Alta moda: chi era Charles Frederick Worth?

Alta moda: chi era Charles Frederick Worth?

L’alta moda è un settore dell’abbigliamento che si fonda sulla creazione di abiti unici di estrema qualità. Come nasce? Qual è la sua storia?

L’alta moda, o haute couture, nasce a Parigi grazie alle intuizioni di un signore inglese che, con l’aiuto di sua moglie, è riuscito a conquistare il cuore (e il portafoglio) delle dame più ricche dell’aristocrazia e dell’alta borghesia francese e non solo. Oggi, questo settore vale miliardi e produce vestiti per l’1% più facoltoso della popolazione mondiale. Vediamo insieme la storia dei leggendari Charles Frederick Worth e consorte! 

Alta moda: una nicchia molto particolare 

L’alta moda, o haute couture, è un settore che indica capi di eccellente fattura e rappresenta il vertice dell’industria dell’abbigliamento. I vestiti che rientrano in questa categoria, disegnati dagli stilisti delle maison, devono necessariamente rispettare alcuni requisiti, cioè i quattro criteri fondamentali, stabiliti dal Ministero francese dell’Industria e dalla Fédération Fançaise de la Couture.

Una maison – cioè la casa di produzione – per godere del bollino haute couture deve realizzare solo ed esclusivamente abiti su misura: il vestito di alta moda, infatti, è unico e può essere inteso come un vero e proprio pezzo d’arte non fungibile. Inoltre, deve avere un atelier a Parigi con almeno venti dipendenti full-time nello staff tecnico. Infine, deve presentare le collezioni due volte l’anno, a gennaio e a luglio, le quali devono essere composte da 50 modelli originali, da giorno e da sera. 

Rose Bertin, modista francese vissuta tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, è considerata la pioniera dell’alta moda, dato che realizzava vestiti originali su misura per Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI e regina di Francia. Tuttavia, il concetto di haute couture, come vedremo, si attribuisce a Charles Frederick Worth, attivo sempre a Parigi circa trent’anni dopo. 

In ogni caso il settore dell’alta moda, come avrai capito, si basa sul concetto di scarsità – principio, quest’ultimo, che noi di Young Platform adoriamo, quasi quanto l’asset digitale che meglio lo incarna: Bitcoin. Ma torniamo a noi. I prezzi dei capi, che si aggirano fra le decine e le centinaia di migliaia di euro, sono giustificati proprio dal loro carattere irreplicabile, oltre che dal numero infinito di ore necessarie alla produzione – 150 per un semplice vestito, 1000 (41 giorni) per un pezzo con ricami e rifiniture pregiate. Naturalmente, nel computo finale dei costi, anche i materiali scelti hanno un peso rilevante. 

Alta moda: come, quando e dove nasce?

Come abbiamo anticipato, l’invenzione della haute couture è attribuita a Rose Bertin che, però, non può ancora essere definita “stilista”, essendo questa professione nata dopo la rivoluzione francese. E qui entra in scena il nostro Charles Frederick Worth: nato nel 1825 nel Licolnshire, in Inghilterra, si trasferisce a 13 anni a Londra e inizia a lavorare in un grande magazzino di tessuti sulla famosa Regent Street, dove entra in contatto col mondo della seta e delle stoffe. A vent’anni, nel 1845, si sposta a Parigi, già centro europeo – e non solo – della moda, dove lavora come assistente presso la boutique di tessuti Gagelin. Qui la sua vita cambia: è la conoscenza con Marie Augustine Vernet, sua futura moglie e musa ispiratrice, a fargli fare il salto di qualità. Ma ci arriveremo.

Worth si dimostra un ottimo venditore oltre che un grande esperto di tessuti e ha tutte le carte in regola per fare carriera. Infatti, dopo cinque anni diventa responsabile del reparto sartoria della boutique Gagelin e, nel 1853, socio alla pari con gli altri due proprietari. Le cose sembrano andare per il meglio ma dopo qualche anno arriva il momento della rottura: Worth è pronto per mettersi in proprio e nel 1858 apre il suo personale atelier al civico 7 di rue de la Paix.  

Charles Frederick Worth e Marie Augustine Vernet: la Rivoluzione abbia inizio

Charles Frederick Worth e Marie Augustine Vernet, insieme, sono gli artefici di una vera e propria rivoluzione dell’universo della moda per come era stato concepito fino ad allora. Charles era già un sarto apprezzato nella Parigi di metà Ottocento, ma il vero punto di svolta è frutto di una mossa tanto scaltra quanto audace da parte di Marie Augustine. Consapevole del potere del passaparola fra le donne dell’alta società, la moglie dello stilista decide di vendere a prezzi ridicoli – quasi un regalo – due abiti alla principessa di Metternich. Questa sceglie di indossarne uno in occasione del ballo alle Tuileries, luogo principe della mondanità dell’élite parisienne. Il suo vestito, bellissimo e diverso dal solito, cattura l’attenzione della donna più influente del jet set francese: l’imperatrice Eugénie de Montijo, moglie di Napoleone III, imperatore di Francia dal 1852 al 1870. Charles Worth, da quel momento, diventa il sarto di corte nonché fornitore ufficiale dell’imperatrice di Francia. 

Charles Frederick Worth diventa lo stilista più importante e apprezzato fra le dame del Gotha parigino e, con lui, si verifica un ribaltamento netto della prospettiva: se prima erano le donne, aristocratiche o altoborghesi, a commissionare i lavori agli artigiani tessili, scegliendo le stoffe e creando i modelli, adesso è lo stilista a proporre gli abiti e, dunque, a dettare la moda. 

Il nostro Charles, inoltre, è responsabile di due delle più importanti innovazioni che il mondo della moda abbia visto: la prima riguarda la divisione delle collezioni in base alla stagione; la seconda fa riferimento all’utilizzo di “modelle viventi” piuttosto che di manichini, com’era tradizione fino a quel momento – sua moglie Marie è considerata la prima modella della storia. Charles Worth, in sostanza, ha inventato le sfilate di moda. 

Nel 1868, è tra i fondatori della Camera Sindacale dell’Alta Moda (Chambre Syndicale de la Couture), organo collettivo decisionale di moda, di cui oggi fanno parte un centinaio di maison tra le più importanti al mondo – Balenciaga, Balmain, Jean Paul Gaultier, Versace, eccetera. Questo apparato, oltre a ciò, ha anche il potere di decidere chi può usare il termine “haute couture” e chi no, in base al rispetto dei requisiti di cui abbiamo parlato. 

Charles Frederick Worth muore nel 1895 e l’amministrazione della sua maison, la House of Worth, passa nelle mani della moglie Marie e del figlio Gaston. Il secondo figlio  Jean-Philippe, invece, segue le orme artistiche del padre: nel 1903 crea il celebre Peacock Dress per Mary Victoria Curzon, moglie del viceré d’India e dunque viceregina. La maison viene ufficialmente venduta alla casa di moda francese Paquin nel 1953.

Alta moda in mostra: gli abiti di Charles Frederick Worth al Petit Palais di Parigi

Dal 7 maggio al 7 settembre – ipotizziamo che la scelta del 7 sia dovuta al civico in cui aprì il suo atelier, il n.7 di rue de la Paix – nella splendida cornice del Petit Palais di Parigi ha luogo la prima mostra dedicata all’inventore della haute couture e alla sua maison House of Worth. Per l’occasione, si parla di oltre 400 oggetti provenienti dai più importanti musei del mondo, dal Palazzo Pitti di Firenze al Metropolitan di New York passando per il Victoria and Albert di Londra: quadri, accessori e soprattutto abiti disegnati e realizzati da Charles Worth risalenti al periodo storico compreso fra il Secondo Impero francese (1852-1870) e il primo Dopoguerra. 

Maggio crypto: un assaggio di ciò che trovi nei nostri Club

Un’anticipazione del nostro report crypto di maggio. Capitalizzazione del mercato crypto in crescita del 20% e il nuovo massimo storico di Bitcoin

Maggio ha acceso i motori del mercato crypto, ma la vera destinazione è ancora tutta da scoprire. Con una crescita complessiva di oltre il 20% e la capitalizzazione di mercato che ha superato i 3,26 trilioni di dollari, il segnale è forte e chiaro: la fiducia sta tornando. 

Bitcoin ha toccato un nuovo massimo storico, spinto anche dai continui flussi sugli ETF spot da parte degli istituzionali. Ma attenzione, non è ancora tempo di euforia generale: il mercato totale è sotto il suo ATH e le altcoin stanno solo ora iniziando a scaldarsi. Questo è solo un piccolo assaggio di quello che analizziamo nel dettaglio nel nostro Market Report completo, disponibile in esclusiva per i membri dei nostri Club.

Il mercato crypto di maggio: ottimismo primaverile

Il mese di maggio ha visto la capitalizzazione totale del mercato crypto (TCMC) schizzare verso l’alto, con un incremento superiore al 20%. Un segnale di ritrovata fiducia, sostenuto dall’interesse istituzionale e da un contesto macro che, nonostante le turbolenze globali, sembra favorire gli asset alternativi come Bitcoin. E mentre il Re delle crypto ha toccato un nuovo massimo storico il 22 maggio, il mercato nel suo complesso suggerisce che siamo in piena “Bitcoin season”. Ma cosa significa questo per le altcoin? Potrebbe aprirsi presto una finestra per loro?

Nel nostro report completo approfondiamo:

  • L’analisi tecnica della TCMC.
  • Il perché le altcoin sono ancora in attesa e quando potrebbero partire.

Non solo Bitcoin: Ethereum e le sorprese del mese

Se Bitcoin ha dominato la scena, altri protagonisti non sono stati a guardare. Ethereum ha mostrato i primi concreti segnali di ripresa, sostenuto dall’attesa per l’aggiornamento “Pectra” e dal suo ruolo chiave nella tokenizzazione. Ma la vera star tra le altcoin di maggio è stata AAVE, che ha brillato con un quasi +60%, spinta dalla narrativa DeFi e da importanti novità normative sulle stablecoin. Persino Dogecoin ha detto la sua con un +13%, alimentato da voci su un possibile ETF.

Nel report completo troverai:

  • Analisi dettagliata di ETH, del rapporto ETH/BTC e dei dati on-chain come l’accumulo da parte delle “whale”.
  • Focus su AAVE: analisi tecnica, motivazioni del rialzo e il suo peso nella DeFi.
  • Un’occhiata a DOGE e all’impatto delle news sul suo Open Interest.

Dietro le quinte: cosa dicono i dati on-chain e il sentiment

Guardare solo i prezzi non basta. I dati on-chain per Bitcoin raccontano una storia interessante: pochi nuovi indirizzi retail, ma un forte accumulo da parte degli holder di lungo periodo e degli istituzionali. E Google Trends? L’interesse per Bitcoin è ai minimi, nonostante il prezzo vicino ai massimi. Un paradosso? O un segnale che la crescita attuale è più solida e meno guidata dalla FOMO?

Il report completo esplora:

  • Il significato del basso numero di nuovi indirizzi BTC.
  • La dinamica tra short-term e long-term holder.
  • Storie incredibili come quella del trader James Wynn.

Il mondo là fuori: perché la macroeconomia è cruciale

Viviamo in un’epoca di forte incertezza globale: dalle politiche commerciali di Trump all’inflazione che non molla la presa, fino alle mosse della Federal Reserve. In questo scenario, Bitcoin e le crypto emergono sempre più come “asset alternativi”. Comprendere il contesto macroeconomico è fondamentale, ed è per questo che ai membri dei nostri Club offriamo analisi dedicate.

Questo è solo un assaggio delle analisi e degli insight che troverai nel Market Report crypto completo di Maggio. Vuoi capire a fondo le dinamiche di mercato, scoprire le analisi tecniche dettagliate, i dati on-chain che fanno la differenza, leggere le storie più calde come quella di James Wynn e avere una visione chiara del contesto globale grazie anche al nostro report macroeconomico dedicato?

Entra ora nei Club Silver, Gold o Platinum di Young Platform! Avrai accesso immediato al report crypto di maggio, al report macroeconomico e a tutti i contenuti esclusivi pensati per darti gli strumenti per navigare il mercato con consapevolezza.

Che succede tra Elon Musk e Donald Trump?

Che succede tra Elon Musk e Donald Trump?

Elon Musk e Donald Trump, una volta amiconi, ora si scannano a suon di tweet al vetriolo. Cosa è successo tra i due? Come hanno reagito i mercati?

Che succede tra Elon Musk e Donald Trump? In questo articolo ricostruiremo gli eventi degli ultimi giorni che hanno portato il Tony Stark sudafricano e il 47esimo Presidente degli Stati Uniti dall’essere inseparabili come pizza e birra a scontrarsi senza esclusione di colpi. Ci occuperemo anche della reazione dei mercati, influenzati da questa rottura. Partiamo! 

Una rottura (quasi) improvvisa

Ciò che sta succedendo nelle ultime ore tra Elon Musk e Donald Trump, un botta e risposta via social dal sapore neanche troppo velatamente trash, sta catalizzando l’attenzione dei media di tutto il mondo a causa del suo carattere tanto violento quanto inaspettato. Per molti questo dissing è un fulmine a ciel sereno, un colpo di scena tale da tenerti incollato coi popcorn su X ad aggiornare in attesa di nuovi tweet. E non senza ragione: il ricordo di un Elon Musk con gli occhi a cuore per Donald Trump, sia in campagna elettorale che nei primi cinque mesi di mandato, è ancora vivo nella nostra mente.

Il patron di Tesla infatti, nei mesi precedenti alle elezioni presidenziali, ha supportato il candidato repubblicano a botte di donazioni – circa 300 milioni di dollari secondo le stime – e di endorsement divisi fra interviste e post su X. Anche durante i primi mesi di mandato, Musk ha partecipato attivamente all’amministrazione Trump istituendo il DOGE (Department of Government Efficiency), un apparato finalizzato alla riduzione degli sprechi pubblici e all’efficientamento della macchina governativa. Il 7 febbraio, poi, il Tony Stark dei tempi nostri pubblicava questo tweet: “Amo @realDonaldTrump tanto quanto un uomo etero può amare un altro uomo”. Insomma, non proprio la cronaca di una morte annunciata, per citare García Márquez. Tuttavia, in questo rapporto idilliaco già emergevano le prime ostilità. 

I primi scricchiolii: Elon Musk non è troppo d’accordo sui dazi trumpiani

Il 2 aprile, nel giorno trionfalmente definito “Liberation Day”, Donald Trump annuncia al mondo i dazi doganali. Ma Elon Musk è un tecno-capitalista, avverso alla burocrazia e forte sostenitore del libero mercato: già il 5 aprile, in occasione del Congresso della Lega a Firenze, in collegamento video con un Matteo Salvini visibilmente emozionato, aveva affermato di sperare in una partnership commerciale molto stretta fra Stati Uniti ed Europa, fondata su una “situazione di zero dazi nel futuro, verso una zona di libero scambio”. 

Qualche giorno dopo, l’8 aprile, aveva attaccato frontalmente Peter Navarro, principale consulente commerciale di Donald Trump nonché mente strategica dietro i dazi globali e la guerra commerciale con la Cina: “Navarro è davvero un idiota. Quello che dice qui è dimostrabilmente falso”, in riferimento ad alcune sue dichiarazioni relative a Tesla. Che poi, per fare una piccola parentesi, il dottor Musk potrebbe non avere tutti i torti, dal momento che Navarro ha giustificato la necessità di una trade war contro la Cina citando Ron Vara, un economista che non esiste. Come lo sappiamo? Perché Ron Vara è l’anagramma di Navarro, si auto-citava. Ma torniamo a noi. Il 22 aprile, in occasione della conferenza per le trimestrali di Tesla, Elon Musk ha dichiarato che, secondo lui, tariffe doganali più basse, così come il libero scambio delle merci, “sono generalmente una buona idea”. Nello stesso intervento, poi, ha comunicato agli investitori che avrebbe lasciato il DOGE a maggio. 

L’inizio dello scontro: il One Big Beautiful Bill Act

Il casus belli, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, sarebbe legato al giudizio di Elon Musk  – cioè “disgustoso abominio” – nei confronti del One Big Beautiful Bill Act (OBBBA), un’imponente legge che mira a estendere i tagli fiscali del primo mandato Trump e che aggiungerebbe, in dieci anni, circa 3.000 miliardi (3 trilioni) di dollari al debito pubblico americano, già spaventosamente alto (circa 36,4 trilioni di dollari). Questa incredibile quantità di denaro verrebbe recuperata tagliando i finanziamenti al welfare, all’istruzione e ai programmi di protezione ambientale contenuti nell’Inflaction Reduction Act di Joe Biden. Quest’ultimo punto è interessante, dato che andrebbe a penalizzare in primis Tesla eliminando i sussidi ai veicoli elettrici – circa 7.500$ a macchina – che Musk, però, sembra trascurare. 

Il giorno caldo è giovedì 5 giugno. Donald Trump ospita il cancelliere tedesco Friedrich Mertz nello Studio Ovale della Casa Bianca e si definisce “molto deluso” da Elon Musk, aggiungendo che avevano “un bel rapporto” che non si sa se continuerà. Inizia la pioggia di tweet. 

Musk risponde “Pazienza” e fa notare che senza di lui non avrebbe vinto le elezioni, “quanta ingratitudine”, commenta. Trump risponde affermando di averlo cacciato dall’incarico amministrativo e conclude il post con “è IMPAZZITO!”. Minaccia poi di cancellare i contratti governativi a Musk, fondamentali per aziende come SpaceX, come risposta alle critiche. Musk risponde in modo altrettanto duro e chiede l’impeachment– un’accusa formale a un alto funzionario pubblico, in questo caso Trump, finalizzata alla sua rimozione – e posta un altro tweet devastante: “È il momento di sganciare la vera bomba: @realDonaldTrump è nei file su Epstein. Questa è la vera ragione per cui non sono stati resi pubblici”. 

Adesso, il “peggio” sembra passato e, apparentemente, i due sembrano intenzionati a seppellire l’ascia di guerra. Nella mattinata italiana di venerdì 6 giugno, dalla Casa Bianca hanno fatto sapere che Mimì e Cocò avrebbero organizzato una telefonata di riconciliazione per chiarire quanto accaduto. Inoltre Bill Ackman, noto gestore di hedge fund americano, in un tweet ha suggerito ai due di “fare pace per il bene del Paese”. Elon Musk ha risposto con un secco “Non hai torto”. 

Come hanno reagito i mercati allo scontro tra Elon Musk e Donald Trump?

La grande osservata è naturalmente Tesla, sia perché ormai viene considerata l’estensione di Elon Musk sia perché, come abbiamo visto prima, il suo futuro è direttamente collegato alle politiche anti-ambientaliste di Donald Trump. Nella giornata di giovedì 5 giugno, infatti, il colosso americano delle auto elettriche è arrivato a perdere più del 15% in una sola seduta, passando dai 322,7$ ad azione ai 272,4$, per poi recuperare leggermente e attestarsi – al momento in cui scriviamo – sui 292,5$. Allo stesso modo l’S&P500, che contiene Tesla all’interno del paniere, lo stesso giorno è sceso di circa 1,3 punti percentuali, ma già nella giornata di venerdì 6 ha assorbito la perdita finendo addirittura in territorio positivo (+0,3% rispetto al bottom toccato giovedì). Lo stesso pattern si ripete un po’ per tutti i principali indici americani. 

Nel mercato delle criptovalute la situazione è un po’ più complessa, dato che Elon Musk e Donald Trump insieme erano considerati un po’ i crypto brothers o comunque celebrità crypto-friendly, come testimoniato dall’accordo tra Fidelity e World Liberty Finance e dall’associazione sempre più solida Musk-Dogecoin – ricordiamoci che nel governo USA esiste un apparato che si chiama letteralmente DOGE. In ogni caso, durante la scaramuccia social, Bitcoin ha perso più del 4% ma ha subito colmato il gap una volta toccato il supporto dei 100k, ritornando sulla soglia dei 104.500$. Discorso diverso per Ethereum che, dopo aver perso l’8,4% circa nella giornata di giovedì, è riuscita a riprendere solo metà di quanto perso, fermandosi intorno ai 2.500$. Invece, Solana ha replicato i movimenti di BTC poiché è scesa dai 153,2$ ai 141$, per poi tornare alla quota attuale di 151,7$. In ultimo, bella botta per il token del POTUS, TRUMP, che ha messo a segno un -13,7% giovedì, tentando il recupero disperato il giorno successivo, senza successo – poco più del 2%. Per concludere, gli eventi di giovedì 6 hanno fatto uscire circa 20 miliardi dal mercato, con la Total Market Cap che scende dai 3,24 trilioni di dollari ai 3,22 toccando, però, la cifra di 3,1 trilioni

Se non vuoi perderti altro drama (la maggior parte delle volte siamo seri), iscriviti ai nostri canali Telegram e Whatsapp, o direttamente qua sotto! 

Donald Trump, Elon Musk e DOGE: tagli o follie?

Donald Trump, Elon Musk e DOGE: tagli o follie?

Donald Trump ed Elon Musk hanno rivendicato molti tagli alla spesa pubblica grazie al DOGE. Alcuni trionfi, però, sono assurdità già smentite. Quali?

Donald Trump e Elon Musk hanno istituito il DOGE (Department of Government Efficiency) con l’obiettivo di modernizzare la tecnologia e i software federali per massimizzare l’efficienza e la produttività governativa. In sintesi, si tratta di ridurre la spesa pubblica eliminando gli sprechi, affinché i soldi dei contribuenti vengano gestiti in modo più funzionale. La cosa divertente è che alcuni di questi tagli, preannunciati in pompa magna, sono in realtà sciocchezze al limite del delirio. Vediamoli insieme

Il nemico preferito da Donald Trump ed Elon Musk: USAID

Donald Trump ed Elon Musk, in questi primi mesi di mandato, hanno condotto una battaglia all’ultimo sangue contro USAID (United States Agency for International Development), agenzia federale statunitense responsabile degli aiuti per lo sviluppo economico e umanitario nel mondo. Il DOGE è stato sguinzagliato talmente tante volte contro questa organizzazione da rendere necessaria una sezione specifica. Partiamo con la bufala più eclatante:

50 milioni di dollari per Gaza, in preservativi

Tutto nasce quando Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca, ha dichiarato che l’amministrazione Trump aveva individuato e bloccato un piano di aiuti “per finanziare i preservativi a Gaza”, spiegando come parte della scoperta fosse merito del team di DOGE. Elon Musk ha subito pubblicato un post su X (ex Twitter) con le parole della portavoce aggiungendo un fiero “la punta dell’iceberg”. 

La storia, per quanto particolare, è totalmente inventata per almeno tre motivi. In primo luogo, la Casa Bianca non ha fornito prove a supporto di questa dichiarazione, neanche una. In secondo luogo, la CNN ci fa sapere che, sotto il governo Biden, USAID non ha speso un dollaro in preservativi da mandare in Medio Oriente. Infine, il totale impiegato da USAID in contraccettivi da mandare in tutto il mondo è di gran lunga inferiore ai 50 milioni di dollari: nel 2023 si aggirava intorno ai 9 milioni. 

USAID paga le celebrità di Hollywood per andare in Ucraina

La guerra tra Russia e Ucraina va avanti da anni ormai e di falsità se ne sono sentite parecchie. Questa però è curiosa. Elon Musk ha repostato un tweet su X che diceva: “Lo sapevi che USAID ha speso i soldi delle vostre tasse per finanziare i viaggi dei VIP in Ucraina, il tutto per aumentare la popolarità di Zelensky fra gli americani?” L’elenco di questi VIP includeva Ben Stiller, Angelina Jolie, Sean Penn e Orlando Bloom, che apparivano in un video col logo di E! News – l’equivalente americano di Verissimo su Canale 5.  

Il video era un’invenzione, una fake news totale. E! News ha smentito subito, Ben Stiller ha affermato di essersi pagato il viaggio di tasca sua e una serie di esperti ha accostato il contenuto ad una campagna di disinformazione, probabilmente ad opera di russi.  

USAID ha finanziato il Covid-19

Elon Musk, il 2 febbraio 2025, ha pubblicato su X un tweet in cui scriveva “Lo sapevi che USAID, usando i TUOI soldi delle tasse, ha finanziato la ricerca sulle armi biologiche, incluso il COVID-19, che ha ucciso milioni di persone?” 

Questo caso, a dir la verità, è leggermente più spinoso dei precedenti: USAID ha effettivamente finanziato EcoHealth Alliance, un’organizzazione no profit che faceva ricerca sui pericoli dei virus provenienti dagli animali selvatici. Durante la prima presidenza Trump, questi finanziamenti sono stati bloccati perché EcoHealth lavorava a stretto contatto coi ricercatori di Wuhan, da dove è partita la pandemia, per essere poi riattivati e interrotti definitivamente con Joe Biden. 

Tutto ciò, per quanto possa sembrare sospetto, non basta per giustificare un’accusa come quella di Elon Musk, che è uomo di scienza e dovrebbe sapere come funziona il metodo scientifico: la correlazione tra due eventi non implica necessariamente un rapporto di causalità. È il più classico dei sillogismi errati, che si basano su bias cognitivi ed euristiche. Senza contare, poi, che ci stiamo dimenticando dell’elefante nella stanza, cioè che la comunità scientifica afferma di non avere evidenze scientifiche a supporto della tesi “fuga del Covid dal laboratorio”.   

USAID ha finanziato Politico (testata giornalistica)

Donald Trump, Elon Musk e altri politici della destra americana hanno accusato USAID di finanziare con milioni di dollari la testata giornalistica Politico, al fine di “scrivere belle storie sui Democratici”. La verità è che USAID ha effettivamente pagato Politico, ma per gli abbonamenti della sezione Pro – un po’ come i nostri club – che, come si legge sul loro sito, è “un servizio di abbonamento professionale utilizzato da aziende, organizzazioni e, sì, anche da alcune agenzie governative“. 

Questa ingente quantità di denaro, in realtà, ammonta a 44.000$, come riporta USAspending.gov, il sito ufficiale del governo degli Stati Uniti che fornisce trasparenza e dati dettagliati sulle spese federali. Si è trattato, pertanto, di una semplice transazione fra cliente e venditore, non di un finanziamento. 

Chiudiamo ora la parentesi USAID e continuiamo con altre sviste imbarazzanti.

Elon Musk: il New York Times è un media finanziato dal governo  

Mercoledì 5 febbraio 2025, Elon Musk reposta un tweet di Ian Miles Cheong – un influencer “giornalista” amato dalla destra americana – in cui si denunciava con toni indignati il fatto che il governo avesse dato “milioni di dollari al New York Times nell’arco degli ultimi 5 anni”. Il nostro Musk, senza premurarsi di controllare, grida allo scandalo e invoca il feroce DOGE. 

Il problema è che questo grande giornalista d’inchiesta, il signor Cheong, nell’indagare le malefatte del governo federale, ha commesso un errore a dir poco grossolano: i “milioni di dollari” di finanziamento effettivamente esistevano, ma riguardavano tutte le entità che, nel nome, avevano la parola New York. Tra queste, la New York University che nel 2024 ha ricevuto, solo per la sezione di fisica, 7,5 milioni di dollari. 

Il Pentagono ha finanziato Reuters con milioni di dollari

L’ultimo delirio rientra nella categoria “attacchi di Elon Musk e Donald Trump  ai media e alle agenzie di stampa”. La vittima, in questo caso, è Reuters, storica agenzia di stampa fondata a Londra nel 1851 da Paul Reuter, adesso acquisita dalla canadese Thomson Reuter Corporation.

Il tutto si articola intorno all’ennesimo tweet repostato da Elon Musk il 13 febbraio 2025, in cui il patron di Tesla commentava: “Reuters ha ricevuto milioni di dollari dal governo degli Stati Uniti per una “inganno sociale su larga scala”. È letteralmente ciò che c’è scritto nell’ordine di acquisto! Sono uno scam totale”. Il tweet repostato, in effetti, riportava uno screenshot preso da USAspending.gov in cui si poteva leggere che la Thomson Reuter Special Services riceveva finanziamenti dal Dipartimento della Difesa USA con causale “difesa attiva contro l’ingegneria sociale” e “inganno sociale su larga scala”. Prima di passare alla confutazione, quali sono secondo te le fonti citate in questo tweet? Esatto, DOGE e il grande reporter investigativo Ian Miles Cheong.

La società destinataria dei finanziamenti, come qualcuno si sarà accorto, non era l’agenzia di stampa Reuters ma la Thomson Reuters Special Services. Se è vero che entrambe le società fanno capo alla Thomson Reuters Corporation, l’agenzia di stampa non ha ricevuto un dollaro dal Pentagono. Inoltre, i finanziamenti erano finalizzati allo sviluppo di software di protezione contro i cyberattacchi e, dulcis in fundo, erano stati erogati proprio dall’amministrazione Trump nel 2018. 

Cari Elon e Donald: più dati e meno figuracce

Qualcuno dice che siamo nell’era della post-verità, dove per post-verità si intende “un’affermazione che si appropria di una pretesa verità, senza riscontro, facendole eco, diffondendola e propagandola” (Treccani). Da quello che abbiamo visto in questi primi cinque mesi di mandato, i fatti confermerebbero questa tesi, perché anche il vecchio Donald Trump di cose assurde ne ha dette. In ogni caso, il 24 maggio sul suo social X, Elon Musk ha comunicato la volontà di lasciare il DOGE: “si torna a passare tutto il tempo al lavoro e a dormire in sale conferenze/server/fabbriche”. 

Detto ciò, il consiglio è di informarti ed esaminare i dati prima di dichiarare assurdità che potrebbero compromettere la tua reputazione. Comincia iscrivendoti qui sotto o a uno dei nostri canali per restare aggiornata/o sulle cose rilevanti!

I dazi di Trump bloccati: la reazione dei mercati

I dazi di Trump bloccati: la reazione dei mercati

I dazi imposti da Donald Trump nel Liberation Day sono stati bloccati dalla Corte federale del commercio americano: come hanno reagito i mercati?

I dazi annunciati da Donald Trump nel Liberation Day del 2 aprile sono stati dichiarati illegali nella notte italiana tra mercoledì 28 e giovedì 29 maggio. A emettere la sentenza, la Corte federale del commercio americano. Dall’altro lato, l’amministrazione Trump ha già dichiarato il ricorso in appello. Nell’attesa di capire cosa succederà, come hanno reagito i mercati alla notizia?    

I dazi di Donald Trump dichiarati illegali: la sentenza

La U.S Court of International Trade (USCIT), un tribunale federale che si occupa di gestire le cause civili legate all’importazione e al commercio internazionale, ha bloccato i dazi introdotti dal Presidente degli Stati Uniti. Le motivazioni risiedono principalmente nel fatto che Donald Trump non avrebbe l’autorità per imporre i dazi in modo autonomo, cioè senza passare per il Congresso: il Parlamento americano, infatti, è l’organo istituzionale che, secondo la Costituzione, ha il potere di autorizzare o meno le tariffe doganali. The Donald, invece, ha saltato questo passaggio invocando lo IEEPA (International Emergency Economics Power Act), una legge del 1977 che conferisce al Presidente il potere di regolamentare il commercio in risposta a minacce che possano costituire un’emergenza nazionale.

Il problema principale, secondo l’interpretazione della Corte, è lo IEEPA non concede automaticamente poteri illimitati al Presidente e, pertanto, ha deciso di annullare i dazi doganali del 2 aprile. Nello specifico, nella sentenza si legge che le tariffe “vanno oltre qualsiasi autorità concessa al Presidente dall’IEEPA per regolamentare le importazioni”. Inoltre, la USCIT ha giudicato illegali anche gli oneri doganali imposti nei confronti di Canada, Cina e Messico finalizzati al contrasto del fentanyl perché “non ci sarebbe connessione fra l’imposizione dei dazi e le minacce insolite e straordinarie che i provvedimenti contro il traffico di droga dichiarano di voler contrastare”. Subito dopo la sentenza, l’amministrazione Trump ha annunciato il ricorso alla Corte d’Appello

Noi di Young Platform pubblichiamo spesso aggiornamenti relativi alle cose che contano: economia, finanza, politica e geopolitica. Entra nei nostri canali Telegram e Whatsapp e non restare indietro con le notizie!

La reazione dei mercati

La decisione della USCIT è stata accolta con favore dalla Borse europee, che aprono in verde e – al momento in cui scriviamo – sembrano decise a continuare in questo modo: il CAC 40 di Parigi guadagna lo 0,73%, il DAX di Francoforte lo 0,42% e Il FTSE MIB di Milano registra un +0,45%. In controtendenza il FTSE 100 di Londra, giù dello 0,11%. Molto bene anche i listini asiatici, che hanno chiuso tutti in rialzo: Tokyo ha messo a segno un +1,88%, Shenzhen un +1,33%, Hong Kong sale dello 0,9% così come Shanghai, in rialzo dello 0,7%. Anche le Borse USA sembrano contente della decisione della Corte, coi futures di Wall Street che salgono di oltre l’1%

Il mercato crypto si unisce al trend con Bitcoin su di circa 2000$ a 108.600$, Ethereum mette a segno un +4,3% rispetto alla giornata di ieri e viaggia intorno ai 2.730$, mentre Solana approfitta del momento per recuperare qualcosa dal crollo di ieri, toccando quota 175$ per poi scendere e – per ora – stabilizzarsi sui 172$. Il clima è comunque molto positivo, perché la sospensione “ufficiale” dei dazi potrebbe portare molta liquidità al nostro mercato preferito. 

Se vuoi restare sul pezzo, iscriviti a Young Platform e non perderti le notizie rilevanti!

Come funziona il prelievo forzoso?

Prelievo forzoso: come funziona?

I miei soldi possono davvero sparire dal conto? Tutto sul prelievo forzoso

L’idea che i propri risparmi, frutto di lavoro e sacrifici, possano svanire dal conto corrente è fonte di ansia per molti. Questo timore, a volte alimentato da informazioni imprecise, merita chiarezza. 

Sebbene esistano circostanze in cui terzi possono accedere legalmente ai fondi depositati in banca, non si tratta di un evento arbitrario o improvviso, ma di una procedura ben definita dalla legge, nota come prelievo forzoso o, più tecnicamente, pignoramento presso terzi. Capiamo meglio di cosa si tratta.

Cos’è esattamente un prelievo forzoso?

Un prelievo forzoso non è un furto né un errore della banca: è l’atto finale di un procedimento legale attraverso il quale un creditore, munito di un titolo esecutivo (un documento che accerta il suo diritto), recupera somme dovute da un debitore agendo direttamente sul suo conto corrente. La banca, in questo scenario, agisce come “terzo pignorato”, ovvero come soggetto che detiene somme del debitore e che è obbligato per legge a trasferirle al creditore su ordine dell’autorità competente.

È fondamentale sottolineare che si arriva al prelievo forzoso solo dopo che il debito è stato formalmente accertato e il debitore ha avuto diverse occasioni per regolarizzare la propria posizione.

Chi può autorizzare un prelievo forzoso e per quali debiti?

Non chiunque vanti un credito può presentarsi in banca e chiedere i soldi di un altro. L’azione richiede sempre l’intervento di un’autorità e il rispetto di precisi passaggi. I principali soggetti che possono attivare questa procedura sono:

  1. L’agenzia delle entrate-riscossione (ader): è l’ente preposto alla riscossione dei crediti dello stato e di altri enti pubblici. Parliamo di:
    • tasse non pagate (irpef, iva, imu, tari, ecc.);
    • contributi previdenziali inevasi;
    • multe stradali non saldate;
    • bollo auto scaduto e non pagato. In questi casi, il percorso tipico prevede la notifica di un avviso di accertamento, seguito dalla temuta “cartella esattoriale”. Se il debito non viene saldato o rateizzato entro i termini (solitamente 60 giorni dalla notifica della cartella), l’ader può inviare un’intimazione di pagamento e, successivamente, procedere con il pignoramento del conto.
  2. L’autorità giudiziaria (tribunale): a seguito di una causa civile, un giudice può ordinare il pignoramento del conto per soddisfare crediti di natura privata. Ad esempio:
    • assegni di mantenimento non corrisposti all’ex coniuge o ai figli;
    • canoni di locazione non pagati;
    • fatture insolute verso fornitori o professionisti;
    • risarcimenti danni stabiliti da una sentenza. Il creditore privato deve prima ottenere un “titolo esecutivo”, come una sentenza passata in giudicato, un decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo, o un assegno/cambiale protestati.

Come funziona la procedura di pignoramento del conto corrente?

Una volta ottenuto il via libera, il creditore notifica l’atto di pignoramento sia al debitore sia alla banca. Da quel momento la banca è tenuta a bloccare sul conto del debitore una somma pari all’importo del credito vantato, aumentato delle spese legali. 

Se il saldo è inferiore, viene bloccato l’intero importo disponibile. Dopodiché, entro termini stabiliti, la banca deve comunicare al creditore l’effettiva esistenza di fondi pignorabili. Se il debitore non si oppone o se l’opposizione viene respinta, il giudice (o l’ader in caso di debiti fiscali) ordina alla banca di versare le somme bloccate al creditore.

Esistono però dei limiti al pignoramento per tutelare la sussistenza del debitore:

  • Stipendi e pensioni: se accreditati sul conto, non possono essere pignorati integralmente. Per le somme già accreditate al momento del pignoramento, la parte che eccede il triplo dell’assegno sociale (un importo annuo aggiornato dall’inps, nel 2024 pari a circa 534 euro mensili) può essere pignorata. Quindi, se l’assegno sociale è 534 euro, il limite di impignorabilità sul saldo esistente è di circa 1.602 euro. Per i futuri accrediti di stipendio o pensione, il pignoramento può avvenire generalmente nella misura di un quinto, ma la frazione può variare a seconda dell’importo e di eventuali altri pignoramenti in corso.
  • Conti cointestati: si presume che le somme appartengano ai cointestatari in parti uguali. Pertanto, di norma, può essere pignorata solo la quota del debitore (solitamente il 50%).
  • Somme impignorabili: alcune somme sono per legge assolutamente impignorabili, come le pensioni di invalidità, gli assegni di accompagnamento, o le rendite da assicurazioni sulla vita (in determinate condizioni).

Cosa fare se si riceve un avviso di pignoramento del conto?

La prima regola è: non ignorare il problema, perché in questo modo la situazione peggiora drasticamente. 

Innanzitutto è bene controllare attentamente la documentazione per capire l’origine del debito, l’importo e se è effettivamente dovuto. Se il debito è legittimo, la soluzione più rapida per sbloccare il conto è pagare l’intero importo. Con l’agenzia delle entrate-riscossione è spesso possibile richiedere una rateizzazione del debito, che, una volta concessa e pagata la prima rata, può portare alla sospensione del pignoramento. Se, invece, si ritiene che il pignoramento sia ingiusto (es: debito già pagato, errore di notifica, pignoramento di somme impignorabili), è possibile presentare opposizione davanti al giudice competente. È un’azione legale complessa per cui è indispensabile l’assistenza di un avvocato.

Prevenzione: come evitare brutte sorprese

La migliore strategia è la prevenzione:

  • Tenere sotto controllo le proprie scadenze fiscali e i pagamenti.
  • Non ignorare mai avvisi di accertamento, cartelle esattoriali o comunicazioni legali (soprattutto le raccomandate).
  • In caso di difficoltà economiche temporanee, cercare un dialogo con i creditori o con l’ader per trovare soluzioni sostenibili (es. piani di rateizzazione) prima che la situazione degeneri.

Il prelievo forzoso dal conto corrente è una misura seria, l’ultima spiaggia per i creditori per recuperare quanto loro dovuto. Sebbene l’idea possa spaventare, è importante ricordare che si tratta di una procedura legale. Conoscere le regole, i propri diritti e i limiti imposti dalla legge al pignoramento è il primo passo per affrontare la situazione con maggiore consapevolezza. La gestione responsabile delle proprie finanze e l’azione tempestiva in caso di difficoltà restano le armi più efficaci per evitare che i propri soldi “spariscano” davvero dal conto.

Donald Trump e i dazi: la verità ti fa male, lo so

Donald Trump e i dazi: la verità ti fa male, lo so

Il Presidente USA Donald Trump ha sostenuto i dazi con dichiarazioni spesso false o inesatte. Qui vedremo quelle più clamorose. Buon divertimento!

Il Presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump ha fondato la sua campagna elettorale sulla necessità di rendere l’America grande ancora – Make America Great Again – e lo ha fatto a suon di slogan e frasi ad effetto come “America First!” e “ritorno all’Età dell’Oro”. I dazi commerciali, imposti poi revocati poi ripristinati, sono frutto di questa strategia e vengono giustificati a colpi di dichiarazioni di grande impatto. Il problema è che molte di queste sono totalmente infondate. Via al fact checking!

Donald Trump quando parla di Stati Uniti tende a gonfiare le cifre

Donald Trump è un fiero americano e, come tale, è incline ad ingrandire tutto ciò che riguarda gli Stati Uniti d’America, numeri compresi. Prendiamo in esame qualche fiammata sovranista: 

  • L’accordo di Parigi sul clima è costato agli Stati Uniti “trilioni di dollari che gli altri paesi non stavano pagando”. In occasione del Congresso del 4 marzo 2025, Donald Trump ha giustificato così l’uscita dall’Accordo di Parigi sul clima: falso, gli Stati Uniti non hanno mai destinato somme neanche lontanamente simili all’Accordo. Joe Biden, al momento dell’insediamento, aveva promesso di stanziare circa 11 miliardi all’anno, cifra in seguito ridimensionata. 
  • Honda ha appena annunciato un nuovo stabilimento in Indiana, uno dei più grandi al mondo”. Sempre in occasione del Congresso del 4 marzo 2025, il Presidente USA ha dichiarato in tono trionfale la costruzione di un nuovo polo industriale da parte del colosso giapponese: falso, Honda aveva espresso l’intenzione di costruire la nuova Honda Civic in Indiana piuttosto che in Messico, come riportato da Reuters, senza dare conferma di quanto detto sopra.  
  • Gli Stati Uniti stanno incassando 2 miliardi di dollari al giorno dai dazi doganali”. Dichiarazione dell’8 aprile 2025, durante il discorso ai lavoratori dell’industria del carbone: falso, la cifra è nell’ordine delle centinaia di milioni, non di miliardi e, soprattutto, i dazi sono a carico degli importatori americani, non degli esportatori stranieri.  
  • Stavamo perdendo 2 trilioni di dollari all’anno sul commercio”. Frase detta da Donald Trump il 22 aprile 2025 durante un’intervista per il Time nella Casa Bianca. Qui, il POTUS si riferisce al deficit commerciale degli Stati Uniti col resto del mondo prima del suo arrivo: falso, nel 2024 lo squilibrio ammontava a circa 918 miliardi di dollari, nel 2023 a 773 miliardi, nel 2022 a 945 miliardi e così via. 
  • Ho siglato 200 accordi”. Il 25 aprile 2025, nella stessa intervista al Times, alla domanda “Non ne è stato annunciato neanche uno (accordo commerciale, ndr). Quando li annuncerete?” Donald Trump ha risposto con un secco “Ho chiuso 200 accordi”: falso, non c’era – e non c’è – alcuna prova che possa validare questa affermazione.

Donald Trump e Unione Europea: non proprio amore a prima vista

Che il Presidente degli Stati Uniti d’America non provi eccessiva simpatia nei confronti del Vecchio Continente è cosa nota: proprio recentemente ha confermato questa “leggera” antipatia alzandoci i dazi al 50%. Vediamo perché: 

  • Non comprano le nostre macchine, non comprano il nostro cibo. Non comprano nulla”. Domenica 6 aprile 2025, Donald Trump ha dichiarato ai giornalisti a bordo dell’aereo presidenziale Air Force One che l’Unione Europea fondamentalmente se ne approfitterebbe degli USA: falso, solo nel 2024, l’UE ha importato dagli Stati Uniti beni per quasi 650 miliardi di dollari. Non proprio spiccioli. 
  • Non prendono i nostri prodotti agricoli”. Sempre in quel 6 aprile, il POTUS ci ha accusato di non comprare beni e merci per l’agricoltura: falso, come riporta lo stesso governo USA, nel 2024 l’Unione Europea ha speso quasi 13 miliardi di dollari (+1% rispetto al 2023) in derrate agricole. Ci piace molto la frutta secca (con guscio) americana.
  • Mettono delle barriere che rendono impossibile vendere un’auto. Non è questione di soldi. È che rendono tutto così difficile: gli standard, i test. Ti lasciano cadere una palla da bowling sul tetto dell’auto da sei metri d’altezza. E se c’è una piccola ammaccatura, ti dicono: Mi dispiace, la tua auto non è idonea”. Questa è veramente stupenda. Lunedì 7 aprile 2025, bilaterale col primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: falso, non c’è nessun controllo di sicurezza simile in Europa e, soprattutto, non c’è scritto da nessuna parte che un danno minore possa far fallire il test all’auto. 
  • L’Unione Europea è stata creata con lo scopo di sfruttare gli Stati Uniti d’America”: falso. Il 10 aprile 2025, Donald Trump è protagonista di una sparata talmente vaga da essere difficile da confutare. In ogni caso, numerosi studiosi – soprattutto storici ed economisti – sono rimasti spiazzati di fronte a questa dichiarazione. John O’Brennan, importante professore di Integrazione Europea, Politica dell’Unione Europea e Relazioni Internazionali, ha affermato che questa uscita “non potrebbe essere più sbagliata o inaccurata”. E come lui molti altri.

Dalla Cina con furore

Che americani e cinesi non vadano d’amore e d’accordo è risaputo. Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, dal suo insediamento, ha rincarato la dose con una guerra commerciale a base di dazi estremi poi sospesi. Esaminiamo qualche suo recente esercizio di ginnastica mentale:

  • Abbiamo avuto enormi deficit con la Cina. Biden ha lasciato che la situazione sfuggisse di mano. Sono deficit per 1,1 trilioni di dollari; ridicoli, ed è semplicemente una relazione ingiusta”. È il 23 gennaio 2025 e siamo al meeting annuale del World Economic Forum di Davos quando dagli altoparlanti si diffondono queste parole: falso. I fact checkers indicano che nel 2023 effettivamente il deficit commerciale degli Stati Uniti complessivamente viaggiava su quella cifra. Donald Trump, però, si dimentica un dettaglio importante: il deficit di 1,1 trilioni di dollari riguarda tutto il mondo, non solamente la Cina, e considera solo i beni senza includere i servizi nel calcolo. 
  • Abbiamo un deficit con la Cina di più di un trilione di dollari”. L’ha affermato The Donald in un’intervista alla Fox News Radio del 21 febbraio 2025: falso. Come riportato dal B.E.A. (Bureau of Economic Analysis), nel 2024 il deficit commerciale si aggirava sui 263 miliardi di dollari, nel 2023 la cifra era prossima ai 252 miliardi. Insomma, ha sbagliato di circa 730 miliardi di dollari.
  • La Cina “non ha mai pagato neanche 10 centesimi a ogni altro Presidente americano”. Liberation Day, mercoledì 2 aprile 2025. Donald Trump annuncia per la prima volta i dazi e trova il tempo per sparare un’altra pallottola propagandistica. Con ciò, il POTUS intendeva dire che prima di lui, i cinesi erano liberi di commerciare a gratis con gli Stati Uniti: falso, nel 1792 Alexander Hamilton, allora Segretario al Tesoro USA, propose la Tariff Act – nota anche come Hamilton Tariff – per incentivare il consumo di merci prodotte internamente. 

The Donald: l’erba del vicino è sempre più verde

Chiudiamo questa rassegna di acrobazie retoriche coi vicini di casa degli Stati Uniti: Canada e Messico. Queste tre grandi nazioni hanno da sempre rapporti commerciali molto stretti, ufficializzati da vari accordi tra cui il NAFTA (North American Free Trade Agreement) e l’USMCA (United States Mexico Canada Agreement). 

  • Gli Stati Uniti hanno “200 miliardi di deficit col Canada”. Lo ha sottolineato più volte il 7 gennaio 2025, in occasione di una conferenza stampa nella sua casa di Mar-a-Lago: falso. Sempre i dati del B.E.A. ci dicono che nel 2024 lo squilibrio tra import ed export col Canada ammontava a 35,7 miliardi di dollari.
  • Il Canada è “UNA DELLE NAZIONI COI DAZI PIÙ ALTI AL MONDO”. Tutto maiuscolo perché Donald Trump, su Truth, scrive spesso in caps lock. L’11 marzo 2025 pubblica questo statement: falso, come riportato anche dalla Banca mondiale, che mette il Canada nella 102esima posizione su 137 paesi per tariffa media ponderata su tutti i prodotti. Questo indicatore riflette la media delle tasse sulle importazioni, calcolata tenendo conto di – ponderando – quanto vengono importati i diversi prodotti.
  • Il Canada non permette alle banche americane di fare affari in Canada, ma le loro banche invadono il mercato americano. Oh, mi sembra proprio giusto, vero?” scriveva su Truth il 4 marzo 2025: falso, il Canada non vieta la presenza di banche straniere, men che meno americane. Recentemente hanno irrigidito la regolamentazione, ma istituzioni bancarie come Bank of America, Citigroup e Wells Fargo operano sul suolo canadese da più di cento anni.
  • Abbiamo un deficit commerciale col Messico di 200 miliardi di dollari”. Il Presidente degli USA lo ha affermato il 9 febbraio 2025, durante un’intervista per Fox News: falso, sempre i dati del B.E.A. del 2024 indicano un disavanzo commerciale pari a circa 180 miliardi di dollari, la metà di quanto detto da Trump.

Insomma, abbiamo analizzato solo un decimo delle falsità che il 48esimo Presidente degli Stati Uniti d’America ha avuto modo di inventare durante questi primi cinque mesi di mandato. Conoscere i dati è importantissimo e ti permette di parlare con cognizione di causa, evitando delle figuracce epocali e imbarazzanti. 

Per questo motivo, iscriviti a Young Platform e informati, così avrai argomentazioni sicure coi tuoi amici durante l’aperitivo del giovedì pomeriggio!

Rapporto ISTAT 2025: come sta l’Italia oggi?

Rapporto ISTAT 2025: come sta l’Italia oggi?

Com’è la situazione in Italia oggi? A quanto ammonta la popolazione italiana e come è organizzata? Quanti hanno un lavoro? L’economia sta crescendo? In questo articolo, troverai tutte le risposte che cerchi

Il rapporto annuale ISTAT del 2025 analizza ed elabora i dati del 2024, descrivendo la situazione dal punto di vista dei cambiamenti della popolazione italiana, dell’economia e dell’assetto sociale e sociali. Nello specifico, esamina i punti di forza e di debolezza del nostro Paese, concentrandosi sulla dimensione macroeconomica e sul profilo della popolazione italiana a livello di demografia, istruzione e redditi da lavoro. A che punto siamo? 

Popolazione italiana e società: il quadro demografico

Nel Rapporto annuale del 2025, l’ISTAT ci dice che il trend negativo di calo della popolazione in Italia prosegue. La causa principale risiede nel saldo naturale (nascite meno decessi) fortemente negativo. In particolare, le nuove nascite nel 2024 ammontavano a 370.000, circa 200.000 in meno rispetto al 2008, con un tasso di fecondità al minimo storico di 1,18 figli per donna. A questo, bisogna aggiungere i 156.000 italiani emigrati all’estero e il fenomeno della “fuga di cervelli”: in dieci anni, 97.000 giovani laureati, compresi nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni, hanno scelto di vivere all’estero. Il saldo migratorio, con 435.000 nuovi ingressi nel 2024 (+20,5% rispetto al 2023) non basta per compensare le perdite. In ogni caso, l’Italia resta uno dei paesi più longevi al mondo, con un quarto dei residenti che ha più di 65 anni (il doppio rispetto ai minori di 15 anni), 4,6 milioni di ultraottantenni e 23.500 ultracentenari. Le previsioni per il futuro confermano queste traiettorie. 

Infatti, riprendendo l’ultima rilevazione ISTAT – al 31 gennaio 2025 – relativa al bilancio demografico, in Italia la popolazione residente ammonta a 58.924.313 persone, un numero inferiore di circa 10.000 unità rispetto all’inizio dell’anno. Le nascite a gennaio 2025 si aggirano intorno alle 31.000 unità, in calo del 6% rispetto a gennaio 2024, mentre i decessi sono 66.000, una cifra inferiore dello 0,4% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. 

In sintesi, i dati aggregati del Rapporto annuale ISTAT 2025 sulla popolazione in Italia – residente, sia italiana sia straniera – mostrano la seguente composizione demografica: 

  • 0-20 anni: 17,8% 
  • 21-45 anni: 31.3%
  • 46-70 anni: 38,8%
  • 71- 100 e più: 12,1% 

Le previsioni per il futuro, come anticipato, confermano questi trend: si stima che in Italia, la popolazione residente sarà pari a

  • 58,6 milioni a gennaio 2030
  • 54,8 milioni a gennaio 2050
  • 46,1 milioni a gennaio 2080  

 Composizione delle famiglie italiane e natalità 

A quanto si legge, le tendenze descritte sono causa e conseguenza di dinamiche demografiche strutturali: le famiglie monopersonali superano il 35%, mentre le coppie con figli scendono al 28,2%. I matrimoni sono in calo da quarant’anni, dal momento che si passa dai 400.000 e oltre degli anni Settanta ai 184.207 del 2023. Ciò è dovuto sia al crollo della natalità, che banalmente riduce il numero di adulti, sia a cambi di natura sociologica, con le unioni libere sempre più diffuse anche in caso di figli. Inoltre, due terzi dei giovani tra i 18 e 34 anni vive ancora coi genitori, contro la media europea del 49,6%. 

Per quanto riguarda la natalità, il Rapporto mette a confronto la generazione delle madri (nate cioè nel 1958) con le attuali quarantenni, evidenziando come la quota delle donne senza figli sia raddoppiata, dal 13% al 26% stimato, con un picco nel Sud Italia di tre donne su dieci. Infine, il primo figlio arriva in età sempre più avanzata: dai 25,9 anni per le donne nate nel 1960 ai 29,1 anni per quelle del 1970, con ritardi ancora più marcati per le generazioni più giovani. 

Economia italiana: cosa ci dicono i dati?

Il Rapporto annuale ISTAT 2025 comincia col resoconto del quadro macroeconomico italiano, cioè con la descrizione complessiva dello stato di salute e delle prospettive dell’economia dell’Italia. Secondo quanto rilevato dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT, appunto), l’economia italiana nel 2024 ha continuato a crescere in modo lento ma graduale, nonostante la situazione europea attuale non sia delle più dinamiche: come nel 2023, il PIL (Prodotto Interno Lordo) è aumentato dello 0,7%, meno rispetto a Francia (+1,2%) e Spagna (+3,2%), ma di più rispetto alla Germania (-0,2%). 

Le stime per il primo trimestre del 2025 vedono una crescita congiunturale dello 0,3%, che corrisponde ad una crescita annua acquisita dello 0,4%. Nel caso in cui ti stessi chiedendo cosa significano queste due righe, per “crescita congiunturale” si intende la variazione percentuale del PIL rispetto al trimestre precedente, mentre la “crescita annua acquisita” ci dice quale sarebbe il risultato a fine anno se l’economia restasse immobile. Unite, queste due misure servono a tracciare un quadro economico complessivo che consideri il brevissimo periodo (trimestre) e l’anno in corso. Sempre per fare un paragone, l’andamento congiunturale italiano è stato superiore a Germania e Francia (+0,2% e +0,1%) ma inferiore alla Spagna (+0,6%). 

Il Rapporto segnala una buona spinta da parte della componente nazionale – formata da consumi nazionali e investimenti – con calo della domanda estera. Questa contrazione è dovuta alla forte incertezza causata dal contesto geopolitico attuale e dalle misure protezionistiche, imposte e poi sospese, dell’amministrazione statunitense. Per queste ragioni, ci dice l’ISTAT, le previsioni per l’Italia da parte delle varie istituzioni nazionali e internazionali vedono un rallentamento dell’espansione economica nel 2025, al pari delle altre economie avanzate. Il saldo della bilancia commerciale, cioè la differenza tra export e import, nel 2024 è salito fino a 55 miliardi di euro, rispetto ai 34 miliardi del 2023. 

In che stato è il mercato del lavoro?

Secondo l’ISTAT, nel 2024 il numero degli occupati è cresciuto di molto (+1,5%), sostenuto dai contratti a tempo indeterminato, mentre si è ridotta del 6,8% la fetta dei contratti a termine. Inoltre, nel Q1 del 2025, gli occupati sono aumentati dello 0,7% rispetto a dicembre e dell’1,9% – 450.000 nuovi contratti – rispetto a marzo 2024. In ogni caso, a fine 2024, il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni si attesta al 62,2% (23,9 milioni di persone): un buon numero, anche se di molto inferiore a quello della Germania (circa il 77%) e lievemente più ridotto rispetto a quello di Francia (69%) e Spagna (66%). 

Come abbiamo anticipato, il contratto a tempo pieno e indeterminato domina e riguarda il 63% dei lavoratori, con un aumento del 2,1% rispetto al 2023 e del 4,8% rispetto al 2019. Tuttavia, nel 2024, il Rapporto segnala che il 30% delle donne lavora in part-time e che spesso, non è una scelta. 

Finanza pubblica e bilancio dello Stato

Come si valuta lo stato della finanza pubblica? Col saldo primario, quindi calcolando la differenza fra spese dello Stato (al netto degli interessi sul debito, ovvero togliendo da questa cifra gli interessi sui titoli di stato come i BTP) ed entrate dello Stato. Il risultato può essere positivo, l’avanzo primario, o negativo, cioè il disavanzo primario. Il Rapporto annuale dell’ISTAT ci comunica che, nel 2024, la finanza pubblica è migliorata in modo significativo: il saldo primario è positivo per la prima volta dal 2019 a causa dell’aumento delle entrate, quindi delle tasse, e della minima riduzione delle uscite, dunque della spesa pubblica. Tuttavia, il rapporto fra debito pubblico e PIL sale di 0,7 punti percentuali, dal 134,6% al 135,3%.

La situazione sul versante prezzi e retribuzioni

Questa sezione inizia con una buona notizia: nel 2024 si è consolidato il processo di disinflazione. Il Rapporto indica che l’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato per i paesi europei (IPCA, una metrica che serve a standardizzare le metodologie di misurazione dell’inflazione dell’Eurozona) è passato dal 12,6% annuo dell’ottobre 2022 all’1,1% nel 2024, il valore più contenuto tra le grandi economie europee. Le proiezioni per il 2025, però, vedono un leggero incremento: i prezzi sono tornati a salire in modo moderato nei primi mesi di quest’anno. 

Il discorso non è così roseo quando si parla di retribuzioni nominali. Rispetto a gennaio 2019, a causa del boom inflazionistico causato da Covid e guerre, nel 2022 la perdita di potere d’acquisto per un lavoratore era superiore al 15%, mentre a marzo 2025 è pari al 10%. In altre parole, significa che a marzo scorso, con uno stipendio di 1500€, compravi quello che nel gennaio 2019 costava 1350€. Il Rapporto poi tratta la retribuzione lorda di fatto, in quanto indicatore migliore per calcolare realmente la perdita o il guadagno di potere d’acquisto. La differenza con la retribuzione nominale è nel considerare come parte dello stipendio anche gli extra, tra cui bonus, straordinari, tredicesima, quattordicesima e via dicendo. Considerando questo parametro, allora la perdita di potere d’acquisto dal 2019 al 2024 risulta più contenuta: 4,4% in Italia, 2,6% in Francia e 1,3% in Germania. La Spagna, in controtendenza, guadagna il 3,9%.  

Il nodo della produttività

La produttività è un fattore cruciale perché misura l’efficienza con cui si producono beni o servizi: indica quanto output si riesce ad ottenere utilizzando una certa quantità di input. Detto in parole semplici, ci spiega quante risorse umane o materiali – input – sono necessarie per la realizzazione del prodotto finale – output. La regola aurea, naturalmente, è produrre di più sprecando di meno. Per capire come l’aumento della produttività si rifletta sul miglioramento dell’economia di un paese, può essere utile il classico esempio dell’artigiano: un artigiano costruisce una sedia in 6 ore e la vende a 50€. A un certo punto decide di investire dei soldi per comprare un macchinario. Ora produce due sedie nello stesso tempo e guadagna il doppio. L’artigiano quindi spende meno in termini di ore lavorate per sedia, può abbassare i prezzi, accrescere la clientela e assumere dipendenti proprio perché vende di più. Potrà poi reinvestire i profitti in altri macchinari o in altri dipendenti, in un circolo virtuoso che, moltiplicato per il numero di aziende, contribuisce all’espansione dell’economia nazionale. 

Il Rapporto annuale dell’ISTAT, purtroppo, ci dice che il sistema produttivo italiano presenta delle criticità strutturali come la dimensione delle imprese, la specializzazione e l’innovazione delle produzioni, che hanno un effetto frenante sull’espansione economica. Nello specifico, nel 2024 la crescita dell’occupazione è stata superiore a quella del valore aggiunto. Per valore aggiunto, si intende la nuova ricchezza creata da un’attività produttiva – la nazione Italia in questo caso – in un determinato momento. Cosa succede se l’artigiano assume dipendenti ma non incrementa le vendite? Esattamente il contrario di quanto detto nell’esempio. Infatti, l’ISTAT scrive che lo squilibrio fra occupazione e valore aggiunto ha provocato una diminuzione della produttività dell’ora lavorata dell’1,4%. L’effetto a catena di questo fenomeno provoca il rallentamento dell’economia in generale. 

Sistema economico e generazioni: la panoramica

L’ultimo capitolo del Rapporto annuale ISTAT 2025 indaga i mutamenti che si sono verificati nella popolazione nel corso degli anni al cambiare del sistema economico.

Evoluzione delle categorie occupazionali negli anni

Come abbiamo già riportato, l’ISTAT ci mette in guardia sulle carenze strutturali legate alla bassa produttività e alle sue conseguenze. Negli ultimi venti anni, infatti, sono cresciute le possibilità di occupazione ma non quelle di benessere economico, perché le nuove posizioni lavorative hanno riguardato soprattutto le attività ad alta intensità di lavoro e a ridotta produttività, come il settore della ristorazione. 

Tuttavia, dal Rapporto si legge anche che l’evoluzione del sistema economico italiano ha portato risultati positivi come l’aumento dell’occupazione qualificata, seppure con minore forza rispetto alle altre grandi economie europee. Precisamente, tra il 2000 e il 2024 la quota di tecnici e professionisti è passata da un quarto a un terzo – cioè circa il 33% –  del totale degli occupati, mentre in Spagna, Francia e Germania siamo, rispettivamente, sul 37%, 43% e 44%. Inoltre, questo trend ha riguardato anche i professionisti ICT (Information and Communication Technology), specialmente a partire dagli anni della pandemia: programmatori, data analyst e ingegneri informatici rappresentano una componente strategica per la competitività e l’innovazione dell’intera infrastruttura economica. Naturalmente, anche in questo settore siamo indietro rispetto agli altri paesi UE. 

Che ruolo ha l’istruzione?

L’istruzione, ovviamente, è una leva decisiva per l’accesso a lavori più qualificati e retribuiti ed è considerata la trasformazione più rilevante nel modificare le opportunità professionali delle diverse generazioni. Tradotto, ciò significa che, negli anni, il generale innalzamento del livello di istruzione ha ampliato l’accesso a migliori opportunità lavorative per un numero sempre maggiore di persone. Nel 1980, infatti, la metà dei giovani fra i 15 e i 24 anni già lavorava, mentre nel 2024, per lo stesso range di età, due terzi sono inattivi perché studiano o si formano professionalmente. Dagli anni Novanta, poi, la percentuale di laureati fra i 25 e i 34 anni è passata dal 7% a oltre il 30%, con le donne che raggiungono anche il 37,1%. In sintesi, nel Rapporto annuale dell’ISTAT si nota come gli individui che, al momento dell’ingresso del mondo del lavoro, avevano un livello di istruzione più elevato – o lo miglioravano in corso d’opera – avevano maggiori possibilità di beneficiare di salari più alti

Attenzione al contesto familiare di partenza

L’istruzione è una variabile determinante, ma spesso è una conseguenza della situazione di partenza. In parole semplici, questo vuol dire che i figli tendono a seguire le orme dei genitori: tra i giovani provenienti da famiglie in cui nessun genitore possiede un diploma, solo il 17,6% riesce ad ottenere un titolo di studio universitario, contro il 75% dei figli di genitori laureati. Ancora più grave, nel primo gruppo di giovani più di un terzo non arriva al conseguimento del diploma di maturità. 

Il fenomeno della mobilità intergenerazionale, definito come il cambiamento nella posizione socioeconomica di un individuo rispetto a quella dei suoi genitori, è limitato ma non assente: come si legge nel Rapporto, c’è un ruolo non trascurabile delle capacità e delle scelte individuali nel determinare il proprio percorso di vita. 

Chi innova in Italia? I giovani, che sono sempre di meno

Il Rapporto annuale ISTAT 2025 termina con un paragrafo dedicato ai giovani nel mondo dell’imprenditoria. Le rilevazioni registrano una quota importante di occupati sotto i 35 anni – che rappresentano il 24% della forza occupazionale – lavorare nelle imprese più dinamiche e di nuova creazione: nel 2022, il 36% di questi aveva un impiego in società con meno di 5 anni di vita e quasi il 40% operava nel settore dei servizi ad alta tecnologia. Infine, ci viene mostrata una correlazione tra capitale umano giovane, innovazione e successo dell’impresa. Entrando nel dettaglio, ma non troppo, la dotazione di risorse umane qualificate under 35 è risultata un fattore chiave che ha permesso alle imprese di digitalizzarsi con successo, innovare e mettere a segno migliori performance a livello di crescita e occupazione. 

Rapporto annuale ISTAT 2025: le conclusioni 

Il Rapporto annuale ISTAT 2025 si conclude con le parole di Francesco Maria Chella, Presidente dell’Istituto di Statistica. Chella parla di segnali economici positivi, come il calo dell’inflazione e l’aumento dell’occupazione, a cui si affiancano debolezze strutturali che frenano la crescita e minano lo sviluppo. Si concentra molto sulle giovani generazioni le quali, nonostante siano generalmente più istruite, si ritrovano ad affrontare redditi e opportunità lavorative inferiori – quantitativamente e qualitativamente – rispetto ai coetanei nei principali paesi UE. Il Presidente parla poi delle evoluzioni che hanno interessato il sistema economico italiano, del cambiamento delle categorie occupazionali negli anni e dei divari sociali e territoriali che, tuttora, potrebbero condizionare negativamente le prospettive future. Poi, torna sulla questione giovani: il capitale umano altamente istruito è una grande opportunità per accelerare i processi di digitalizzazione e migliorare la produttività di imprese e pubbliche amministrazioni. Per questo motivo, chiude, è fondamentale sostenere questa fascia di popolazione, contrastando le disparità nell’accesso all’istruzione, soprattutto universitaria, per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro e promuovere l’innovazione.

Siamo giunti al termine di questo mega spiegone semplificato e sintetizzato del Rapporto annuale ISTAT 2025. La situazione, come è intuibile, non è delle migliori, a maggior ragione se comparata con le altre grandi economie europee, i nostri vicini. Tuttavia, come ha dichiarato lo stesso Presidente, è necessario sforzarsi per cambiare atteggiamento, favorendo la dinamicità e la determinazione delle nuove generazioni, per costruire un Paese che sia al passo coi tempi. 
Se hai trovato utile l’articolo, il consiglio è quello di iscriverti qui sotto: noi di Young Platform pubblichiamo spesso contenuti simili e trattiamo volentieri argomenti di attualità economica, politica e geopolitica, come gli aggiornamenti sulla guerra fra Russia e Ucraina.

Bias cognitivi in finanza: guida per investire consapevolmente

Bias cognitivi in finanza: guida per investire consapevolmente

I bias cognitivi influenzano le tue decisioni di investimento più di quanto credi. Scopri i più comuni in finanza e le strategie pratiche per riconoscerli, gestirli e scardinarli

I bias cognitivi, distorsioni mentali che influenzano il nostro pensiero e il nostro processo decisionale, collidono con i pilastri della teoria economica tradizionale. Eh già, perché a causa di questi errori di valutazione sistematici, noi investitori che popoliamo il mondo della finanza siamo tutto fuorché gli “attori razionali” che gli economisti classici si immaginavano.

I bias cognitivi – e il loro significato – sono stati per un sacco di tempo trascurati. Si preferiva trattare gli individui come dei robot, guidati semplicemente dal bilanciamento tra rischio e rendimento, tra costi e benefici. La realtà – e soprattutto i dati, che non mentono quasi mai – però, ci racconta una storia ben diversa. Cosa sono i bias cognitivi? Come li definisce la finanza comportamentale? E soprattutto, quanto spesso ci caschiamo? 

Bias cognitivi: l’origine del termine

Scommettiamo che sei convinto di essere un buon automobilista? Diciamo pure migliore del “guidatore medio” italiano. Beh, amico, non sei solo: la stragrande maggioranza dei guidatori ha la tua stessa, identica convinzione. E questo, di per sé è già un paradosso. La colpa? Dell’overconfidence bias, ma non correre, che a quello ci arriviamo tra un attimo.

Per avventurarci nel fantastico (si fa per dire) mondo dei bias cognitivi applicati alla finanza, dobbiamo prima avere le idee chiare sul significato di “bias”. È un termine inglese che abbiamo preso in prestito dal greco epikársios, che significa “obliquo”, “inclinato”. Pensa che all’inizio era associato al gioco delle bocce, per descrivere un tiro un po’ sbilenco, andato storto. Probabilmente non hai mai sentito tuo nonno urlare “Bias!” alla bocciofila e c’è un perché: dal 1500 in poi, il termine ha iniziato a prendere un significato più ampio, e oggi lo traduciamo spesso con “predisposizione al pregiudizio” o, per essere più precisi nel nostro contesto, “distorsione sistematica del giudizio”. Insomma, qualcosa che ci fa vedere le cose un po’… di traverso.

Che cosa sono davvero i Bias cognitivi?

Il significato di bias cognitivo affonda le sue radici nell’etimologia che abbiamo appena spulciato. C’è da dire, però, che questa evoluzione di epikársios ha trovato terreno fertile nel campo della psicologia, soprattutto grazie alle ricerche di due pezzi da novanta come Daniel Kahneman e Amos Tversky, premi Nobel che negli anni ‘70 hanno iniziato a scoperchiare questo vaso di Pandora.

Ma quindi, in soldoni, “bias cognitivo” cosa vuol dire? Un sinonimo potrebbe essere automatismo mentale (o scorciatoia), inteso però spesso in senso negativo. È come quando il nostro cervello, per risparmiare energia, invece di fare tutto il ragionamento per filo e per segno, prende una scorciatoia. Peccato che a volte queste scorciatoie ci portino dritti dritti in un fosso. Da questi automatismi si generano solitamente credenze, decisioni, e persino abitudini. Insomma, i bias cognitivi non sono affatto uno scherzo: possono alterare permanentemente il nostro processo di pensiero, soprattutto se non impariamo a disinnescarli. L’unico modo per farlo? Riconoscerli e, quindi, conoscerli a menadito.

Le euristiche, scorciatoie mentali a volte pericolose

Stiamo parlando dei bias cognitivi della finanza, ma di soldi e investimenti ancora poche tracce concrete, vero? Non ti preoccupare, stiamo per arrivarci. Prima, però, dobbiamo chiarire un ultimo concetto fondamentale: quello di euristica, una parola che sentirai spesso associata ai bias.

In breve, le euristiche sono proprio quelle scorciatoie mentali di cui parlavamo. Il termine deriva dal greco heurískein, che significa “scoprire” o “trovare”. Sono procedimenti mentali sbrigativi che ci permettono di giungere a conclusioni veloci, di prendere decisioni al volo. Bello, no? Quando un’idea ti “salta in testa” all’istante, senza bisogno di spremerti le meningi o avventurarti in ragionamenti lunghi e faticosi. È l’euristica che lavora per te!

Questa specie di “magia” avviene nel nostro cervello grazie a un processo chiamato sostituzione dell’attributo, che per lo più avviene senza che ce ne accorgiamo. In parole povere, il nostro cervello sostituisce un concetto complesso con uno più semplice da maneggiare e voilà: conclusione rapida, zero sforzo cognitivo (o quasi).

Questo affascinante meccanismo, in un certo senso, precede o produce i bias cognitivi. È importante sapere, però, che non tutte le euristiche vengono per nuocere: alcune sono “euristiche efficaci”, ovvero scorciatoie che funzionano e ci semplificano la vita. Il problema è quando ci affidiamo troppo a quelle “pigre” o difettose ed è lì che nascono i guai, soprattutto in finanza.

Bias cognitivi nel mondo della finanza: quando le scorciatoie diventano trappole

Ti è mai capitato di azzeccare un trade e sentirti improvvisamente il Warren Buffett della tua provincia, praticamente invincibile? O, al contrario, di registrare una perdita e, invece di fermarti a riflettere, decidere di aumentare l’esposizione per “recuperare in fretta”? Se hai annuito almeno una volta, benvenuto nel club: hai, anche tu, avuto un incontro ravvicinato con qualche bias cognitivo.

E non sentirti solo o sbagliato: questo è assolutamente normale. Secondo diverse ricerche, tali schemi di pensiero irrazionale sono estremamente comuni, tanto da influenzare le decisioni della maggior parte degli individui quando si confrontano con situazioni di incertezza come quelle, appunto, dei mercati finanziari. Kahneman stesso, nel suo libro “Pensieri Lenti e Veloci”, ci spiega come questi “errori sistematici” siano parte integrante del nostro modo di pensare.

Ha quindi un sacco di senso, almeno secondo noi, dare un’occhiata da vicino ai bias più comuni che infestano il mondo degli investimenti. L’obiettivo? Imparare a riconoscerli per cercare, se non di eliminarli del tutto (impresa quasi impossibile), almeno di scardinarli o limitarne i danni.

Il Bias di conferma

Si manifesta con la tendenza a cercare, interpretare, favorire e ricordare solo le informazioni che confermano o supportano le nostre convinzioni o i nostri valori preesistenti. È come mettere dei paraocchi selettivi.

Hai comprato azioni di “Azienda X” o quella crypto in tendenza? Col bias di conferma attivo, andrai a caccia di notizie positive su quell’asset, magari sui forum o sui social, ignorando bellamente o minimizzando quelle negative. “Ah, quel famoso analista dice che salirà? Ottimo! Quell’altro dice che è una bolla? Ma figurati, non capisce niente!”

Uno studio di Park (2010) pubblicato sul “Journal of Cognitive Neuroscience” ha usato la risonanza magnetica funzionale per dimostrare che quando il bias di conferma entra in gioco, si attivano aree cerebrali associate alla ricompensa. In pratica, il cervello ci premia con della dopamina quando troviamo tesi che confermano le nostre idee, anche se sono sbagliate!

Eccesso di fiducia (overconfidence bias)

È la tendenza, ahimè molto umana, a sovrastimare le proprie capacità, le proprie conoscenze e l’accuratezza delle proprie previsioni. 

Pensa agli imprenditori che sottostimano le difficoltà di avviare un’azienda, o ai lavoratori convinti di riuscire a rispettare scadenze palesemente impossibili. L’ottimismo è un motore fantastico, ma quando la sicurezza supera un certo limite e diventa presunzione, iniziano i dolori. Si finisce per prendere decisioni avventate, trascurare rischi reali e, di conseguenza, andare incontro a risultati che definire deludenti è un eufemismo.

Secondo una ricerca di Barber e Odean (2001), dal titolo piuttosto eloquente “Boys Will Be Boys: Gender, Overconfidence, and Common Stock Investment”, questo bias cognitivo è significativamente più comune negli investitori maschi. A quanto pare, i maschietti tendono più spesso a sovrastimare le loro capacità, il che li porta a effettuare più operazioni di trading e a ottenere rendimenti netti inferiori rispetto alle colleghe investitrici.

Bias dell’ancoraggio

L’ancoraggio descrive la nostra tendenza a fare eccessivo affidamento sulla prima informazione che riceviamo su un dato argomento, anche se non è particolarmente rilevante o accurata. Questa prima informazione diventa un'”ancora” mentale che influenza tutti i giudizi successivi. Ad esempio, quando dobbiamo fare una stima numerica, tendiamo a farci influenzare da un numero che abbiamo sentito o visto in precedenza, anche se non c’entra nulla con la stima attuale.

Uno studio di Hersh Shefrin (2000), che trovi nel suo libro “Beyond Greed and Fear” (un classico della finanza comportamentale), illustra come gli investitori si “ancorino” a livelli di prezzo storici. Magari il prezzo a cui hai comprato un’azione, o il suo massimo storico. Queste “ancore” influenzano le aspettative 

Bias del presente

Sei vittima di questa euristica, che può portare a esiti negativi, quando dai un peso sproporzionato ai benefici immediati rispetto a quelli futuri, anche se questi ultimi potrebbero essere molto più grandi. È il trionfo del “tutto e subito”.

Uno studio sul risparmio pensionistico del 2008 di Laibson, Repetto e Tobacman dimostra come questo bias cognitivo possa portare alla procrastinazione cronica per quanto riguarda le decisioni di risparmio a lungo termine. Il classico “Inizio il piano d’accumulo il mese prossimo”, che diventa “il prossimo anno”, e poi “quando i figli saranno grandi”…

Questo bias è efficacemente descritto da modelli economici come quello “beta-delta”, che, per farla semplice, ci dicono che le persone non scontano il tempo in modo uniforme. Tendiamo ad attribuire un valore decisamente maggiore alle ricompense che possiamo ghermire subito rispetto a quelle che arriveranno in futuro, anche quando il ritardo è minimo. È come se il nostro “io futuro” fosse uno sconosciuto a cui non vogliamo fare favori.

Bias della rappresentatività

Ampiamente trattato da Tversky e Kahneman (1974) nel loro fondamentale articolo “Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases”, questa euristica si basa sulla nostra tendenza a giudicare la probabilità di un evento o l’appartenenza a una categoria basandoci su quanto esso sia simile a un prototipo o a uno stereotipo che abbiamo ben stampato in mente. Il problema è che spesso ignoriamo e le cosiddette “probabilità di base”, cioè quanto quellevento sia effettivamente frequente nella realtà.

Un esempio classico in finanza è l’investimento in un’azienda solo perché opera in un settore “caldo” e super chiacchierato (l’intelligenza artificiale oggi, il metaverso ieri, le energie rinnovabili l’altroieri), o perché il suo nome suona simile a quello di un’azienda di successo, o perché il suo fondatore assomiglia a Steve Jobs. Si cercano somiglianze superficiali, trascurando un’analisi fondamentale seria.

Pensa alla roulette: se è uscito il rosso per cinque volte di fila, molti scommetterebbero sul nero, pensando che “ora DEVE uscire”. Questo perché la sequenza R-R-R-R-R non “rappresenta” la nostra idea di casualità. Peccato che la pallina non abbia memoria e la probabilità sia sempre la stessa a ogni giro.

Effetto framing

Inifne, anche se non rientra nel calderone dei bias non possiamo non citare l’effetto framing, un fenomeno psicologico che dimostra come la nostra decisione possa cambiare radicalmente a seconda di come le informazioni vengono presentate, o “incorniciate”, appunto. La sostanza magari è la stessa, ma se cambia la cornice, cambia anche la nostra percezione (e la scelta finale).

Come ci hanno insegnato sempre Kahneman e Tversky, formulare una scelta in termini di potenziali guadagni o potenziali perdite fa tutta la differenza del mondo. Dire che un trattamento medico ha il “90% di possibilità di successo” è molto più rassicurante che dire che ha il “10% di possibilità di fallimento”, anche se stiamo dicendo la stessa identica cosa.

Dire che un fondo d’investimento attivo che ha reso il 4% quando il mercato di riferimento ha fatto il 2% può essere “incorniciato” come un successo. Ma se i costi di gestione annui sono stati del 3,5% e l’inflazione del 3%, il rendimento reale è negativo.

Come scardinare i bias cognitivi

Bene, ora che abbiamo fatto la conoscenza di questa allegra famigliola di trappole mentali, ti starai chiedendo: “quindi sono condannato a prendere decisioni finanziarie sbagliate per il resto dei miei giorni?”. La risposta è un sonoro: NO! Conoscere il nemico è il primo, fondamentale passo per combatterlo. Ecco qualche dritta pratica, niente formule magiche, ma consigli dannatamente utili:

  1. Datti delle regole chiare e seguile:
  • Fissa obiettivi finanziari limpidi: cosa vuoi dai tuoi investimenti? Una pensione tranquilla? Comprare casa? Avere obiettivi e un orizzonte temporale definiti ti aiuta a tenere la barra dritta quando il mare si fa grosso;
  • Crea un piano d’investimento scritto: non navigare a vista. Decidi prima il tuo profilo di rischio, come diversificare il portafoglio, e stabilisci regole chiare per comprare, vendere e ribilanciare. Scrivilo nero su bianco! E, soprattutto, attieniti al piano, anche quando l’istinto (o un maledetto bias!) ti urla di fare l’esatto contrario.
  • Automatizza il più possibile: i piani di accumulo sono una benedizione. Depositi e acquisti regolari e automatici ti evitano l’agonia di decidere “qual è il momento giusto per entrare” (spoiler: nessuno lo sa con certezza) e ti proteggono dalle decisioni impulsive dettate dall’emotività del momento.
  1. Lo scetticismo, in finanza, è una virtù:
  • Cerca attivamente opinioni divergenti: sei straconvinto di vole investire in un crypto specifica, per esempio SOL? Perfetto. Ora vai a cercare tutte le ragioni per cui potrebbe essere una pessima idea. Leggi analisi di chi la pensa diversamente, confrontati.
  • Redigi un “pre-mortem”: prima di prendere una decisione finanziaria importante, immagina per un attimo che sia andata male, un disastro completo. Quali potrebbero essere state le cause? Questo esercizio mentale può aiutarti a identificare rischi e falle nel tuo ragionamento che altrimenti avresti ignorato.
  1. Tieni un diario degli Investimenti:
  • Annota perché hai preso una certa decisione di investimento, cosa ti aspettavi in quel momento, e come ti sentivi (euforico? preoccupato?). Rileggere il diario a distanza di tempo è un modo potentissimo per riconoscere i tuoi schemi comportamentali e i tuoi bias “preferiti”, quelli in cui cadi più spesso.
  1. Pensa a lungo termine:
  • I mercati finanziari e crypto, nel breve periodo, sono rischiosi e volatili. Se stai lì ogni giorno a controllare i grafici e a farti venire l’ansia per ogni minima variazione, i bias avranno vita facile. Fai un bel respiro, ricorda i tuoi obiettivi di lungo periodo e non farti travolgere dal panico o dall’euforia del momento. Come dice Warren Buffett: “il mercato azionario è un meccanismo per trasferire denaro dagli impazienti ai pazienti.” 

Bias cognitivi in finanza: le domande più frequenti

Dopo tutta questa immersione nel mondo un po’ contorto dei bias, è normale avere qualche dubbio o curiosità. Proviamo ad anticiparne qualcuna, vediamo se ci azzecchiamo:

  • È possibile eliminare completamente i bias cognitivi? 

La risposta sincera è: probabilmente no, non del tutto. I bias cognitivi sono un po’ come la nostra ombra o il nostro accento regionale: fanno parte del nostro “pacchetto base” di esseri umani. L’obiettivo realistico non è eliminarli (sarebbe come cercare di non avere mai fame), ma imparare a riconoscerli, capire come ci influenzano e sviluppare strategie per gestirli e mitigarne l’impatto. È un lavoro continuo, una sorta di “manutenzione mentale” costante.

  • Quanto conta il fattore psicologico in finanza?

Tantissimoi! Puoi aver letto tutti i libri di finanza del mondo, ma se poi, al momento di cliccare “compra” o “vendi”, ti fai fregare dall’emotività e dai bias, tutta la tua sapienza analitica rischia di andare a farsi un giro. Molti esperti e investitori di successo sostengono che il successo negli investimenti dipende per una fetta enorme – forse anche il 50% o più – dalla gestione della propria psicologia. Le due cose, analisi e psicologia, devono andare a braccetto.

  • Ci sono bias più “pericolosi” di altri per chi inizia a investire?

Per chi muove i primi passi, alcuni bias possono essere particolarmente insidiosi. L’eccesso di fiducia (overconfidence) dopo i primissimi guadagni può far sentire dei fenomeni e portare a prendere rischi inutili. Anche il bias di conferma è piuttosto comune in chi ha poca esperienza sui mercati.

  • Come faccio a capire a quali bias sono più incline?

Il metodo più efficace è l’auto-osservazione onesta e costante. Un trucco utile è tenere un diario delle decisioni di investimento: annota non solo cosa compri o vendi, ma perché lo fai e come ti senti in quel momento (euforico? preoccupato? sotto pressione?). Rileggendolo a distanza di tempo, potresti notare degli schemi ricorrenti nel tuo comportamento. Hai preso decisioni impulsive durante un crollo di mercato? Hai mantenuto un titolo “per una questione di principio” anche se continuava a scendere?

  • I professionisti della finanza (trader, gestori di fondi) sono immuni?

Assolutamente no! I bias cognitivi sono “democratici”: colpiscono tutti, perché sono radicati nel modo in cui il cervello umano elabora le informazioni e prende decisioni. Anzi, a volte proprio l’eccesso di fiducia può giocare brutti scherzi a chi si sente particolarmente esperto. La vera differenza è che un buon professionista dovrebbe essere addestrato a riconoscere questi meccanismi e ad aver sviluppato strategie e processi per mitigarne l’impatto. Ma nessuno è un robot infallibile, neanche chi lavora a Wall Street!

Eccoci alla fine di queso viaggio alla scoperta dei bias cognitivi applicati al mondo della finanza. Se sei arrivato a leggere fin qui hai già fatto il primo, gigantesco e fondamentale passo: hai preso coscienza che queste “distorsioni mentali”, queste “scorciatoie ingannevoli”, esistono davvero e che influenzano anche te, come influenzano ogni singolo essere umano su questo pianeta.

Abbiamo visto che i bias non sono un’invenzione degli psicologi per vendere più libri, ma meccanismi profondamente radicati nel nostro modo di pensare, un’eredità della nostra evoluzione. Sono scorciatoie che il nostro cervello, pigro ma efficiente, usa per cercare di semplificare un mondo incredibilmente complesso e pieno di informazioni. A volte queste scorciatoie ci portano a destinazione rapidamente e senza incidenti. Altre volte, però, soprattutto quando ci sono di mezzo i nostri sudati risparmi e l’imprevedibilità dei mercati finanziari, ci fanno fare delle capocciate memorabili

La buona notizia, però, è che non siamo condannati a essere delle semplici marionette nelle mani dei nostri bias! La consapevolezza è la nostra arma più potente. Capire come funzionano questi meccanismi, imparare a riconoscere i campanelli d’allarme nel nostro comportamento e nei nostri pensieri, e adottare strategie concrete per “disinnescarli” o almeno limitarne l’impatto, può fare – e fa – tutta la differenza del mondo.Quindi, la prossima volta che senti quella vocina interiore che ti spinge a una decisione finanziaria impulsiva, che ti fa dire “Ma sì, che sarà mai, mi butto!”, fermati un attimo. Un respiro profondo. Chiediti: “Non è che qui c’è lo zampino di qualche vecchio, caro bias cognitivo che cerca di farmi lo sgambetto?”.

Contratto a tempo determinato o indeterminato?

Contratto a tempo determinato o indeterminato?

I contratti a tempo determinato e indeterminato presentano differenze nette e potrebbero essere influenzati dal prossimo referendum. Come?

Contratto a tempo determinato o indeterminato? Questo è il dilemma, direbbe l’Amleto di Shakespeare se vivesse nel ventunesimo secolo. Qui esploreremo insieme le differenze fra le due tipologie di contratto, concentrandoci sui diritti e i doveri tanto del lavoratore quanto del datore di lavoro. Tratteremo poi le questioni relative a dimissioni, licenziamento e riassunzione e vedremo infine come cambierebbe la normativa grazie al referendum di giugno. Rilassati che si parte!

Contratto a tempo determinato: caratteristiche

Il contratto a tempo determinato è un contratto di lavoro subordinato – di segno opposto al lavoro autonomo – in cui è prevista una data di cessazione del rapporto. La durata massima è di 12 mesi ma può essere prorogata a 24 mesi nel caso in cui si verificassero alcune circostanze specifiche, dette causali, come l’aumento della normale attività lavorativa, la sostituzione di altri lavoratori (non quelli in sciopero) o generiche esigenze temporanee e impreviste. Deve essere firmato per iscritto e, importante, deve essere indicato il termine di scadenza poiché se tale data non viene specificata, sostanzialmente l’aggettivo “determinato” non ha valore. 

In sintesi, il contratto a tempo determinato non può avere una durata superiore a 24 mesi, anche se esistono delle eccezioni che consentono di prorogare questo tipo di rapporto: i contratti collettivi nazionali (CCNL), territoriali e aziendali potrebbero presentare delle clausole frutto di contrattazioni sindacali. Inoltre, nel caso di rinnovo con lo stesso lavoratore per la stessa posizione, subentra l’obbligo di stop and go, cioè di “pausa obbligatoria”. Il lavoratore, quindi, potrà firmare il nuovo contratto dopo uno stop di 10 o 20 giorni se, rispettivamente, il precedente contratto aveva durata di 6 mesi o più. Se questi intervalli di tempo non vengono rispettati, il secondo contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato. 

Diritti e doveri del lavoratore

Un contratto a tempo determinato, generalmente, presenta tutele molto simili a quelli del contratto a tempo indeterminato con una variabile ovvia, la proporzionalità. Tradotto, ciò significa che il lavoratore a tempo determinato maturerà ferie, permessi e TFR in proporzione alla durata del rapporto contrattuale. Allo stesso modo, verrà coperto in caso di malattia o infortunio, ma la garanzia del posto è assicurata solo entro la data di scadenza prefissata. Anche lo stipendio, a parità di mansioni, è comparabile a quello del contratto a tempo indeterminato. C’è poi il diritto a congedi speciali come maternità e paternità, alla sicurezza sul posto di lavoro e alla formazione continua. 

I doveri sono identici a quelli del lavoratore a tempo indeterminato, tra cui diligenza, obbedienza e fedeltà all’azienda – li vedremo in modo più approfondito più avanti. 

Diritti e doveri del datore di lavoro

I diritti del datore di lavoro sono espressione dell’autorità formale e gerarchica che il boss ha in azienda: sono strumenti strutturali e legali di gestione, connessi al ruolo di responsabilità e di comando che questa figura ricopre all’interno dell’organizzazione. Si parla pertanto di potere direttivo, disciplinare e di controllo e di diritto alla prestazione lavorativa. I primi tre fanno riferimento alla facoltà del datore di lavoro di dare ordini in merito all’esecuzione e alla disciplina delle mansioni, di verificare che effettivamente il lavoratore esegua quanto comunicato e di sanzionare eventuali mancanze. Il diritto alla prestazione lavorativa, infine, è relativo al fatto che il datore è legittimato a pretendere dal lavoratore quanto pattuito nel contratto a livello di mansioni e impegni. 

Tra i doveri, invece, ricordiamo gli obblighi di corresponsione puntuale della retribuzione, quindi di pagamento dello stipendio secondo i tempi prestabiliti, di concessione di ferie e permessi e di versamento dei contributi previdenziali e assicurativi, che non possono essere trattenuti. Il datore di lavoro, poi, deve accertarsi che l’ambiente professionale sia sicuro e salubre e che siano rispettate la dignità e la privacy del lavoratore, secondo la normativa vigente. 

Vediamo ora il secondo tipo di contratto, quello a tempo indeterminato. 

Contratto a tempo indeterminato: caratteristiche

Il contratto a tempo indeterminato, in Italia, è la forma di rapporto lavorativo più comune: secondo i dati provvisori pubblicati dall’ISTAT a marzo 2025, i dipendenti a termine sarebbero circa 2 milioni e 594mila, contro i 16 milioni e 560mila che invece hanno un contratto permanente. È detto a tempo indeterminato, o permanente, perché privo di una data di scadenza e, per questa ragione, la firma non necessita di causali specifiche. 

Anche questo tipo di contratto deve essere redatto in forma scritta e deve includere tutte le informazioni essenziali relative al rapporto lavorativo. Tra queste, l’insieme delle attività richieste al lavoratore, l’inquadramento, la data di inizio, i giorni di ferie e le ore di permesso. 

Diritti e doveri del lavoratore

I diritti del lavoratore permanente, come abbiamo anticipato, sono praticamente sovrapponibili con quelli previsti dal contratto a termine. Il soggetto, quindi, ha diritto a una retribuzione congrua col tipo di lavoro svolto, a lavorare in un ambiente sicuro e inclusivo, a ferie, permessi e congedi speciali e al trattamento di fine rapporto (TFR). Una delle poche differenze, in questo senso, risiede nella sezione malattie e infortuni. Diversamente dal contratto a tempo determinato, l’indeterminato presenta delle condizioni particolari: il lavoratore può usufruire di un periodo massimo di assenza, detto periodo di comporto, la cui durata è stabilita dalla normativa vigente, dai contratti collettivi nazionali di settore o dal contratto individuale di lavoro. Se, al termine di questo periodo, il lavoratore non rientra in azienda, il datore può procedere al licenziamento. Ciò non vale nel caso in cui, invece, la malattia o l’infortunio fossero causate da attività connesse alle mansioni lavorative. 

La parte dei doveri rimanda ai vincoli di collaborazione e correttezza nei confronti dell’azienda e del datore di lavoro. Troviamo infatti l’obbligo alla fedeltà, all’obbedienza e alla diligenza. Per fedeltà si intendono quei comportamenti di lealtà professionale e di protezione dell’organizzazione: non trattare affari con la concorrenza e non divulgare informazioni sensibili o segreti industriali. Con obbedienza, naturalmente, si indica il dovere del lavoratore di eseguire quanto richiesto dal datore e, infine, la parte della diligenza fa riferimento alla buona condotta lavorativa, al rispetto delle norme disciplinari e degli orari di lavoro. 

Diritti e doveri del datore di lavoro

I diritti e i doveri del datore di lavoro sono gli stessi, sia in caso di contratto a tempo determinato che indeterminato. Dunque, rimandiamo a quelli che abbiamo visto nel paragrafo precedente. 

Dimissioni, licenziamento e riassunzione: determinato vs indeterminato

Il contratto a tempo determinato si basa su un principio preciso: il lavoratore, firmando, si impegna a prestare servizio per un intervallo di tempo determinato. Per questo motivo, rispetto all’indeterminato, dove le dimissioni sono libere con preavviso, la rinuncia volontaria all’impiego non è consentita. In caso, l’azienda potrebbe chiedere un risarcimento sotto forma di penale. Ma esistono delle eccezioni. Il lavoratore può dimettersi se c’è una giusta causa, quindi se diventa oggettivamente impossibile proseguire col rapporto lavorativo. Le giuste cause più comuni sono il mancato pagamento dello stipendio, l’assenza di rispetto delle norme di sicurezza, situazioni di mobbing o molestia. Un fatto curioso è che le dimissioni possono essere presentate solamente online. Questa procedura è diventata obbligatoria nel 2016, col Jobs Act, e il motivo è molto semplice: contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco, una pratica illegale in cui il datore di lavoro, al momento dell’assunzione, fa firmare il foglio delle dimissioni privo di data, così da riempirlo all’occorrenza. 

Per quanto riguarda il licenziamento, nel caso del contratto a termine valgono le stesse regole delle dimissioni, ma dalla prospettiva del datore di lavoro. Questo vuol dire che il dipendente a termine non può essere licenziato prima della scadenza, a meno che non si tratti di una giusta causa. Anche qui, per giusta causa si intende una circostanza così grave da rendere impossibile l’attività lavorativa. Lo stesso discorso vale per il contratto a tempo indeterminato, a cui però si aggiunge una clausola: il giustificato motivo oggettivo o soggettivo. Il primo, riguarda le ragioni obiettive, del funzionamento dell’azienda e della sua produttività. Il secondo, dall’altro lato, si riferisce ai comportamenti scorretti del dipendente, come il mancato rispetto degli obblighi descritti sopra. 

La riassunzione, infine, è un procedimento che vale solamente per i contratti a termine perché, per definizione, un contratto a tempo indeterminato non presuppone una data di scadenza. Le pratiche per il reintegro del dipendente in azienda sono quelle dello stop and go, che abbiamo già trattato nel primo paragrafo. 

Cosa cambia coi referendum di giugno?

I referendum del prossimo giugno sono cinque, divisi in due aree tematiche: una collegata alla cittadinanza e una al mondo del lavoro. Quest’ultima è composta da quattro quesiti referendari differenti. Il primo e il secondo si occupano di licenziamenti illegittimi – o senza una giusta causa – e indennità previste verso i dipendenti nel caso in cui si verificasse questa scorrettezza. Il terzo pone l’attenzione sui contratti a tempo determinato e chiede il ripristino dell’obbligo di causali che giustifichino una scadenza a 12 mesi o inferiore. 
Se vuoi informarti in modo più approfondito – e dovresti – abbiamo scritto una guida sui referendum dell’8 e 9 giugno dove potrai leggere con attenzione e comprendere cosa ti verrà chiesto al momento del voto. Dopo di ciò, iscriviti a Young Platform e facilitati la vita!