri creditori. Entro il 2029, secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), il rapporto debito/PIL globale raggiungerà il 100%

Questo indicatore, solitamente utilizzato per analizzare la situazione economica di un singolo stato, misura, nell’arco di un anno, l’ammontare del debito in relazione al Prodotto Interno Lordo (PIL), ossia l’insieme delle attività produttive di uno stato.

Molto semplicemente, se il rapporto Debito/PIL è basso, per esempio al 50%, significa che il debito totale accumulato è la metà rispetto a quanto quel dato Paese produce in un anno. Dall’altra parte, se il rapporto Debito/PIL è al 120%, quindi abbastanza alto, allora il debito totale supera un anno di produzione economica nazionale. 

Il debito pubblico, quando è tanto più alto rispetto al PIL, rappresenta un problema agli occhi degli investitori a causa della sua sostenibilità sul lungo periodo: se la situazione peggiora, chi detiene il debito chiederà interessi sempre più alti come premio del rischio di investimento. A questo punto, lo Stato in questione si indebita ancora di più solamente per pagare gli interessi, in un circolo vizioso che aumenta il rapporto Debito/PIL.

La situazione è ancora più grave se teniamo conto delle decisioni di politica economica restrittiva che hanno attuato, dal 2022 alla prima metà del 2025, tutti i principali governi occidentali per contrastare l’inflazione – salvo poi iniziare gradualmente a tagliare i tassi.

Il punto centrale è che il mondo è seduto su una montagna di debiti; il debito pubblico globale ha superato, a settembre 2025, la preoccupante soglia dei 102mila miliardi di dollari – o 102 trillion. 

Insomma, la situazione diventa sempre più critica. Lo stesso Jerome Powell, presidente della Federal Reserve – la banca centrale degli Stati Uniti – ha dichiarato, di recente, che l’America “ha intrapreso un cammino insostenibile” e che “sta prendendo in prestito denaro dalle generazioni future”. 

Nonostante quanto appena specificato, e un debito pubblico totale di circa 38.000 miliardi di dollari (38 trillion), gli Stati Uniti non guidano la classifica dei paesi con il debito pubblico più alto, anzi. Continua a leggere per conoscere la graduatoria!

La classifica dei paesi più indebitati

Ecco la classifica dei paesi con debito pubblico più alto viene stilata tenendo presente il rapporto debito/PIL. Il motivo? Perché il valore nominale di questa misura preso “da solo” non fornisce informazioni sulla reale incidenza dei debiti di uno stato.

  1. Giappone (229,6%)

Il paese con il rapporto debito/PIL più alto è il Giappone. Le cause del forte indebitamente del paese sono da ricercare nella bolla immobiliare scoppiata negli anni ‘90. Inoltre, la nuova premier giapponese Sanae Takaichi ha dichiarato l’intenzione di voler spendere ancora di più per tutta una serie di importanti investimenti pubblici, indebitando ulteriormente la Terra del Sol Levante.

  1. Sudan (221,5%)

Il secondo della classifica dei paesi per debito pubblico è il Sudan, fortemente colpito da una crisi economica causata da una guerra civile interna devastante, che vede lo scontro fra le SAF (Sudanese Armed Forces), riconosciute come legittime a livello internazionale, e le RSF (Rapid Support Forces), la fazione ribelle. 

  1. Singapore (175,6%)

Singapore è una città stato incredibilmente avanzata, soprattutto dal punto di vista economico, e vanta il primo posto nella classifica dei paesi più ricchi al mondo, con un PIL pro capite pari a 141.553$. Nonostante abbia un debito pubblico elevato, le agenzie di rating continuano valutarla con il massimo dei voti.

  1. Grecia (146,7%)

Il default evitato nel 2009 è ormai un lontano ricordo e il paese è sicuramente migliorato negli ultimi anni. Recentemente, l’agenzia di rating Fitch ha alzato la valutazione per la Grecia da BBB- a BBB, aggiungendo che le loro previsioni stimano un ulteriore declino del debito pubblico greco fino al 145%.

  1. Bahrain (142,5%)

Il debito pubblico del Bahrein è quasi triplicato negli ultimi dieci anni a causa di diversi fattori tra cui il calo del prezzo del petrolio, l’aumento degli investimenti nel settore della difesa e la tradizionale avversione del governo alle tasse. In ogni caso, lo stesso FMI ha avvisato il Bahrein dell’insostenibilità del suo debito chiedendogli ufficialmente di ridurre le spese. 

  1. Italia (136,8%)

Il nostro Paese si posiziona sesto nella classifica dei paesi più indebitati. Il debito pubblico italiano ha toccato un nuovo massimo storico a febbraio 2023, per poi stabilizzarsi nei due anni successivi. A proposito, le agenzie Fitch e S&P Global, nel 2025 hanno alzato il rating dell’Italia da BBB a BBB+: il motivo è da ricercare nella gestione finanziaria dell’attuale amministrazione, che passa anche dalle varie Leggi di bilancio.

  1. Maldive (131,8%)

L’economia delle Maldive è focalizzata sul turismo e sulle importazioni, dal momento che la produzione interna è molto debole, dal momento che la sua composizione geografica – 1.200 isole – impedisce una produzione interna forte e una diversificazione sviluppata. Ultimamente, anche a causa di shock esterni come il Covid-19 o le guerre russo-ucraina e israelo-palestinese, il debito pubblico delle Maldive è cresciuto molto, senza che il PIL facesse altrettanto. 

  1. USA (125%)

Al penultimo posto della classifica dei paesi più indebitati troviamo gli Stati Uniti, che, così come l’Unione Europea, hanno portato avanti una politica economica restrittiva per contrastare lo spike inflattivo causato dagli stimoli del Covid, salvo poi iniziare a tagliare i tassi. Con le ultime due amministrazioni, tuttavia, il debito pubblico è aumentato del 60%, arrivando a superare il tetto dei 38.000 miliardi di dollari (38 trillion)

  1. Senegal (122,9%)

Il caso del Senegal è molto particolare, perché ha a che fare con uno scandalo senza precedenti: il nuovo governo, al momento in cui è entrato in carica, ha segnalato al FMI la presenza di più di 7 miliardi di dollari di prestiti contratti dalla precedente amministrazione. Il problema? Non erano stati dichiarati. Il FMI ha quindi sospeso circa 1,8 miliardi di dollari di finanziamento.

Ora che sai qual è la classifica dei paesi più indebitati puoi approfondire la questione italiana leggendo il nostro articolo di Academy dedicato al debito pubblico italiano, ma non solo: si parte dalla spiegazione del debito in generale per poi concentrarci sulla situazione domestica.
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Le informative contenute in questo articolo hanno finalità esclusivamente divulgative. Non costituiscono in alcun modo una consulenza finanziaria, legale o fiscale, né una sollecitazione o offerta al pubblico di strumenti o servizi di investimento, ai sensi del D. Lgs. 58/1998 (TUF). L’investimento in cripto-attività comporta un rischio elevato di perdita – anche totale – del capitale investito. Le performance passate non garantiscono risultati futuri. L’utente è invitato a compiere valutazioni autonome e consapevoli prima di assumere decisioni economiche e/o di investimento.

Povertà nel mondo: problema e possibili soluzioni

Povertà nel mondo: problema e possibili soluzioni

La povertà è un problema reale che colpisce milioni di persone nel mondo: cosa è stato fatto finora per arginarla? Con quali esiti? Si può fare altro?

La povertà viene definita in base a una soglia, detta appunto “soglia di povertà”, che la Banca Mondiale determina a 3$ al giorno: sulla base di questo criterio, circa 808 milioni di persone nel mondo vivono in condizioni di vero disagio economico, nonostante nel tempo la situazione sia notevolmente migliorata. Sono molte, infatti, le soluzioni messe in campo negli anni per cercare di risolvere questo problema. Gli sforzi sono bastati? Si può fare altro? 

Povertà: definizione

La povertà, secondo la Banca Mondiale, è la “deprivazione marcata del benessere”: in questo senso, sono considerati poveri coloro che non dispongono del reddito necessario per acquistare un “paniere minimo” di beni di consumo socialmente accettato. In altre parole, vivono in uno stato di povertà coloro che non possiedono risorse monetarie sufficienti per superare una soglia minima ritenuta adeguata, chiamata appunto soglia di povertà

Una definizione più ampia di povertà – e quindi benessere – si concentra su un criterio in particolare: la capacità dell’individuo di vivere e, in generale, “funzionare bene” all’interno della società. In questo modo, la povertà viene calcolata anche in base all’accesso all’educazione, alla sanità, alla libertà d’espressione e così via. 

Tornando al concetto di soglia di povertà, la Banca Mondiale quantifica questo limite in due modi, ovvero relativo e assoluto: se il primo prende in considerazione caso per caso, individuando una cifra in dollari in base alle caratteristiche di quel Paese, il secondo determina un valore universale. 

La soglia di povertà varia periodicamente al variare delle condizioni macroeconomiche. Nel 1990, al momento della sua introduzione, la soglia assoluta era fissata a 1$ al giorno per i paesi a basso reddito, mentre a giugno 2025, in occasione dell’ultimo aggiornamento, è stata alzata a 3$ al giorno.

Quali sono le cause della povertà?

La povertà – per dire una cosa non banale e poco retorica – è un concetto complesso, frutto dell’interazione di più cause. In ogni caso, l’EAPN (European Anti-Poverty Network) identifica alcuni fattori chiave: bassi livelli di istruzione, alta disoccupazione e forte presenza di lavori sottopagati, assenza di un Welfare State che possa aiutare chi è in difficoltà, per citarne alcuni. 

Si tratta, evidentemente, di elementi che sono allo stesso tempo causa e conseguenza. Semplificando all’estremo: uno Stato povero, per “restare in piedi” e non fallire, probabilmente sarà costretto a tagliare la spesa sociale e gli investimenti, creando le condizioni per una bassa scolarizzazione e un’alta disoccupazione le quali, a loro volta, impediranno ai cittadini di istruirsi e accedere a lavori con salari più alti. I consumi interni crollano, l’economia non cresce e lo Stato si impoverisce ulteriormente e taglia la spesa sociale… eccetera eccetera.

Esiste, però, un indicatore che, più di altri, correla positivamente con la povertà di un Paese: quando l’uno sale, l’altra sale e viceversa. Parliamo del debito estero, cioè quella parte di debito detenuto da creditori non residenti nel dato paese, che include sia il debito pubblico estero sia il debito privato estero.  

Il primo è composto da obbligazioni e titoli di stato – dunque strumenti finanziari emessi dallo stato – detenuti da investitori stranieri; il secondo, invece, è il debito che i soggetti privati, come aziende e banche, accumulano nei confronti di soggetti esterni. 

Perchè il debito estero ha un ruolo così importante?

La povertà, come abbiamo appena scritto, è correlata col debito estero, dal momento che l’una è alta laddove l’altro è alto. Il motivo, fondamentalmente, è sintetizzabile in due parole: il peccato originale, cioè l’impossibilità per un Paese LIC (Low Income Country, a basso reddito) di emettere debito verso investitori esteri in valuta nazionale, con tutte le ripercussioni del caso che affronteremo a breve.

Il termine, preso in prestito dal Cristianesimo, gioca proprio sull’analogia religiosa: così come l’essere umano nasce ereditando la condizione di peccato di Adamo, allo stesso modo i Paesi LIC “nascono già colpevoli” ereditando delle difficoltà strutturali che non dipendono dalle politiche attuate, ma dal sistema finanziario globale che non si fida della loro valuta.   

Il peccato originale, il mismatch valutario e le sue conseguenze

Questo è il fulcro della questione: mentre i Paesi ad alto reddito, come il Regno Unito, possono distribuire gran parte del proprio debito in valuta nazionale, cioè la sterlina, i Paesi LIC sono costretti a ricorrere a valute estere forti, come il dollaro, l’euro o lo yen. Ciò produce il cosiddetto mismatch valutario, ovvero la differenza tra la valuta in cui un Paese emette debito e quella in cui genera reddito, con tutti gli effetti negativi che ne conseguono

Immagina di voler finanziare con 1.000$ il debito del Madagascar, un Paese LIC con alto debito estero, acquistando un titolo di Stato a 3 anni. Il Tesoro malgascio, a questo punto, ti propone due soluzioni: puoi comprare direttamente i bond in dollari, sapendo che il rimborso con gli interessi avverrà in dollari, o puoi convertire i 1000 dollari in 4.487.736 ariary (la valuta locale), con relativo rimborso – fra tre anni – in ariary. Il problema è che il Madagascar ha un’inflazione molto alta. È chiaro, quindi, che sceglierai la prima opzione. 

Il Madagascar, pertanto, ha pochissime possibilità di emettere debito in ariary, perché realisticamente qualsiasi investitore, come te, preferirà il dollaro. Ecco servito il mismatch valutario: il debito estero e gli interessi – molto alti per i Paesi LIC – sono in dollari, mentre le entrate dello stato sono in valuta locale: se il tasso di cambio col dollaro resta stabile, il problema non si pone. Sfortunatamente, non è questo il caso del Madagascar: nel 2017, il tasso di conversione dollaro/ariary era di 1 a 3.000, oggi è 1 a 4.488.

Il mismatch valutario è deleterio perché amplifica nettamente gli shock. Immaginiamo uno scenario in cui il Madagascar viene colpito da una crisi endogena, come un colpo di stato, o esogena, come una catastrofe naturale: la fuga di capitali dal Paese è praticamente garantita, poiché qualunque investitore cercherebbe di preservarsi rifugiandosi in asset più solidi. Il risultato? La valuta, già molto debole, si svaluterebbe ancora di più, con conseguente drastico aumento del costo del servizio del debito – l’importo totale che lo Stato deve pagare agli investitori. La conseguenza? Crisi di liquidità e probabile default

La compressione della spesa sociale

Shock a parte, il peccato originale limita notevolmente il margine di spesa di uno Stato come il Madagascar per un paradosso che Marco Zupi, analista geopolitico e autore di un articolo proprio sul tema della sostenibilità del debito, chiama “doppia verità”: nonostante il peso del debito pubblico sia spesso maggiore nelle economie avanzate, i Paesi LIC devono fare i conti con un carico relativo del debito sproporzionatamente più alto

In parole semplici, anche se il Madagascar detiene un debito pubblico sensibilmente più basso di quello italiano, si trova a pagare un costo relativo molto più alto e deve usare una fetta sproporzionata delle sue scarse entrate solo per pagarne gli interessi. Questi, infatti, sono alti sia perchè gli investitori, dato il rischio, richiedono premi adeguati, sia perchè, come abbiamo visto, l’inflazione dello stato africano svaluta notevolmente l’ariary malgascio. Tutto questo porta alla compressione della spesa sociale, ovvero al taglio dei finanziamenti all’istruzione, alle opere pubbliche, alla sanità e così via.

Restando sul tema, l’indebitamento degli stati africani, come scrive Zupi, ha toccato il punto più alto dell’ultimo decennio nel 2023, con un rapporto debito/PIL pari al 61,9%. In generale, nel 2024, i paesi in via di sviluppo hanno speso, mediamente, il 15% delle entrate pubbliche per il pagamento del debito estero, con un aumento del 6,6% rispetto al 2010. Tutto ciò, come abbiamo spiegato poco sopra, riduce la possibilità per un Paese LIC di investire nel welfare, ai danni dei suoi cittadini: ad esempio, in almeno 34 Paesi africani, la spesa per il pagamento del debito estero è più alta di quella per l’istruzione e la sanità – nel triennio 2021-2023, questa è stata rispettivamente di 70, 63 e 44 dollari pro capite. Anche a livello mondiale, quasi 3,4 miliardi di persone vivono oggi in Paesi costretti a indirizzare la spesa pubblica in questo modo. 

Le iniziative per la riduzione del debito nei Paesi LIC

La comunità internazionale, a partire dalla metà degli anni Ottanta, si è mossa per cercare di arginare questo fenomeno, evidentemente con scarsi risultati. Nello specifico, sono sei le iniziative messe in campo per ridurre la dipendenza dei Paesi LIC dal debito e consentirgli uno sviluppo più organico e sano. Vediamole rapidamente i progetti e perché non hanno funzionato.

Piano Baker (1985-1988)

Col Piano Baker, in due parole, si è privilegiata la liquidità, inondando i Paesi in difficoltà con nuovi capitali a prestito. La strategia era mossa dalla convinzione che questi Stati fossero solamente illiquidi, cioè temporaneamente senza denaro a sufficienza per ripagare il debito.

In realtà, la diagnosi era sbagliata: più che di illiquidità, sarebbe stato opportuno parlare di insolvenza strutturale, ovvero dell’impossibilità di ripagare un debito – perché troppo alto – anche nel lungo periodo. 

Il Piano Baker, quindi, ha “fornito ossigeno” e ha evitato crisi sistemiche nel breve termine, senza però affrontare la criticità alla base. In sintesi, ha rinviato il problema senza risolverlo

Piano Brady (1989 in poi)

La conseguenza del fallimento del Piano Baker: la comunità internazionale ha riconosciuto che l’ostacolo principale non fosse la mancanza di liquidità, ma l’ampiezza del debito e la relativa insolvenza strutturale. C’era un altro problema da risolvere: i prestiti bancari del Piano Baker, ormai, erano diventati inesigibili, cioè spazzatura, dal momento che nessuno stato avrebbe mai onorato il debito. Che fare?

I prestiti bancari vengono convertiti in titoli garantiti da collaterali forti – come i Titoli del Tesoro USA, uno degli investimenti più sicuri al mondo – chiamati, appunto, i Brady Bond. Ma a una condizione. Semplificando, il Piano Brady dice alle banche: “il tuo prestito da 10 miliardi non vale nulla, ma ora potrai scambiarlo con un Brady Bond da 7 miliardi”.  Naturalmente, le banche accettano, perché perdere il 30% dell’investimento è meglio che perdere il 100%, e il debito viene scontato – non più 10 ma 7 miliardi da rimborsare. 

L’obiettivo era riaprire l’accesso al mercato ai Paesi LIC tramite i Brady Bond garantiti, che riducevano il debito e, ovviamente, risultavano molto più appetibili agli occhi degli investitori rispetto ai vecchi prestiti-spazzatura. 

Tuttavia, l’entità delle riduzioni era limitata e insufficiente a rendere sostenibile il debito: per riprendere il nostro esempio inventato, lo sconto da 10 a 7 miliardi era inutile per uno Stato che non poteva rimborsarne neanche 5. 

Heavily Indebted Poor Countries e Multilateral Debt Relief Initiative (1996 – 2005)

Anche queste due iniziative, che chiameremo rispettivamente HIPC e MDRI, nascono in risposta al fallimento del piano precedente e, secondo gli esperti, hanno rappresentato il tentativo più ambizioso di sempre per ridurre il debito estero dei Paesi LIC.  

Dunque, dopo aver imparato la lezione dei Piani Baker e Brady, la comunità internazionale è intervenuta direttamente sul debito: con l’HIPC, si sono verificati tagli fino al 90% delle passività, mentre con la MDRI si è arrivati a cancellare il 100% del debito dei Paesi LIC nei confronti di istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.  

Finalmente, veniva effettivamente liberato lo spazio fiscale e i Paesi a basso reddito potevano utilizzare il capitale in avanzo – che poco prima era destinato al pagamento di interessi e titoli – per la spesa sociale: “in Tanzania e Uganda”, come scrive Marco Zupi, “la spesa per l’istruzione e per la sanità è aumentata significativamente dopo la cancellazione del debito”. 

Cosa non ha funzionato? Per riassumere, l’HIPC e la MDRI hanno risolto parte dei problemi del passato dal momento che, secondo la Banca Mondiale, ben 37 Paesi avrebbero beneficiato di più di 100 miliardi di dollari di “sconto”. Queste iniziative, tuttavia, hanno fallito nel prevenire le crisi future: tralasciando l’imposizione di condizioni abbastanza rigide per ottenere i finanziamenti, non è stato realizzato nè pensato alcun intervento mirato alla riforma del sistema, lasciando intatte quelle difficoltà strutturali alla base dei “peccato originale” dei Paesi LIC e di tutto ciò che ne consegue. Questi Paesi, come per certezza matematica, hanno ricominciato ad accumulare debito su debito.

Ma non è tutto! Siamo nel terzo millennio, il mondo sta cambiando e nuovi protagonisti stanno emergendo. Questo per dire che, se i “vecchi debiti” venivano contratti principalmente verso gli Stati membri del Club di Parigi – tra cui USA, UK, Italia, Germania, Giappone e Canada –  e banche multilaterali come la Banca Mondiale, adesso abbiamo una sfilza di nuovi creditori: dagli Stati non membri del Club di Parigi come la Cina, ai creditori privati come i fondi di investimento e banche commerciali. 

In sintesi, il nuovo ordine di creditori ha contribuito – e contribuisce tuttora – a rendere le varie crisi molto più complesse: se prima esisteva un tavolo unico – il Club di Parigi – che organizzava e portava avanti le negoziazioni, adesso lo scenario è molto più frammentato e difficile da coordinare. 

Debt Service Suspension Initiative (2020-2021)

Il DSSI è stata un’iniziativa lanciata dal G20 – le 20 maggiori economie del mondo – durante la pandemia da Covid-19. Come è facilmente intuibile dal nome, il DSSI nasce con l’obiettivo di mettere temporaneamente in pausa i pagamenti del debito: si è trattato di uno sospensione di circa 13 miliardi di dollari in versamenti per 48 Paesi, che hanno quindi avuto maggiore disponibilità per combattere la crisi sanitaria. 

Il DSSI, a livello di logiche di fondo, è molto simile al Piano Baker, dal momento che entrambi i programmi si sono focalizzati sulla liquidità e non sulla solvibilità, avendo concentrato gli interventi sul sollievo temporaneo piuttosto che sui deficit strutturali. L’unica vera differenza sta nelle modalità attraverso cui si è arrivati all’obiettivo: col Piano Baker si concedevano prestiti bancari, mentre col DSSI si è semplicemente permessa l’interruzione dei pagamenti. 

Come per le logiche, le due iniziative si somigliano anche per i limiti, nel senso che nella progettazione del DSSI non è stata pianificata alcuna strategia a lungo termine – ma va considerato il contesto emergenziale in cui prende piede. In questo caso, però, si è verificato un effetto collaterale che l’autore dell’articolo sulla sostenibilità del debito (Marco Zupi) ha definito “perverso”. 

Lo stop ai pagamenti, infatti, ha riguardato solamente i “creditori ufficiali”, ovvero gli Stati membri del Club di Parigi, senza toccare i creditori privati: banche e fondi di investimento hanno continuato a ricevere i corrispettivi dovuti.

Common Framework (2020 – presente)

È l’iniziativa attuale messa in campo dal G20 ed ha molti punti in comune con l’HIPC e il MDRI: anche il Common Framework (CF) è stato pensato per affrontare la questione alla radice, andando ad intervenire sulla solvibilità dei Paesi, dunque sulla riduzione dello stock di debito totale a un livello sostenibile. 

Essendo il CF in corso d’opera, è difficile dare un giudizio sulla sua efficacia. Le critiche principali, tuttavia, fanno riferimento alla lentezza delle procedure che caratterizza il programma. In due parole, citando l’autore, “gli sconti, quando arrivano, lo fanno tardi e spesso dopo costosi periodi di incertezza”. Inoltre, c’è anche un nodo da sciogliere relativo al coinvolgimento dei privati i quali, a causa dell’inattrattività degli incentivi, decidono di non partecipare. 

Come si evolverà la situazione?

È chiaramente una domanda retorica a cui nessuno può dare una risposta certa: anche le iniziative descritte finora, che pure erano motivate da una (apparente?) solidarietà di fondo, hanno in parte fallito nel loro intento, a testimonianza della complessità strutturale che contraddistingue il sistema finanziario. 

Nel frattempo, è possibile ragionare su alcune soluzioni che, nell’immediato, potrebbero offrire una sorta di strumento di autodifesa finanziaria alle vittime di questo sistema. Torniamo al caso del Madagascar: i suoi abitanti, dal 2017, hanno visto l’ariary, la valuta locale, svalutarsi del 50%. Come mettere un freno all’inflazione?

Povertà e il ruolo delle criptovalute   

Partiamo con una premessa: secondo il Global Findex 2025 pubblicato dalla Banca Mondiale, quasi un miliardo e mezzo di persone nel mondo sono unbanked, cioè non possiedono un conto corrente. Allo stesso tempo, sempre secondo lo stesso report, l’86% degli adulti possiede un telefono cellulare – la percentuale scende all’84% nei Paesi LIC. Infine, incrociando i dati, il 42% degli adulti unbanked possiede uno smartphone

Il punto fondamentale è che esiste una vastissima parte della popolazione mondiale senza accesso finanziario che però possiede già l’infrastruttura di base, ovvero telefono e connessione a internet, per poter risolvere il problema – detto parafrasando un proverbio, “hanno i denti ma non il pane”. 

Uno smartphone connesso ad internet, per esempio, è quanto basta per poter installare un wallet e comprare, vendere, inviare e ricevere le criptovalute – e finalmente utilizzare i denti per mangiare il pane. Ma perché le criptovalute potrebbero rappresentare un freno per l’inflazione? Continuiamo con l’esempio del nostro adorato Madagascar. 

Caso 1: King Julien XIII compra le crypto

Abbiamo quindi un abitante unbanked di Antananarivo, capitale del Madagascar, che possiede solo uno smartphone su cui ha installato un wallet crypto. Il nostro abitante, che chiameremo King Julien, in onore del film Madagascar, vuole convertire i suoi ariary in Bitcoin o stablecoin – come USDC – perché si è stufato di vedere il suo capitale diminuire giorno dopo giorno a causa dell’inflazione. Per prima cosa, King Julien deve superare l’ostacolo più grande: essendo unbanked, deve trovare un modo per digitalizzare i suoi contanti

Nell’Africa Sub-sahariana, dal momento che in molti fanno i conti con lo stesso impedimento di King Julien, esiste una soluzione diffusissima: il Mobile Money, un servizio finanziario che permette di ricevere, inviare e conservare denaro attraverso la SIM dello smartphone. 

King Julien, quindi, si reca in uno dei tanti negozi di telefonia in giro per Antananarivo, consegna i suoi ariary cash e riceve l’equivalente – meno una commissione – sul suo conto di Mobile Money. Ricordiamo che King Julien, nonostante abbia dei soldi digitali, è ancora unbanked, cioè sprovvisto di conto corrente presso una banca. Per questo motivo, non può utilizzare un exchange

King Julien sceglie un’altra via e accede a una piattaforma peer-to-peer (P2P) per cercare un venditore che accetti il suo metodo di pagamento. Una volta trovato, avviene la transazione: non appena il venditore conferma di aver ricevuto il pagamento, sblocca i Bitcoin o gli USDC – precedentemente bloccati nell’escrow, un deposito di garanzia – che la piattaforma poi trasferisce al wallet crypto dell’acquirente

King Julien, adesso, è sicuro che il suo capitale non si svaluterà come avveniva in precedenza con l’ariary. Per spendere i soldi, dunque convertire Bitcoin o USDC in ariary, gli basterà effettuare il processo inverso. 

Caso 2: King Julien riceve crypto dall’estero

Per concludere, vediamo un altro caso: King Julien riceve le crypto da un parente emigrato In Italia dove, al 1 gennaio 2024, la popolazione malgascia residente è pari a 1,675 unità. King Julien, come abbiamo visto, è unbanked e non può ricevere un bonifico. Ma anche qui le crypto ci vengono in soccorso, con un procedimento più rapido rispetto al Caso 1. 

Il parente, tramite Young Platform, converte i suoi euro in Bitcoin o USDC in un secondo e li invia al wallet di King Julien, che potrà riconvertirli in ariary attraverso il procedimento inverso che abbiamo menzionato poco fa. Pure stavolta, King Julien è riuscito a mettere in salvo il suo capitale dall’inflazione. 

Il problema non è risolto, ma King Julien vive meglio 

Per concludere, una breve riflessione: è chiaro che in questo modo non si risolve il nodo della povertà, che resta una questione prioritaria nell’agenda internazionale. Tuttavia, una soluzione come quella appena esposta può aiutare molto gli abitanti dei Paesi LIC. Almeno quelli con un telefono. 

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Fed: chi vuol essere il nuovo Presidente?

Fed: chi vuol essere il nuovo presidente?

La Fed cambia volto: a maggio il Presidente Jerome Powell terminerà il suo secondo mandato e Donald Trump dovrà scegliere il suo successore. Chi sarà?

La Fed, ovvero la banca centrale degli Stati Uniti, dopo otto anni passerà sotto la gestione di un nuovo Presidente: Jerome Powell, che attualmente siede sulla poltrona più alta, dovrà lasciare il posto a una nuova figura. Sarà compito del Presidente degli Stati Uniti scegliere l’erede. Vediamo i candidati più probabili.  

La Fed si prepara per il nuovo Presidente

La Fed, a maggio 2026, vedrà un cambio importante all’interno della sua struttura: il Presidente in carica, Jerome Powell, terminerà i suoi otto anni di mandato e verrà sostituito. Colui o colei che occuperà il vertice della banca centrale statunitense, sarà scelto o scelta direttamente da Donald Trump: dopo la nomina, però, il candidato Presidente della Fed dovrà ricevere anche l’approvazione del Senato degli Stati Uniti. 

Come vedremo, il Segretario del Tesoro Scott Bessent ha comunicato una lista di cinque nomi, di cui almeno tre potenzialmente molto vicini alla nomina. L’unico spoiler che possiamo fare è che, nell’elenco fornito da Bessent, non figura Jerome Powell. Perché? Per almeno due motivi

Nessuna chance per Jerome Powell: dura lex, sed lex

Il primo è di natura legale: nonostante la legge in vigore negli USA – il Federal Reserve Act – non preveda un limite di mandati per il Presidente della Fed, Powell uscirà dai giri della banca centrale per una coincidenza di eventi abbastanza curiosa. 

Jerome Powell, infatti, è entrato in carica come Governatore nel maggio 2012 per completare il mandato non scaduto di Frederic Mishkin – un po’ come il trumpianissimo Stephen Miran, nominato Governatore nel luglio scorso a causa delle dimissioni della Governatrice Adriana Kugler.

Due anni dopo, nel giugno del 2014, Powell è stato ufficialmente nominato Governatore per un mandato pieno, che ha 14 anni di durata, con scadenza al 31 gennaio 2028. Nel 2018, Powell è poi stato promosso proprio da Donald Trump – durante il suo primo mandato – al ruolo di Chair (cioè Presidente) della Federal Reserve. Quattro anni dopo, al termine legale del mandato, è stato confermato da Joe Biden, che ai tempi era il Presidente degli Stati Uniti. Arriviamo, quindi, ai giorni nostri: nel 2026 saranno quattro anni dalla conferma di Biden e, di conseguenza, apparirà la parola “Fine”. 

Ma allora, se la legge non prevede un limite massimo di mandati per il Chair della Fed, perché Jerome Powell non potrà essere rieletto in quel ruolo? Perché il Federal Reserve Act prevede una regola fondamentale: il Presidente della Fed deve essere anche membro del Board of Governors, cioè dei Governatori della banca centrale. 

Questa regola, nel caso di Powell, non può essere applicata: anche se venisse rieletto nella posizione apicale fino al 2030, nel 2028 decadrebbe il suo status di Governatore, dal momento che avrebbe raggiunto i 14 anni di servizio iniziati nel 2014. A quel punto, verrebbe automaticamente rimosso dal ruolo di Presidente.  

L’antipatia dell’amministrazione trumpiana per Powell è cosa nota

Anche se questa regola non esistesse, la situazione non cambierebbe: le possibilità che Powell rientri nella lista di Bessent sarebbero prossime allo zero. E qui veniamo al secondo motivo, di natura più “relazionale”: Trump e compagnia non amano l’attuale Chair, per usare un eufemismo. 

Come abbiamo raccontato in varie occasioni, Il Presidente degli Stati Uniti ha spesso usato toni duri nei confronti di Jerome Powell, soprattutto in occasione dei FOMC estivi, quando il tanto agognato taglio dei tassi tardava ad arrivare. A causa di questa “lentezza”, Donald Trump ha iniziato a soprannominarlo Jerome “Too Late” Powell e ha minacciato più volte il suo licenziamento

Una volta escluso Powell dal roster dei papabili, vediamo quali sono i nomi scelti dal Segretario del Tesoro USA.

I candidati più probabili

Domenica 26 ottobre, mentre era in viaggio sull’Air Force One verso Tokyo, Scott Bessent ha riferito ai giornalisti di aver ristretto a cinque il numero dei candidati, a seguito del primo giro di colloqui – a cui dovrebbe seguirne un secondo. 

In lista, troviamo il consigliere di Trump Kevin Hassett, l’ex Governatore della Fed Kevin Warsh, l’attuale Governatore della Fed Christopher Waller, la Vicepresidente della Fed Michelle Bowman e il dirigente di BlackRock Rick Rieder. Vediamoli uno per uno.

Kevin Hassett

È un fedelissimo di Donald Trump: ha affiancato il Presidente degli Stati Uniti nel primo mandato come Chair del Council of Economic Advisors e tuttora ha un posto nell’amministrazione come direttore del National Economic Council. Inoltre, nel periodo compreso tra i due mandati, ha lavorato per il fondo di investimenti di Jared Kushner, genero dello stesso Trump. 

Date queste premesse, sarebbe lecito supporre che Hassett possa essere la scelta principale di Trump, un uomo politico che dà molto peso al fattore fedeltà. Tuttavia, ci sono un paio di considerazioni da fare a livello strategico. 

In primo luogo, la reazione dei mercati alla sua nomina potrebbe essere particolarmente negativa, dal momento che una Fed a guida Hassett verrebbe percepita come fortemente subordinata alle volontà del POTUS (President of the United States). 

In secondo luogo, qualora la Federal Reserve dovesse compiere delle scelte poco gradite a Trump, con conseguenze macroeconomiche altrettanto poco gradite, quest’ultimo potrebbe fare molta più fatica a incolpare uno dei suoi fedelissimi: la retorica che sta utilizzando contro Powell avrebbe un effetto ridotto. 

Kevin Warsh

Ex Governatore della Fed, è stato membro del Board of Governors durante la crisi finanziaria del 2008, per poi dimettersi nel 2011 a seguito della svolta della banca centrale statunitense verso il Quantitative Easing (QE) – cioè una politica monetaria più espansiva. È stato direttore esecutivo e vice presidente di Morgan Stanley e, ora come ora, è visiting fellow presso l’Università di Stanford.

Un curriculum di tutto rispetto che, giustamente, lo rende un potenziale successore di Powell. A ciò, si aggiungono le sue connessioni con l’ambiente conservatore americano: come Hassett, ha lavorato anche lui per la Casa Bianca come consigliere economico di George W. Bush (detto anche Bush figlio), che poi lo avrebbe nominato Governatore della Fed. Inoltre, la famiglia di sua moglie, la miliardaria Jane Lauder – nipote di Estée Lauder, fondatrice dell’omonima casa di cosmetici da 32 miliardi di market capè in ottimi rapporti con la famiglia Trump

Tuttavia, anche qui, ci sono un paio di considerazioni strategiche da fare, a partire dalla sua idea sulla politica monetaria. Warsh viene considerato un “falco” hawkish opposto a dovish – perché, a quanto si legge, è fissato col controllo dell’inflazione: è stato proprio questo il motivo principale alla base delle sue dimissioni da Governatore nel 2011.

Una Fed a guida Warsh, pertanto, sarebbe più incline ad implementare una politica economica più restrittiva o, comunque, meno espansiva.  Insomma, un atteggiamento molto diverso da quello del POTUS, che da mesi sta implorando Powell di tagliare i tassi. 

Christopher Waller 

Attualmente in carica come Governatore della Fed, nominato proprio da Trump nel 2020, Waller ha trascorso la sua vita tra le aule universitarie e gli ambienti della banca centrale degli USA. 

Ha insegnato come professore in varie università negli Stati Uniti – Indiana, Washington e Kentucky – e in Germania – Bonn University. Nel 2009, invece, entra nella sede della Fed di St. Louis, nel ruolo di Vice Presidente e research director, e contribuisce alla creazione di FRED (Federal Reserve Economic Data), un gigantesco database gratuito di dati economici e finanziari gestito dalla Fed. 

Waller vede il settore delle criptovalute sotto una luce positiva: il 21 ottobre, presso la Fed di Washington, ha presieduto la Payments Innovations Conference, un meeting che, per dirla proprio con le sue parole, aveva lo scopo di “riunire idee su come migliorare la sicurezza e l’efficienza dei pagamenti, ascoltando chi sta plasmando il futuro dei sistemi di pagamento“. Alla conferenza hanno partecipato, giusto per fare tre nomi, Sergey Nazarov, Co-Founder & CEO di Chainlink; Heath Tarbert, Presidente di Circle e Cathie Wood, CEO di Ark Invest

In tutto ciò, c’è un problema: la lunga esperienza di Christopher Waller all’interno dei circoli della Federal Reserve. Il futuro Chair scelto da Donald Trump, infatti, dovrà essere anche una figura nuova, in grado di riformare la struttura della Fed e renderla meno determinante per quanto concerne la gestione dell’economia. Waller, al contrario, potrebbe aver interiorizzato proprio queste dinamiche che Trump intende smontare, risultando così poco adatto al ruolo. 

Michelle Bowman

Michelle “Miki” Bowman è la prima dei due outsider, cioè di coloro che possiedono un background diverso rispetto a quello dei tre candidati appena esaminati. In ogni caso, Anche Bowman, come Waller, è una Governatrice in carica nominata da Trump nel 2018. Lo stesso Trump, a gennaio 2025, l’ha poi promossa a Vice Presidente della Fed, un ruolo che la pone solo un gradino sotto Jerome Powell.

Perché è un’outsider? Perché, mentre i vari Hassett, Warsh e Waller hanno una formazione prettamente economica o di alta finanza, Bowman è laureata in Pubblicità e Giornalismo e ha un master in Giurisprudenza

Prima di passare all’ultimo candidato, una nota su Michelle Bowman: è conosciuta per essere una che lotta con tenacia per portare avanti le sue istanze e raggiungere i suoi obiettivi, nonostante le pressioni politiche. Per esempio, ha espresso più volte dissenso nei confronti di molti dei provvedimenti dell’era Biden e, a settembre 2024, il suo è stato il primo voto contrario di un Governatore della Fed, dopo due decenni di voto unanime sulla politica monetaria. Una donna dal carattere forte che sicuramente potrebbe piacere a The Donald.  

Rick Rieder

Rieder è un outsider non tanto per il background accademico, quanto per il fatto che non è un membro dei Governatori della Fed. Parliamo, infatti, di un importante manager di BlackRock, con una profonda conoscenza del mercato obbligazionario, che è appunto la sua specialità. 

Rieder, quindi, è estraneo – non del tutto – ai meccanismi della banca centrale e alle sottotrame politiche di Washington, ma ha molta familiarità con l’alta finanza e con la burocrazia che la riguarda. In questo senso, potrebbe essere considerato come l’antitesi di Waller

Infine, Rieder è conosciuto per i suoi orari lavorativi estenuanti: si dice che si alzi dal letto ogni giorno alle 03:30 del mattino, proprio per avere qualche ora di vantaggio sui suoi competitor.     

Quali sono le probabilità per ognuno dei candidati?

Bene, abbiamo esaminato i potenziali eredi di Jerome Powell, è ora di dare un’occhiata ai bookmakers, cioè Polymarket

Al momento della scrittura, le probabilità per ciascun nome sono: 

  • Kevin Warsh: 15%
  • Kevin Hassett: 15%
  • Chris Waller: 14%
  • Scott Bessent: 5%
  • Rick Rieder: neanche quotato
  • Nessun annuncio prima di dicembre: 53%

Perché c’è anche Scott Bessent? Perché Donald Trump, nel suo viaggio di fine ottobre verso Tokyo, ha dichiarato ai giornalisti che stava pensando proprio a lui come Chair della Fed ma che lo stesso Bessent avrebbe rifiutato perché “gli piace lavorare al Tesoro”. Qualche minuto dopo avrebbe fatto marcia indietro dicendo che “Non stiamo pensando a lui, in realtà”. 

Insomma, chi vincerà la corsa alla presidenza della Fed? O per dirla col titolo dell’articolo: chi vuol essere il nuovo Presidente?

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