Investimenti: 5 falsi miti da sfatare

Investimenti: 5 falsi miti

Sai che non è vero che per investire bisogna, per forza, seguire con costanza i mercati? Scopri i 5 falsi miti più diffusi sugli investimenti

Quali sono i falsi miti per gli investitori attivi sui mercati? Il pane integrale ha meno calorie di quello normale, i carboidrati la sera fanno ingrassare e i cani vedono il mondo in bianco e nero. Un classico. I falsi miti costellano la nostra quotidianità fino a quando, all’improvviso e a volte per caso (o leggendo un articolo come questo), li scardiniamo. Ma quando si parla di soldi i falsi miti diventano quasi leggende metropolitane. Quali sono però i più comuni nel dorato mondo degli investimenti?

Scoprili in questo articolo: dall’orizzonte temporale che i giovani investitori credono di avere, fino al paradosso dell’investitore iper-informato che finisce per farsi del male da solo.

Il PAC è il modo migliore di investire

Cooosa? Siamo partiti subito con una cannonata, eh? Ma davvero questo è un mito? Fermo, non scappare, che ora ti spiego. Il PAC (Piano di Accumulo Capitale, per gli amici) è indubbiamente un ottimo metodo per mettere fieno in cascina, soprattutto se non hai a disposizione ingenti quantità di denaro liquido o se l’idea di versare “tutto subito” ti fa venire l’orticaria. Inoltre, mettere da parte regolarmente una sommetta, oltre a mitigare il rischio di entrare nel mercato nel momento sbagliato, è un modo super efficace per darsi una disciplina da monaco tibetano, specie con i versamenti automatici. E poi, diciamocelo, riduce l’impatto emotivo del vedere i mercati fare le montagne russe.

Però, e c’è sempre un però, non è matematicamente il modo più efficiente per investire. Dal punto di vista statistico, il PIC (l’investimento in un’unica, coraggiosa soluzione) tende ad offrire rendimenti superiori. Perché? Semplice: tutto il capitale si mette subito al lavoro e sfrutta appieno la magia dell’interesse composto fin dal primo giorno. Inoltre, dato che i mercati, nel lungo periodo, tendono a salire, le probabilità di acquistare un asset a un prezzo più basso oggi sono generalmente maggiori rispetto a domani o dopodomani. 

Infine, consideriamo che l’efficacia del PAC nel mediare il prezzo d’acquisto durante le fasi ribassiste, quella che tanto ci piace raccontarci, è in realtà piuttosto limitata, soprattutto se il portafoglio è ancora nelle sue, diciamo, “fasi di crescita”. In altre parole, i primi versamenti di un PAC hanno più chance di fare la differenza sul prezzo medio, ma questa capacità si annacqua man mano che il gruzzoletto cresce.

Detto questo, sia chiaro: il PAC rimane un ottimo modo per investire e, contemporaneamente, risparmiare. Anzi, per tantissimi investitori, probabilmente la stragrande maggioranza, è la soluzione migliore. Non sarà il più efficiente in termini assoluti, ma a volte la pace dei sensi vale più di qualche zero virgola di rendimento.

Più rischio significa più rendimento

Questa sembra una bestemmia finanziaria, un affronto al sacro Graal del “no pain, no gain”. Come può il bilanciamento tra rischio e rendimento essere un mito?

Per spiegarlo dobbiamo sfiorare il concetto fisico/statistico di ergodicità. In breve, un sistema si dice ergodico se, nel lungo periodo, la media temporale di un singolo percorso equivale alla media su tutti i possibili percorsi. Se non ci avete capito nulla, siete in buona compagnia.

Ok, proviamo con un esempio più terra terra. Mettiamo caso che il tuo motociclista preferito sia un fenomeno, il più talentuoso del campionato. Quando finisce una gara, è quasi sempre sul podio. Allo stesso tempo, però, guida come un pazzo scatenato: frena all’ultimo nanosecondo, impenna in curva ma purtroppo spesso cade e si infortuna. Per semplificare, diciamo che ha il 20% di probabilità di vincere ogni gara, ma anche un bel 20% di farsi male seriamente e saltare il resto del campionato. Quali sono le sue probabilità di vittoria in un campionato di 10 gare?

L’intuito ci suggerirebbe che, con il 20% a gara, su 10 gare potrebbe portarne a casa circa 2. Logico, no? No. Il rischio elevato di farsi la bua complica tutto. Se il nostro eroe spericolato si infortuna seriamente (20% di probabilità ad ogni singola gara, ricordiamolo), addio sogni di gloria. La sua partecipazione al resto del campionato sarebbe compromessa, azzerando le chance di vittoria finale. Il nostro campione potrebbe vincere due gare e poi passare il resto della stagione a guardare gli altri dal divano con una gamba ingessata.

Qui entra in gioco la non ergodicità: la sua bravura è legata a doppio filo con la sua propensione al rischio che può portarlo alla “rovina” (sportiva, in questo caso). Negli investimenti, un rischio elevato, anche se associato a rendimenti potenzialmente stellari, può portare alla “rovina” dell’investitore, rendendo le medie storiche inutili. In contesti non ergodici, la priorità assoluta diventa la sopravvivenza, non la massimizzazione del rendimento. Per scongiurare questi rischi da brivido, la parola magica è diversificare, per ridurre la probabilità di quelle perdite da cui non ci si riprende più.

Per investire bisogna essere informati

Forse anche questo vi stupirà, ma a volte più un investitore è beatamente ignorante (nel senso che ignora, sia chiaro) ciò che accade sui mercati, più è efficace. Sì, avete letto bene. Questo perché chi è sommerso da informazioni, grafici, opinioni e tweet allarmistici è molto più propenso a prendere decisioni troppo frequenti e impulsive.

Inoltre, chi si sente un piccolo Warren Buffett, super informato e sempre sul pezzo, può cadere nella tentazione di sperimentare, utilizzare strumenti finanziari che sembrano usciti da un film di fantascienza, acquistare asset “esotici” o costruire strategie talmente complesse da far impallidire un ingegnere della NASA. Il risultato? Spesso, più rischi e meno controllo. L’investitore super-informato a volte finisce per assomigliare a quel cuoco che, a furia di aggiungere spezie “particolari”, rovina un piatto semplicemente buono.

I giovani hanno un lungo orizzonte temporale

Più che un falso mito, qui siamo di fronte a una fallacia logica bella e buona, un classico errore di prospettiva. Spesso si pensa che i giovani abbiano davanti praterie di decenni per investire. Vent’anni, venticinque, trenta… un’eternità! Questo accade perché ragioniamo come se stessimo giocando a un videogioco, con l’obiettivo di massimizzare il punteggio finale (l’accumulo di capitale per la pensione).

La realtà, però, è ben diversa e, se sei giovane e ci rifletti un attimo, te ne accorgi subito: è altamente probabile che i soldi che hai in mente di investire ti serviranno ben prima della tua dorata pensione, che tra l’altro non sappiamo se riceverai, “vero INPS?” L’anticipo per la casa, il matrimonio, un master costoso, quel viaggio che sogni da una vita… Insomma, prima o poi quei soldi vorrai (o dovrai) usarli.

Per questo motivo, l’idea di mettere tutto sull’azionario perché “tanto c’è tempo” è un po’ come preparare una maratona mangiando solo dolci. È saggio affiancare al mercato azionario – che spesso ha bisogno di tempo per dare frutti – altri tipi di asset con un diverso profilo di rischio/rendimento. Qualche esempio? Obbligazioni o ETF obbligazionari, ma anche criptovalute o materie prime.

L’ETF globale è il santo graal che replica fedelmente l’economia mondiale

Ed eccoci al dogma dei dogmi per l’investitore da forum, il cavallo di battaglia di molti: il mitologico “VWCE & Chill” (o un suo equivalente globale). Una filosofia di vita, quasi una religione, con tanto di scomuniche per chi osa deviare dalla retta via dell’indice globale. Molti investitori approcciano il mondo della finanza con questo atteggiamento quasi fideistico, ignorando la reale natura delle proprie scelte.

La prima cosa da capire è che la borsa non rappresenta fedelmente l’economia mondiale nella sua interezza, ma solo un sottoinsieme, per quanto grande, di aziende che scelgono (e possono) quotarsi. Negli Stati Uniti, la cultura finanziaria e la propensione al mercato azionario sono talmente radicate che un numero enorme di grandi aziende è quotato. In Europa, invece, e in altre parti del mondo, molte imprese di successo restano felicemente private (non si quotano in borsa), preferendo altre forme di finanziamento. Di conseguenza, un ETF azionario globale, per quanto diversificato, si perde per strada pezzi importanti dell’economia reale.

Come non includere in questo discorso il mondo crypto? In particolare Bitcoin che negli ultimi anni, grazie alla sua crescita in un certo senso prevedibile per via della ciclicità dei suoi movimenti, ha fatto la fortuna di tantissimi investitori. Oggi è uno degli asset più popolari al mondo, grazie anche agli ETF emessi dai grandi fondi di investimento americani che lo sostengono. Un oro digitale, un bene rifugio cruciale per l’era moderna. L’offerta matematicamente finita e la natura decentralizzata di Bitcoin lo pongono come un baluardo contro le politiche monetarie sregolate e i “pasticci” delle banche centrali. Di fronte al dilagante debito pubblico statunitense e alle continue turbolenze che minano la fiducia nelle valute tradizionali, Bitcoin si propone non come semplice alternativa, ma come soluzione di resilienza e riserva di valore strategica. Diventa così un tassello fondamentale per una diversificazione patrimoniale consapevole, volta a proteggersi da un sistema finanziario tradizionale con crescenti e manifeste fragilità.

La sua pur innegabile volatilità è un tratto tipico di un’asset class rivoluzionaria in fase di adozione globale. Ignorare Bitcoin oggi, nel grande risiko finanziario, equivarrebbe a ripetere l’errore di chi, ai suoi tempi, sottovalutò la portata di internet.

Previsioni prezzo del petrolio: voci dagli esperti

Prezzo petrolio: le previsioni 2024 degli esperti

Le previsioni sul prezzo del petrolio per il 2025/2026. Cosa ci dicono gli esperti? Quale sarà il prezzo del Brent e del WTI nel prossimo biennio?

Le previsioni per il prezzo del petrolio nel 2025/2026 sono formulate dagli esperti sulla base di diversi fattori come l’andamento dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente e le relative sanzioni dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Inoltre, il prezzo del barile dipende dall’offerta, che può essere modificata artificialmente dai membri dell’OPEC+, l’organizzazione di esportatori di petrolio che controlla il 40% della produzione mondiale. Vediamo insieme cosa ci dicono gli analisti

Prezzo del petrolio oggi: qual è la quotazione?

Qual è il prezzo del petrolio oggi? È la prima domanda da porsi, perché conoscere il presente – e il passato – è il modo migliore, se non l’unico, per cercare di capire cosa succederà nel prossimo futuro. In questa sezione, pertanto, daremo uno sguardo alla quotazione del petrolio greggio prendendo i due benchmark di riferimento a livello mondiale, ovvero il WTI e il Brent

Qual è il prezzo del petrolio WTI?

Il prezzo del WTI (West Texas Intermediate) – al momento in cui scriviamo – oscilla fra i 71 e i 72 dollari per barile. Se prendiamo in considerazione la storia recente di questo petrolio estratto negli USA, noteremo che, in realtà, il prezzo attuale è determinato quasi esclusivamente dagli ultimissimi eventi geopolitici, che tratteremo in un paragrafo specifico. Il prezzo del WTI, infatti, era in discesa dal maggio del 2022: dai circa 113$/barile di tre anni fa, aveva toccato i 57$ ad aprile di quest’anno, per poi ricominciare a salire leggermente a causa dei dazi di Trump e guadagnare 10$ negli ultimi tre giorni. 

Qual è il prezzo del petrolio Brent?

Il prezzo del Brent (estratto dai giacimenti nel Mare del Nord) – al momento in cui scriviamo – si attesta sui 73,7 dollari per barile. Guardando anche qui al quadro generale, la storia del prezzo del Brent è praticamente identica a quella del WTI: dopo tre anni di declino, dai 115$/barile di maggio 2022 ai 60$ di aprile 2025, il petrolio del Mare del Nord ha ripreso a crescere dopo l’annuncio dei dazi per poi schizzare verso l’alto a giugno.

Ora che abbiamo dato un’occhiata ai movimenti di prezzo, è ora di farsi la domanda delle domande: Cosa determina i movimenti verso l’alto e verso il basso? E quindi:

Da cosa dipende il prezzo del petrolio?

Il prezzo del petrolio, fondamentalmente, dipende da tre fattori decisivi: le decisioni dell’OPEC+, il valore del dollaro e la domanda globale. Analizziamoli uno per uno. 

Chi stabilisce il prezzo del petrolio? L’OPEC+ (ma non solo)

L’OPEC+ è l’organizzazione che riunisce i paesi esportatori di petrolio (Organization of the Petroleum Exporting Countries) e viene considerata, proprio in virtù della sua capacità di stabilire i prezzi, una sorta di cartello. L’OPEC+ nasce nel 2016 ed è l’estensione dell’OPEC, attiva dal 1960. La principale differenza fra le due, risiede nel numero degli stati membri: la primissima formazione dell’OPEC includeva Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait e Venezuela. Nel tempo, si sono aggiunti otto stati produttori di petrolio, tra cui Libia, Algeria ed Emirati Arabi Uniti. Infine l’OPEC+, la versione allargata dell’OPEC, include altri dieci paesi come Russia, Messico. Barhein, Brunei, Oman e Azerbaijan. 

La creazione di un “cartello del petrolio” è stata frutto della necessità dei paesi fondatori di contrastare l’egemonia delle cosiddette Sette Sorelle, vale a dire di quelle compagnie che per tutto il ‘900 hanno avuto il monopolio del mercato: le europee British Petroleum e Royal Dutch Shell insieme alle statunitensi Exxon, Texaco, Mobil, Gulf Oil e Standard Oil of California. L’estensione a OPEC+ nel 2016, invece, è stata dettata dalla necessità di contrastare l’aumento delle estrazioni di petrolio negli Stati Uniti, per ritornare ad avere in mano una quota rilevante di mercato. 

L’OPEC+ quindi, avendo il controllo di metà della produzione mondiale e dell’80% delle riserve di greggio, è in grado di influenzare il prezzo del petrolio in modo arbitrario, gestendone i livelli di produzione. In parole semplici, ciò significa che questa alleanza si accorda per aumentare o ridurre la produzione di barili al fine di mantenere i prezzi stabili: ad alta domanda, sale il prezzo per barile e l’offerta viene adeguata; a bassa domanda, il prezzo scende e l’offerta viene tagliata.

Il comportamento dell’Organizzazione negli ultimi mesi, però, è stato diverso dal solito: al calo dei prezzi del petrolio, la produzione di barili è rimasta stabile. Secondo gli analisti, l’Arabia Saudita, che può essere considerata il paese leader fra i membri, si sarebbe “stancata” di sostenere i costi maggiori di questa strategia di equilibrio dei prezzi. Questo perché è il paese che, più degli altri, rinuncia ad esportare greggio proprio nell’ottica di mantenere la quotazione a un livello profittevole per tutti. Il problema è che, allo stesso tempo, tale impegno non viene rispettato da alcuni fra i paesi membri (Kazakistan e Iraq), i quali hanno costantemente sforato il tetto accordato. Inoltre, ci sarebbe anche la volontà di “accontentare” Donald Trump, mantenendo il petrolio economico, con lo scopo di rafforzare l’alleanza strategica con gli Stati Uniti. Infine, nonostante le recenti tensioni, il mercato è stato valutato come “sano”, dal momento che nel Q1 del 2025 il consumo di petrolio è aumentato di 1,2 milioni di barili, ai massimi dal 2023.

Fuori dall’ecosistema OPEC, i maggiori estrattori di greggio sono Stati Uniti, Canada, Cina e i paesi parte dell’OECD (Organization for Economic Co-operation and Development, in Italia conosciuta come OCSE), organizzazione che conta 36 stati membri. 

Il valore del dollaro statunitense 

Negli ultimi cinquant’anni, il dollaro statunitense è stata la valuta di riferimento per la compravendita del petrolio in giro per il mondo. Non a caso, è stato coniato ad hoc il termine petrodollaro, proprio per indicare le immense riserve di valuta che i paesi produttori incassano con la vendita di questo combustibile fossile. Conseguentemente, il valore del dollaro USA influenza in modo diretto il prezzo del barile di petrolio. Facciamo un esempio pratico: quando l’Italia compra un barile di Brent, che abbiamo visto aggirarsi sui 74$ dollari per barile, deve convertire gli euro in dollari. Il prezzo del singolo barile, quindi, è influenzato dal cambio euro/dollaro e risente della forza o debolezza della valuta statunitense. Volendo riassumere con uno slogan, più il dollaro è forte nei confronti dell’euro, più il prezzo del petrolio sale, e viceversa. Naturalmente, questo discorso vale per tutte le valute. 

Gli Stati Uniti e il dollaro continuano ad avere un ruolo dominante in queste dinamiche, data la potenza economica e militare del paese a stelle e strisce. Tuttavia, qualcosa sta cambiando. Innanzitutto la Cina, di gran lunga il paese che importa più fossile, ha iniziato a comprare barili attraverso la sua valuta, lo yuan. In secondo luogo, l’Arabia Saudita non ha rinnovato l’accordo cinquantennale che nel 1974 aveva siglato con gli USA e che prevedeva la vendita del petrolio in dollari e l’investimento dei proventi in debito americano, in cambio di protezione militare e vendita di armi. Con Trump, come abbiamo anticipato, si sta verificando un riavvicinamento fra i due paesi, ma è innegabile che molte potenze nel mondo stiano cercando di attuare politiche di dedollarizzazione

Domanda globale

Naturalmente, come la legge della domanda e dell’offerta vuole, il prezzo del petrolio è determinato anche e soprattutto dalla richiesta globale. L’offerta, come detto prima, è prerogativa dell’OPEC+ e degli altri attori di mercato, ma la domanda è frutto della somma di più variabili interconnesse. Attualmente, il consumo di petrolio a livello mondiale si aggira sui 100 milioni di barili al giorno, con Cina, Stati Uniti e Unione Europea in testa.

Tra i fattori che incidono sulla domanda di petrolio, al primo posto troviamo la crescita economica globale perché più l’economia mondiale si espande, più aumenta l’energia destinata alla produzione industriale, ai trasporti e alle attività energivore, più c’è richiesta. Ciò vale anche al contrario, come nel caso del periodo del Covid: il mondo si ferma, le industrie si spengono, la domanda diminuisce drasticamente, il prezzo del petrolio crolla. 

Un altro fattore determinante è legato alle politiche energetiche e alla transizione ecologica. Questo perché, ovviamente, più ci si affranca dai combustibili fossili, più la domanda si riduce, più il prezzo dovrebbe abbassarsi. Questa correlazione non è sempre così automatica e dipende in parte dalle decisioni dell’OPEC+. 

Un terzo fattore riguarda i cosiddetti shock esogeni, vale a dire quegli eventi esterni alle leggi dell’economia come i disastri naturali e le guerre, che potrebbero danneggiare le linee di rifornimento o, in generale, minare gli equilibri di produzione. È stato così nel caso dell’invasione russa dell’Ucraina, che ha causato la cessazione dei rapporti fra Unione Europea e Russia determinando un rialzo dei prezzi di petrolio e gas naturale – e dell’inflazione – durato fino a metà 2022. 

Previsioni prezzo del petrolio: cosa prevede il biennio 2025/2026?

Fare previsioni sul prezzo del petrolio in questo periodo è estremamente difficile, a causa degli stravolgimenti di natura geopolica ed economica che, da tre anni ormai, mandano nel caos le istituzioni finanziarie di tutto il mondo. Inoltre, la recentissima escalation del conflitto fra Israele e Iran contribuisce a alimentare la forte incertezza sul futuro a breve e medio termine. 

Un’analisi indipendente della EIA (U.S. Energy Information Administration) datata 10 giugno 2025, cioè due giorni prima dell’attacco dell’aviazione israeliana nei confronti degli impianti nucleari iraniani, prevedeva i seguenti prezzi per il prossimo biennio: 

  • Previsioni prezzo del petrolio Brent: nel Q2 del 2025 le stime indicavano un prezzo di circa 65$ per barile, nel Q3 di 62$ e nel Q4 di 61$, con una media annuale stimata di 66$/barile. Nel 2026 il trend discendente sarebbe dovuto proseguire, con un prezzo di 60$/barile nel Q1 2026, di 60$ nel Q1 e nel Q2, 59$ nel Q3 e 58$ nel Q4. La media annuale: 59,2$ per barile
  • Previsioni prezzo del petrolio WTI: per il 2025 le misurazioni rilevavano un prezzo di 62$ nel Q2, 58,6$ nel Q3, 57$ nel Q4, con media annuale di 62,3$/barile. Anche qui, 2026 all’insegna del ribasso con 56$ per barile nel Q1, 56,6$ nel Q2, 55,6$ nel Q3 e 54$ nel Q4. Media annuale: 55,6$/barile

Le motivazioni dietro queste previsioni sono da ricercare nel fatto che ci si aspetta un surplus, cioè un eccedenza, di offerta rispetto alla domanda, con conseguente accumulo delle scorte globali – e, come abbiamo visto prima, fisiologico calo del prezzo del greggio. Questa argomentazione è sostenuta  anche da un report dell’AIE (Agenzia Internazionale dell’Energia), nel quale si evidenzia che, nel 2025, gli investimenti nel settore dei combustibili fossili ammonteranno a 1,1 trilioni di dollari, la metà rispetto al capitale destinato all’energia rinnovabile. A ciò, si aggiunge un crollo del 6% degli investimenti dedicati all’upstream petrolifero, cioè alla ricerca di nuovi giacimenti da sfruttare, e di quelli verso le raffinerie, in calo al livello più basso degli ultimi 10 anni – sotto i 30 miliardi. Tutto questo sembra indicare un chiaro riorientamento dell’allocazione del capitale. Ma c’è un ma.

L’andamento del petrolio nel 2025: occhio all’escalation fra Israele e Iran

I raid dell’aviazione israeliana sugli impianti nucleari iraniani di Natanz e Tabriz del 12-13 giugno, hanno cambiato tutte le carte in tavola nel giro di 24 ore. La risposta della Repubblica Islamica di Teheran è arrivata dopo qualche ora e ha contribuito ad inasprire la già delicatissima situazione. Lasciando un secondo da parte i discorsi relativi alle alleanze geopolitiche nell’ecosistema OPEC+, che potrebbero portare a un taglio netto e coordinato della produzione di petrolio, l’aggravarsi di questo conflitto avrebbe conseguenze dirette sulla circolazione degli idrocarburi e delle merci. Perchè? Perchè da quelle parti sono presenti due stretti di mare fondamentali per il commercio mondiale: lo Stretto di Bab-el-Mandeb e quello di Hormuz

Per quanto riguarda il primo dei due, abbiamo avuto modo di parlarne quando abbiamo scritto della tempesta perfetta che ha portato al boom del prezzo dell’oro. Lo Stretto di Hormuz, invece, è una novità e lo affrontiamo qui per la prima volta: come ha affermato il Ministro della Difesa Guido Crosetto, questo collo di bottiglia “sarà uno dei punti critici nelle prossime settimane e nel medio-lungo termine”. Per dare qualche informazione di natura geografica, parliamo di un passaggio marittimo strategico situato tra l’Iran (a nord) e l’Oman (a sud), che collega il Golfo Persico a ovest con il Golfo di Oman e, di conseguenza, con il Mare Arabico e l’Oceano Indiano a est. 

La sua importanza deriva dal fatto che è il punto di transito obbligato per una porzione enorme del petrolio e del gas naturale liquefatto (il GNL) mondiale esportato dai principali produttori del mondo: Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Qatar, Iraq e Iran. Per capirci, si stima che attraverso questo stretto di mare passi ogni giorno circa il 40% della produzione mondiale di petrolio. Lato scambi commerciali, lo Stretto di Hormuz vede il passaggio di oltre 3.000 navi al mese. È dunque evidente come la chiusura di questo passaggio al trasporto marittimo causerebbe un rialzo dei prezzi e danni incalcolabili per l’economia mondiale. 

Per concludere, la situazione è così incerta e complicata che perfino gli analisti di settore non vogliono sbilanciarsi e preferiscono monitorare l’evoluzione della crisi. Un articolo di lunedì 16 giugno – targato CNBC – recita letteralmente: “I colossi dell’energia Baker Hughes e Woodside evitano di fare previsioni sul petrolio mentre il conflitto Iran-Israele si intensifica”. Sulla base di ciò, il consiglio è quello di entrare nel nostro canale Telegram e restare sul pezzo, perché questa crisi ci interessa moltissimo e non tarderemo a pubblicare aggiornamenti – oppure puoi iscriverti direttamente su Young Platform qui sotto!

Le previsioni di prezzo contenute nel presente articolo si basano su fonti ritenute affidabili, ma non offrono garanzie circa l’effettivo andamento futuro del mercato. Non costituiscono raccomandazione o consulenza finanziaria. L’investimento in cripto-attività comporta dei rischi, tra cui l’eventuale perdita – anche totale – del capitale investito. L’utente è tenuto a effettuare valutazioni autonome prima di assumere decisioni economiche e/o di investimento e a consultare un proprio consulente finanziario specializzato in materia.

Investire a lungo termine ETF su S&P 500 o Bitcoin?

ETF S&P 500 o Bitcoin per il lungo termine?

Ha ancora senso investire solo sugli ETF sull’S&P 500? Confrontiamo la strategia classica con Bitcoin

Va bene il lungo periodo, ma come diceva Keynes: “nel lungo periodo siamo tutti morti”. Il “mito” del lungo termine è ovviamente connesso all’investimento in asset con un profilo di rischio e volatilità medio alto, dato che il tempo è l’unica variabile che permette di massimizzare le probabilità di ottenere un rendimento positivo.

Ma il modo migliore di investire è davvero comprare un ETF sull’S&P 500 e aspettare trent’anni?

L’orizzonte temporale in cui si investe è un fattore totalmente personale

La frase che chiude l’introduzione l’avete sicuramente già sentita e ha un fondo di verità. Dagli anni ’80 ad oggi il principale indice del mercato azionario americano ha registrato un incremento del +6000%. Tuttavia, l’orizzonte personale di un investimento è una variabile totalmente personale, che dipende principalmente dagli obiettivi dell’investitore.

Se è vero che il più lungo orizzonte possibile – soprattutto quando si tratta di un investimento azionario – permette di aumentare la probabilità di realizzare un rendimento positivo, è altrettanto vero che questa probabilità non può mai raggiungere il 100%: in altre parole, un investimento rischioso non potrà mai avere un rendimento certo, quantificabile ex ante.

Il tempo è il miglior alleato di noi investitori: a meno di non voler fare scommesse con il mercato, è meglio fare in modo che giochi a nostro favore. Il tempo permette anche di sfruttare al massimo la capitalizzazione composta, l’ingrediente indispensabile per generare risultati eccezionali nel lungo termine.

E se da un lato l’interesse composto è il motore dei rendimenti su indici consolidati come l’S&P 500, dall’altro il mercato moderno offre strumenti che promettono crescite esponenziali in tempi potenzialmente più brevi, seppur con un grado di rischio probabilmente differente. Qui si inserisce perfettamente il dibattito su Bitcoin.

L’alternativa: Bitcoin

L’approvazione degli ETF su Bitcoin spot di gennaio 2024 ha reso accessibile a tutti un investimento che prima era confinato a procedure complesse. Questo ha aperto una domanda: Bitcoin, o i suoi ETF, possono essere un’alternativa o un complemento all’S&P 500 in un portafoglio di lungo termine?

L’argomento a favore più evidente è connesso al potenziale rendimento asimmetrico: a fronte di un rischio di perdita totale, c’è un potenziale di crescita di diversi ordini di grandezza, molto superiore a quello di un indice maturo. Teoricamente poi Bitcoin potrebbe anche agire da diversificatore, data la sua bassa correlazione storica con l’azionario, sebbene questa tenda ad aumentare nei periodi di forte stress finanziario.

Tuttavia, i punti critici sono altrettanto importanti. Il primo è la volatilità estrema. Se l’S&P 500 ha subito crolli del 30-50% in concomitanza di crisi epocali, Bitcoin ha registrato regolarmente drawdown del 70-80%. Un orizzonte temporale molto lungo potrebbe non bastare a recuperare se si entra su un picco di mercato.

In secondo luogo, a differenza dell’S&P 500, che rappresenta la proprietà di aziende reali che generano utili, Bitcoin non produce flussi di cassa. Il suo valore è guidato unicamente dalla legge della domanda e dell’offerta, basandosi sulla fiducia e sulla sua scarsità programmata. Questo lo rende più simile a una materia prima digitale che a un investimento produttivo. Infine, non va trascurata l’incertezza regolamentare: essendo un asset giovane, è esposto a futuri cambiamenti normativi che potrebbero impattarne drasticamente il valore.

Conclusione: qual è la strategia migliore?

Quindi, l’ETF su Bitcoin può affiancare o addirittura sostituire l’S&P 500 in un’ottica di lungo periodo? La risposta, ancora una volta, non è univoca e riporta al cuore del nostro discorso: dipende interamente dal profilo di rischio, dagli obiettivi e dalla consapevolezza del singolo investitore.

Per chi cerca una crescita stabile, relativamente prevedibile e basata sui fondamentali economici, l’investimento passivo sull’S&P 500 rimane probabilmente la scelta più logica e collaudata.

Per chi, invece, ha un’altissima tolleranza al rischio, comprende la natura speculativa dell’asset e vuole allocare una piccola parte del proprio capitale su una tecnologia potenzialmente dirompente, un ETF su Bitcoin può rappresentare un’aggiunta interessante.

In definitiva, la domanda non è quale dei due sia “migliore” in assoluto, ma quale sia lo strumento più adatto a farci raggiungere i nostri obiettivi personali, accettando un livello di rischio con cui siamo in grado di convivere serenamente nel lungo, e talvolta turbolento, periodo.

Diversificazione: cos’é e perché é importante

Diversificazione: cos’è e perché è importante

La diversificazione è una delle nozioni fondamentali dell’arte dell’investire, anche se in troppi la snobbano. Ma cos’è? E perché è così importante? 

La diversificazione è un principio fondamentale che dovrebbe guidare la strategia di investimento di chiunque voglia addentrarsi nel mondo crypto. È un concetto proprio della finanza tradizionale, ma che ha accompagnato l’umanità durante tutto il processo di civilizzazione. In questo articolo, cercheremo di rispondere a due domande tanto semplici quanto complete: che cos’è la diversificazione? E perché è tanto importante?

Diversificazione: che cos’è e cosa significa?

La diversificazione, in finanza, è definita come una strategia o principio fondamentale per minimizzare il rischio: concretamente, significa distribuire le risorse finanziarie su una gamma eterogenea di asset, invece di concentrare il capitale su un singolo investimento. L’esempio principe, il classico intramontabile, utilizzato da chi vuole spiegare in modo semplice questo concetto, è quello delle uova nel paniere. Più precisamente, la frase “non mettere tutte le uova nel paniere!”, accompagnata da un indice che oscilla avanti e indietro, solenne come un oracolo. 

Scherzi a parte, il paragone è calzante, diversificare significa proprio evitare di mettere tutte le uova all’interno dello stesso paniere. Il motivo è semplice: se tutte le uova sono in un unico paniere e questo, per disgrazia, dovesse scivolarti dalle mani, ti ritroveresti con una frittata immangiabile. In altre parole, avresti perso tutto. Ma se lo stesso numero di uova fosse stato sapientemente distribuito su più panieri, avresti perso il contenuto di uno di questi, preservando il resto. Allo stesso modo, come si può capire con semplice intuito, spalmare gli investimenti su più asset diversi fra loro riduce di molto il rischio di perdere tutto in una sola botta. E il portafoglio ringrazia.

Se ci pensi, come abbiamo anticipato nell’introduzione, questa regola ha attraversato i secoli insieme all’umanità, fin dai tempi dei primi insediamenti. Già nel Neolitico, le comunità allevavano contemporaneamente più tipi di bestiame – tra cui mucche, pecore e capre – in modo da avere a disposizione diverse qualità di risorse alimentari e materiali, ma anche per evitare che, per esempio, un’unica malattia fosse in grado di sterminare tutti gli animali. Anche durante il Medioevo, gli agricoltori avevano compreso l’importanza di coltivare più tipi di cereali con la rotazione triennale. I vantaggi erano evidenti: miglioramento della fertilità del suolo, aumento della produzione complessiva e riduzione del rischio di carestie, dal momento che le perdite causate da un raccolto andato male si recuperavano grazie agli altri. 

Tra le altre cose, la diversificazione determina anche la nostra dieta alimentare. È chiaro che sarebbe stupendo mangiare tutti i giorni pizza, ma è fondamentale alternare con cibi più sani e noiosi per evitare di scavarsi la fossa da soli. Insomma, se la diversificazione guida ogni aspetto della vita umana, perché non dovrebbe fare lo stesso con i nostri investimenti?

Diversificazione: perché è importante?  

La diversificazione, come precedentemente illustrato, è un criterio imprescindibile in ottica conservativa, vale a dire di riduzione del rischio. Allora qui uno potrebbe giustamente obiettare: “a me non interessa nulla del rischio, voglio puntare tutti i soldi su quella meme coin e diventare milionario in tre giorni”. Lecito, tuttavia questo non è investire ma scommettere, e le probabilità di vincere quando si gioca d’azzardo sono estremamente basse. Tornando agli investimenti, diversificare conviene anche dal punto di vista dei profitti, poiché ti permette di non farti scappare l’asset, o gli asset, del decennio. 

Facciamo un esempio concreto prendendo il megatrend di internet dei primi anni 2000, appena dopo lo scoppio della bolla delle dot-com. In quel momento, il caso d’uso principale di internet era la funzione di ricerca e Google era il Re assoluto e incontrastato. Avresti potuto pensare, legittimamente, che l’azienda californiana era il vero e unico cavallo su cui puntare, poiché dominava su una concorrenza quasi inesistente. Oggi, quella scelta ti avrebbe senz’altro dato ragione, dal momento che la quotazione di Google è cresciuta più del 6.000%, tuttavia ti saresti mangiato le mani. Perché? Perché intendendo internet come uno strumento progettato esclusivamente per la ricerca online, avresti perso altre aziende come Netflix e Amazon, che hanno messo a segno performance superiori ritagliandosi la loro personale fetta di mercato. 

Diversificare nel mondo crypto

La diversificazione nel mondo delle criptovalute segue le dinamiche dell’esempio appena descritto: dipende da come intendi la blockchain e i suoi casi d’uso. Bitcoin è, senza ombra di dubbio, l’attore dominante in questo mondo, dal momento che da solo rappresenta più del 64% del mercato. Tuttavia, la sua utilità è “limitata”” – per ora – ai pagamenti e al fatto di essere riserva di valore, anche se la BTCFi potrebbe promettere bene. Dunque, se ritieni che la blockchain non andrà oltre Bitcoin, allora ha senso investirci tutto quanto, a tuo rischio e pericolo. 

É innegabile, però, che la blockchain si stia inserendo, neanche così lentamente, in altri settori strategici e il futuro potrebbe riservare sorprese in questo senso. Il punto fondamentale è fare un passo indietro e osservare la situazione nel suo complesso: non focalizzarsi sul presente per non farsi ingannare da euristiche e bias cognitivi ma, come direbbe il filosofo Baruch Spinoza, considerare le cose sub specie aeternitatis – sotto l’aspetto dell’eternità – in senso assoluto e universale. Per diversificazione si intende proprio questo, cioè evitare di esporsi troppo su una singola crypto sia per ridurre i rischi, sia per non perdere gigantesche opportunità tipo Ethereum, che dall’1 gennaio 2020 all’1 gennaio 2025 ha messo a segno un +1.880%. 

Chiaramente, per poter investire con consapevolezza, è necessario aggiornarsi ed essere sempre sul pezzo su ciò che accade in questo mondo in costante evoluzione. Il consiglio – per niente di parte – è di iscriverti ai nostri canali Telegram e Whatsapp o direttamente qui sotto, in modo da avere tutti i giorni le notizie rilevanti già pronte e impacchettate!

Finanziamento auto: come funziona? La guida

Finanziamento auto: come funziona? La guida

Il finanziamento auto è una forma di indebitamento comune che consente di comprare una macchina a rate. Ma attenzione ai costi nascosti. Qui la guida

Il finanziamento auto è una soluzione molto utilizzata perché permette l’acquisto di una macchina nel caso in cui l’acquirente non disponesse immediatamente del capitale totale necessario: nel 2023, in Italia, questa formula ha riguardato la vendita dell’80% delle auto. Tuttavia si tratta di un prestito che, come vedremo, viene concesso da banche o altri attori finanziari e, per questo motivo, è importante avere chiaro il quadro. Qui la guida

Finanziamento auto: che cos’è?

Il finanziamento auto, come abbiamo anticipato, è un contratto attraverso cui una figura creditrice, che può essere una banca o un’istituzione finanziaria in generale, anticipa i soldi necessari all’acquisto della macchina in cambio dell’impegno – firmato e controfirmato – alla restituzione di questa somma, nel tempo. Naturalmente, chi concede il finanziamento fa questo “favore” non perché è gentile e neanche perché ha a cuore la mobilità del cittadino, ma perché guadagna, e anche abbastanza, con le rate mensili maggiorate dagli interessi. In parole semplici, il finanziamento non è altro che un prestito che andrà ripagato con gli interessi, entro un tempo prestabilito. Nello specifico, esistono tre forme di finanziamento – anche se sarebbe più corretto dire “due e mezzo”. Vediamole.

Finanziamento o prestito personale

La forma “classica”, diciamo. Questa soluzione di finanziamento prevede che il richiedente, cioè l’individuo che ha bisogno del prestito, si rivolga personalmente a una banca o a una società di credito esterna per fare la richiesta di danari. A questo punto, l’ente che ha a disposizione la grana farà tutti i controlli necessari per accertare che il soggetto richiedente in questione sia in grado di ripagare la somma, con gli interessi: immobili di proprietà, figli a carico, contratto a tempo determinato o indeterminato e via dicendo. In caso di esito positivo, si procede con l’erogazione del prestito. Ora, il nostro futuro automobilista ha a disposizione il cash per comprare la macchina dei suoi sogni e si reca col sorriso in concessionaria: firma due carte, paga e diventa subito proprietario dell’automobile (e di 36 comode rate). 

Finanziamento o prestito finalizzato

Questo secondo tipo di finanziamento differisce dal primo perché, come dice il nome, è finalizzato all’acquisto di un bene preciso, in questo caso dell’auto. Mentre nel primo caso la banca o l’istituto di credito dice semplicemente “io ti presto i soldi, tu fai quello che ti pare basta che me li ridai”, ora c’è il vincolo all’acquisto dell’automobile. Un’altra differenza importante sta nel fatto che è la concessionaria a fare da intermediario fra chi chiede e chi presta i soldi: anzi, molto spesso può capitare che la società finanziaria sia collegata direttamente alla casa automobilistica produttrice della macchina che si intende acquistare – ad esempio Stellantis Financial Services. Rispetto alla prima formula, i vantaggi di richiedere un finanziamento auto finalizzato risiedono principalmente nella competitività delle offerte, che possono includere promozioni iniziali come il famoso “tasso zero” e le “mini rate iniziali”.

Leasing 

Il leasing è il motivo per cui nel primo paragrafo abbiamo precisato “due e mezzo”: se nei precedenti due casi si parla di finanziamento vero e proprio, ora è più corretto parlare di affitto con possibilità di acquisto. Col leasing non c’è un attore terzo che anticipa i soldi, ma solamente una concessionaria, un cliente e un contratto in cui è indicato il canone mensile da pagare per poter utilizzare la macchina. Tale contratto ha una durata definita oltre la quale, se il cliente è d’accordo, è possibile comprare definitivamente la vettura saldando la celebre quanto temuta maxi-rata finale. Altrimenti, il cliente ha la facoltà di iniziare un altro leasing, magari con un’altra auto, o terminare il rapporto.

Quanto costa e quali sono i requisiti per ottenerlo

Il finanziamento auto costa, nessuno ti regala i soldi. Ti sarà capitato di vedere una pubblicità di una macchina recentemente, magari un fuoristrada: strade bellissime nella natura incontaminata, potenza del motore, vetri oscurati e sensazione di libertà. Poi la réclame arriva al termine e l’annunciatore inizia a parlare straveloce: “TanquattropuntonovantapercentoTaegseiottantunooffertavalidaconfinanziamentopressofinanziariasalvoapprovazione…” eccetera, eccetera, eccetera. Bene, ora cerchiamo di capire cosa sono questi TAN e TAEG che sentiamo in tv da quando abbiamo la facoltà di comprendere il linguaggio umano. 

TAN E TAEG: i tassi di interesse

Il TAN e il TAEG, questi strani acronimi, non sono altro che i tassi di interesse applicati alla somma richiesta: è il guadagno che la banca, l’istituto di credito o la finanziaria legata alla casa automobilistica, incassano per averti prestato i soldi. Il TAN, ovvero il Tasso Annuo Nominale, rappresenta l’interesse puro applicato alla cifra erogata. In che senso “puro”? Nel senso che è la percentuale base al netto dei costi di gestione o legati alle pratiche burocratiche. Il TAEG, cioè il Tasso Annuo Effettivo Globale, come dice il nome è proprio il TAN sommato ai costi extra non indicati nel TAN stesso. Dunque il TAN ti permette di capire l’interesse netto che andrai a pagare con le rate, mentre il TAEG ti fornisce il quadro completo del costo reale del finanziamento auto. 

Sulla base di ciò, una persona potrebbe chiedersi: “se il TAEG è più completo del TAN, perchè vengono indicati entrambi? Per ingannare il cliente?” No, o meglio, non proprio. È chiaro che, di per sé, mostrare il tasso di interesse puro – più basso rispetto al TAEG – fa un effetto migliore al momento della vendita, tuttavia ci sono delle ragioni ben precise che giustificano questa procedura. In primo luogo, il TAEG non indica il tasso di interesse ma la percentuale finale totale, il che rende più complessa la distinzione tra costo del finanziamento e spese extra. In secondo luogo, avendo più chiaro il tasso di interesse netto, il cliente è in grado di confrontare meglio le varie offerte a prescindere dai costi accessori. Infine – a causa di quanto menzionato sopra – c’è l’obbligo normativo di imporre l’indicazione di entrambi gli indici. 

I requisiti per ottenere un finanziamento

Il finanziamento auto viene concesso solamente nel caso in cui il richiedente soddisfi dei requisiti fondamentali dato che chi presta i soldi, da parte sua, vuole assicurarsi che li riavrà indietro. Tra queste condizioni, naturalmente, la maggiore età e la residenza in Italia sono imprescindibili per poter avviare la pratica. Seguono quelle relative al reddito e alla storia creditizia: occorre dimostrare di avere delle entrate fisse, attraverso buste paga o dichiarazione dei redditi, e soprattutto di essere un debitore affidabile. Quest’ultimo punto è fondamentale, dal momento che segnalazioni negative da parte di banche dati come il CRIF (Centrale Rischi Finanziari) potrebbero compromettere totalmente l’operazione finanziaria. In merito a questi ultimi punti, cerchiamo di rispondere a due domande che potresti esserti posto: 

  • Posso ottenere un finanziamento auto senza busta paga? È molto molto difficile. Come abbiamo appena precisato, chi concede il prestito vuole avere la certezza che i suoi soldi non vengano persi nell’etere. Presteresti mai dei soldi – tanti soldi – a uno sconosciuto incontrato per strada? 
  • Cosa succede se non riesco a pagare le rate del prestito auto? Potresti andare incontro a conseguenze non proprio leggere. Il primo step, solitamente, è l’applicazione dei cosiddetti interessi di mora, cioè di tassi extra rispetto al TAN, calcolati su base giornaliera o mensile, che il creditore impone come risarcimento. Il secondo, spesso in concomitanza col primo, è la segnalazione presso enti come il CRIF, che sporcherebbe in modo significativo la tua fedina penale di debitore. Infine, se, nonostante le sollecitazioni, le rate sono ancora scoperte, l’istituzione creditizia del caso può procedere al recupero dei crediti attraverso strumenti come il prelievo forzoso e il pignoramento dei beni. 

Insomma, aprire un finanziamento auto, così come aprire un mutuo, è una decisione che va presa con estrema cura perché cambierà la tua vita: è fondamentale fare un’analisi costi/benefici completa e precisa, per evitare di ritrovarti al verde da un mese all’altro. Per questo, iscriviti ai nostri canali Telegram e Whatsapp o direttamente al sito di Young Platform cliccando qui sotto, potrebbe esserti utile per il futuro.

Il prezzo del rame è collegato a Bitcoin. In che modo?

Prezzo del rame e la sua influenza su BTC

Scopri perché il prezzo del rame, in rapporto all’oro, è un indicatore utile per provare a prevedere l’andamento di Bitcoin e dei mercati finanziari.

Il prezzo del rame, soprattutto se messo a confronto con quello dell’oro, è un ottimo indicatore per tentare di prevedere l’andamento del mercato nei prossimi mesi e può anche dirci qualcosa sui movimenti futuri di Bitcoin. No, non siamo impazziti, e leggendo questo articolo scoprirai qual è la correlazione tra mercato azionario, rame, oro e Bitcoin.

Il prezzo del rame e i mercati

Il prezzo del rame è in crescita dall’inizio del 2025, anche se ha perso circa il 17% dal punto di massimo toccato a marzo (5,3 $/libbra), la sua performance da inizio anno resta un notevole +22%. Aldilà dei numeri, però, è importante capire perché ha senso analizzare il prezzo del rame, soprattutto in rapporto a quello dell’oro. Per spiegarlo dobbiamo partire da una premessa: tutti i mercati sono ciclici, non solo quello delle criptovalute.

Il rapporto tra il prezzo del rame e quello dell’oro ci dice molto sulla fase economica che stiamo attraversando. E forse anche qualcosa su ciò che ci aspetta.

Per più di trent’anni, questo rapporto si è mosso seguendo cicli di durata variabile, dai tre ai sei anni. Ognuno di questi può essere suddiviso in due fasi:

  • Fasi crescenti: storicamente hanno coinciso con periodi positivi per il mercato azionario e per gli asset a rischio (risk-on).
  • Fasi ribassiste: si sono verificate spesso in concomitanza con ribassi di questa tipologia di attività finanziarie.

Dato che ci occupiamo prevalentemente del mondo crypto, è interessante analizzare cosa è successo a Bitcoin durante le diverse fasi di questo rapporto. Il primo dato stupisce per la sua chiarezza: tutte le fasi più esplosive di Bitcoin, caratterizzate da forti movimenti di prezzo al rialzo, sono coincise con una crescita del ratio rame/oro. Al contrario, i principali bear market della storia di BTC sono avvenuti proprio quando il rame mostrava debolezza nei confronti dell’oro.

Rame e oro: perché sono opposti in finanza?

Arriviamo al punto che tutti stavate aspettando: perché la crescita di Bitcoin dovrebbe essere legata a quella del prezzo del rame rispetto all’oro? La risposta sta nel ruolo opposto che queste due materie prime ricoprono in finanza.

Dal punto di vista chimico condividono alcune somiglianze, appartenendo allo stesso gruppo della tavola periodica. Dal punto di vista finanziario, tuttavia, sono quasi antitetici.

L’oro è un metallo monetario, considerato il bene rifugio per eccellenza. La sua domanda (e quindi il suo prezzo) cresce tipicamente quando aumentano le tensioni geopolitiche o quando l’economia attraversa una fase di incertezza. Il rame, al contrario, è un metallo prettamente industriale. Il suo prezzo cresce in seguito a un aumento della domanda da parte del settore manifatturiero o delle costruzioni, segnali di un’economia in espansione.

Di conseguenza:

  • Un rapporto rame/oro in aumento suggerisce un clima “risk-on”: minore domanda di beni rifugio, tensioni geopolitiche in calo e un’economia globale in rafforzamento.
  • Un rapporto rame/oro in calo segnala una situazione “risk-off”: maggiore incertezza economica, tensioni in crescita e un’economia globale che rallenta.

Prezzo del rame oggi: il ciclo è rotto o sta per ripartire?

C’è una ragione principale che spiega questa apparente anomalia: la Cina. L’economia cinese è il motore manifatturiero del mondo ed è fondamentale per determinare il ritmo dell’economia globale. La sua influenza sul rapporto rame/oro è decisiva, perché ne condiziona entrambi i lati:

  • Rame: la Cina è di gran lunga il più grande consumatore di rame al mondo. Quando la sua economia è forte, la domanda di rame aumenta, spingendone il prezzo al rialzo.
  • Oro: l’oro ha un’enorme importanza culturale ed economica in Cina come strumento di investimento. Quando l’economia cinese si indebolisce, gli investitori si rifugiano nell’oro, aumentandone la domanda e il prezzo.

Esiste una chiara correlazione tra il rendimento dei titoli di stato cinesi a 10 anni (CN10Y), un indicatore della salute economica del paese, e il rapporto rame/oro. Per molto tempo il CN10Y ha continuato a scendere, segnalando un’economia in difficoltà e giustificando la debolezza del rame rispetto all’oro.

Cosa aspettarsi ora dal rapporto rame/oro?

All’inizio del 2025 qualcosa è cambiato. Il rendimento del CN10Y ha smesso di scendere e ha iniziato a stabilizzarsi. Questo perché nel dicembre 2024, la Banca Popolare Cinese (PBoC) ha modificato la sua politica monetaria da “prudente” a “moderatamente espansiva”, iniettando circa 4,5 trilioni di RMB (630 miliardi di dollari) nei mercati.

La Cina sembra decisa a stimolare e sostenere la propria economia. Questo non può che essere un segnale positivo per il rapporto rame/oro, per l’economia globale e, potenzialmente, per gli asset a rischio come Bitcoin. Tenete quindi d’occhio il ciclo a lungo termine del rapporto rame/oro: potremmo essere solo all’inizio di una svolta significativa.

Pensione anticipata: cos’è la regola del 4%?

Pensione anticipata: cos’è la regola del 4%?

La pensione anticipata è un desiderio di molti: la regola del 4% può esserci d’aiuto anche se presenta delle criticità. Vediamo di cosa si tratta

La pensione anticipata è un sogno per moltissime persone impegnate nel mondo del lavoro, dato che ti consente di godere del patrimonio accumulato avendo a disposizione l’energia necessaria per farlo. Spesso invece, con la soglia di età pensionabile che si alza quasi di anno in anno, questo momento arriva in una fase della vita prossima alla vecchiaia. La regola del 4% è un modo che potrebbe fornire strumenti utili alla realizzazione di questo desiderio. Qui vedremo insieme di cosa si tratta, i pro e i contro. 

Pensione anticipata e la regola del 4%: le origini 

Dove nasce la regola del 4%? Ovviamente negli Stati Uniti, un Paese in cui il proverbio latino homo faber fortunae suae – l’uomo è artefice del proprio destino – guida il comportamento dei cittadini, abituati a contare sulle proprie forze e a non fare eccessivo affidamento nello stato. Dal punto di vista della finanza personale, questa mentalità fa sì che gli americani siano super familiarizzati col mondo degli investimenti sin da giovani, proprio perché convinti che il futuro dipenda quasi esclusivamente dalle loro azioni. Nascono così le varie teorie legate al mondo del risparmio e del retirement (pensione), come la sfida delle 52 settimane o come quella di cui parleremo oggi, la regola del 4%

L’inventore di questo principio è William Bengen, un ingegnere aerospaziale nato nel 1947 a Brooklyn, New York, che nel 1993 ottiene un master in pianificazione finanziaria. Un anno dopo, sul Journal of Financial Planning, pubblica un articolo dal titolo “Calcolare i tassi di prelievo utilizzando i dati storici”: Bengen aveva analizzato anni e anni di dati relativi al mercato americano e aveva scoperto che era possibile vivere coi propri risparmi per 30 anni. Come? Prelevando ogni anno il 4% del proprio portafoglio di investimenti e adeguando, dal secondo anno in poi, questa percentuale al tasso di inflazione corrente.

Anche qui, occorre precisare che il sistema pensionistico americano è molto diverso dai sistemi europei e si basa su tre pilastri: la previdenza sociale, i fondi pensione privati e gli investimenti personali, come l’IRA (Individual Retirement Account) o il 401k. Il punto fondamentale, che ci aiuta a comprendere la strategia di Bengen, è che la regola del 4% si fonda sul fatto che la pensione è “dinamica” e non statica. Ciò significa che, quando risparmiano per il futuro, gli americani investono i loro soldi in Borsa: azioni, obbligazioni, ETF e fondi comuni di investimento. Quindi la pensione, nel tempo, tende a crescere e il 4% rappresenterebbe la quantità di denaro sufficiente a vivere in tranquillità per circa 30 anni – la percentuale è calcolata per difetto, in ottica conservativa.

Ma facciamo un esempio concreto.

Come funziona la regola del 4%?

Innanzitutto, occorre fare un calcolo della media delle spese sostenute annualmente per poi dividere questa cifra per la percentuale che si intende prelevare (il 4%, cioè 0,04 nel nostro caso). Dunque, immaginando 15.000€ annuali di spesa (1250€ al mese per 12 mesi), e dividendo questa cifra per il 4% (15.000€ diviso 0,04), dovresti avere a disposizione un capitale di 375.000€. Questi soldi, seguendo la prospettiva di Bengen, sono investiti in Borsa e, conseguentemente, sono soggetti a un rendimento annuo 

Perfetto, smetti di lavorare e ti godi il tempo libero. Il primo anno prelevi il 4% e dal secondo in poi il 4% aggiustato all’inflazione: si parte da 15.000€ per poi moltiplicare questa cifra per 1,02 (ipotizzando l’inflazione al 2%) e ritirare 15.300€ e così via. In tutto ciò, il capitale investito genera un profitto che, in media, è sufficiente a compensare i prelievi, permettendo al portafoglio di sopravvivere anche durante gli anni di crisi in cui il mercato non performa come ci aspetteremmo. Però ci sono dei però.

La pensione anticipata di Bengen non coglie alcune criticità

In primo luogo, è una regola totalmente teorica che non riflette la vita quotidiana delle persone. Va bene calcolare la spesa media annua, ma se volessi farti un viaggio a El Salvador? O se dovessi far fronte a spese impreviste, come la riparazione della macchina? Dovresti certamente rivalutare la cifra che intendi prelevare per sopperire a queste spese impreviste, a meno che tu non abbia già pronto un fondo di emergenza apposito. 

In secondo luogo, ignora completamente l’impatto di costi e commissioni a cui andresti incontro nella gestione del capitale investito: il TER (Total Expense Ratio) include tutte le spese operative di un fondo – come i fondi comuni o ETF che abbiamo menzionato prima – e può incidere significativamente sul rendimento netto del tuo investimento. Senza citare le parcelle dei consulenti finanziari, qualora ne volessi usare uno. Giusto per fare un esempio, un rendimento lordo del 7% potrebbe trasformarsi in un 5.5% netto dopo aver sottratto questi costi. Ogni euro speso in commissioni è un euro che non lavora per il tuo futuro. 

Per concludere, se volessi farti un viaggio a El Salvador e vedere come si vive in un Paese che ha adottato Bitcoin come valuta legale, fatti un giro nei nostri Club che abbiamo degli sconti con WeRoad. In alternativa, iscriviti a Young Platform e resta aggiornata/o su guide e notizie rilevanti!

Alta moda: chi era Charles Frederick Worth?

Alta moda: chi era Charles Frederick Worth?

L’alta moda è un settore dell’abbigliamento che si fonda sulla creazione di abiti unici di estrema qualità. Come nasce? Qual è la sua storia?

L’alta moda, o haute couture, nasce a Parigi grazie alle intuizioni di un signore inglese che, con l’aiuto di sua moglie, è riuscito a conquistare il cuore (e il portafoglio) delle dame più ricche dell’aristocrazia e dell’alta borghesia francese e non solo. Oggi, questo settore vale miliardi e produce vestiti per l’1% più facoltoso della popolazione mondiale. Vediamo insieme la storia dei leggendari Charles Frederick Worth e consorte! 

Alta moda: una nicchia molto particolare 

L’alta moda, o haute couture, è un settore che indica capi di eccellente fattura e rappresenta il vertice dell’industria dell’abbigliamento. I vestiti che rientrano in questa categoria, disegnati dagli stilisti delle maison, devono necessariamente rispettare alcuni requisiti, cioè i quattro criteri fondamentali, stabiliti dal Ministero francese dell’Industria e dalla Fédération Fançaise de la Couture.

Una maison – cioè la casa di produzione – per godere del bollino haute couture deve realizzare solo ed esclusivamente abiti su misura: il vestito di alta moda, infatti, è unico e può essere inteso come un vero e proprio pezzo d’arte non fungibile. Inoltre, deve avere un atelier a Parigi con almeno venti dipendenti full-time nello staff tecnico. Infine, deve presentare le collezioni due volte l’anno, a gennaio e a luglio, le quali devono essere composte da 50 modelli originali, da giorno e da sera. 

Rose Bertin, modista francese vissuta tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, è considerata la pioniera dell’alta moda, dato che realizzava vestiti originali su misura per Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI e regina di Francia. Tuttavia, il concetto di haute couture, come vedremo, si attribuisce a Charles Frederick Worth, attivo sempre a Parigi circa trent’anni dopo. 

In ogni caso il settore dell’alta moda, come avrai capito, si basa sul concetto di scarsità – principio, quest’ultimo, che noi di Young Platform adoriamo, quasi quanto l’asset digitale che meglio lo incarna: Bitcoin. Ma torniamo a noi. I prezzi dei capi, che si aggirano fra le decine e le centinaia di migliaia di euro, sono giustificati proprio dal loro carattere irreplicabile, oltre che dal numero infinito di ore necessarie alla produzione – 150 per un semplice vestito, 1000 (41 giorni) per un pezzo con ricami e rifiniture pregiate. Naturalmente, nel computo finale dei costi, anche i materiali scelti hanno un peso rilevante. 

Alta moda: come, quando e dove nasce?

Come abbiamo anticipato, l’invenzione della haute couture è attribuita a Rose Bertin che, però, non può ancora essere definita “stilista”, essendo questa professione nata dopo la rivoluzione francese. E qui entra in scena il nostro Charles Frederick Worth: nato nel 1825 nel Licolnshire, in Inghilterra, si trasferisce a 13 anni a Londra e inizia a lavorare in un grande magazzino di tessuti sulla famosa Regent Street, dove entra in contatto col mondo della seta e delle stoffe. A vent’anni, nel 1845, si sposta a Parigi, già centro europeo – e non solo – della moda, dove lavora come assistente presso la boutique di tessuti Gagelin. Qui la sua vita cambia: è la conoscenza con Marie Augustine Vernet, sua futura moglie e musa ispiratrice, a fargli fare il salto di qualità. Ma ci arriveremo.

Worth si dimostra un ottimo venditore oltre che un grande esperto di tessuti e ha tutte le carte in regola per fare carriera. Infatti, dopo cinque anni diventa responsabile del reparto sartoria della boutique Gagelin e, nel 1853, socio alla pari con gli altri due proprietari. Le cose sembrano andare per il meglio ma dopo qualche anno arriva il momento della rottura: Worth è pronto per mettersi in proprio e nel 1858 apre il suo personale atelier al civico 7 di rue de la Paix.  

Charles Frederick Worth e Marie Augustine Vernet: la Rivoluzione abbia inizio

Charles Frederick Worth e Marie Augustine Vernet, insieme, sono gli artefici di una vera e propria rivoluzione dell’universo della moda per come era stato concepito fino ad allora. Charles era già un sarto apprezzato nella Parigi di metà Ottocento, ma il vero punto di svolta è frutto di una mossa tanto scaltra quanto audace da parte di Marie Augustine. Consapevole del potere del passaparola fra le donne dell’alta società, la moglie dello stilista decide di vendere a prezzi ridicoli – quasi un regalo – due abiti alla principessa di Metternich. Questa sceglie di indossarne uno in occasione del ballo alle Tuileries, luogo principe della mondanità dell’élite parisienne. Il suo vestito, bellissimo e diverso dal solito, cattura l’attenzione della donna più influente del jet set francese: l’imperatrice Eugénie de Montijo, moglie di Napoleone III, imperatore di Francia dal 1852 al 1870. Charles Worth, da quel momento, diventa il sarto di corte nonché fornitore ufficiale dell’imperatrice di Francia. 

Charles Frederick Worth diventa lo stilista più importante e apprezzato fra le dame del Gotha parigino e, con lui, si verifica un ribaltamento netto della prospettiva: se prima erano le donne, aristocratiche o altoborghesi, a commissionare i lavori agli artigiani tessili, scegliendo le stoffe e creando i modelli, adesso è lo stilista a proporre gli abiti e, dunque, a dettare la moda. 

Il nostro Charles, inoltre, è responsabile di due delle più importanti innovazioni che il mondo della moda abbia visto: la prima riguarda la divisione delle collezioni in base alla stagione; la seconda fa riferimento all’utilizzo di “modelle viventi” piuttosto che di manichini, com’era tradizione fino a quel momento – sua moglie Marie è considerata la prima modella della storia. Charles Worth, in sostanza, ha inventato le sfilate di moda. 

Nel 1868, è tra i fondatori della Camera Sindacale dell’Alta Moda (Chambre Syndicale de la Couture), organo collettivo decisionale di moda, di cui oggi fanno parte un centinaio di maison tra le più importanti al mondo – Balenciaga, Balmain, Jean Paul Gaultier, Versace, eccetera. Questo apparato, oltre a ciò, ha anche il potere di decidere chi può usare il termine “haute couture” e chi no, in base al rispetto dei requisiti di cui abbiamo parlato. 

Charles Frederick Worth muore nel 1895 e l’amministrazione della sua maison, la House of Worth, passa nelle mani della moglie Marie e del figlio Gaston. Il secondo figlio  Jean-Philippe, invece, segue le orme artistiche del padre: nel 1903 crea il celebre Peacock Dress per Mary Victoria Curzon, moglie del viceré d’India e dunque viceregina. La maison viene ufficialmente venduta alla casa di moda francese Paquin nel 1953.

Alta moda in mostra: gli abiti di Charles Frederick Worth al Petit Palais di Parigi

Dal 7 maggio al 7 settembre – ipotizziamo che la scelta del 7 sia dovuta al civico in cui aprì il suo atelier, il n.7 di rue de la Paix – nella splendida cornice del Petit Palais di Parigi ha luogo la prima mostra dedicata all’inventore della haute couture e alla sua maison House of Worth. Per l’occasione, si parla di oltre 400 oggetti provenienti dai più importanti musei del mondo, dal Palazzo Pitti di Firenze al Metropolitan di New York passando per il Victoria and Albert di Londra: quadri, accessori e soprattutto abiti disegnati e realizzati da Charles Worth risalenti al periodo storico compreso fra il Secondo Impero francese (1852-1870) e il primo Dopoguerra. 

Maggio crypto: un assaggio di ciò che trovi nei nostri Club

Un’anticipazione del nostro report crypto di maggio. Capitalizzazione del mercato crypto in crescita del 20% e il nuovo massimo storico di Bitcoin

Maggio ha acceso i motori del mercato crypto, ma la vera destinazione è ancora tutta da scoprire. Con una crescita complessiva di oltre il 20% e la capitalizzazione di mercato che ha superato i 3,26 trilioni di dollari, il segnale è forte e chiaro: la fiducia sta tornando. 

Bitcoin ha toccato un nuovo massimo storico, spinto anche dai continui flussi sugli ETF spot da parte degli istituzionali. Ma attenzione, non è ancora tempo di euforia generale: il mercato totale è sotto il suo ATH e le altcoin stanno solo ora iniziando a scaldarsi. Questo è solo un piccolo assaggio di quello che analizziamo nel dettaglio nel nostro Market Report completo, disponibile in esclusiva per i membri dei nostri Club.

Il mercato crypto di maggio: ottimismo primaverile

Il mese di maggio ha visto la capitalizzazione totale del mercato crypto (TCMC) schizzare verso l’alto, con un incremento superiore al 20%. Un segnale di ritrovata fiducia, sostenuto dall’interesse istituzionale e da un contesto macro che, nonostante le turbolenze globali, sembra favorire gli asset alternativi come Bitcoin. E mentre il Re delle crypto ha toccato un nuovo massimo storico il 22 maggio, il mercato nel suo complesso suggerisce che siamo in piena “Bitcoin season”. Ma cosa significa questo per le altcoin? Potrebbe aprirsi presto una finestra per loro?

Nel nostro report completo approfondiamo:

  • L’analisi tecnica della TCMC.
  • Il perché le altcoin sono ancora in attesa e quando potrebbero partire.

Non solo Bitcoin: Ethereum e le sorprese del mese

Se Bitcoin ha dominato la scena, altri protagonisti non sono stati a guardare. Ethereum ha mostrato i primi concreti segnali di ripresa, sostenuto dall’attesa per l’aggiornamento “Pectra” e dal suo ruolo chiave nella tokenizzazione. Ma la vera star tra le altcoin di maggio è stata AAVE, che ha brillato con un quasi +60%, spinta dalla narrativa DeFi e da importanti novità normative sulle stablecoin. Persino Dogecoin ha detto la sua con un +13%, alimentato da voci su un possibile ETF.

Nel report completo troverai:

  • Analisi dettagliata di ETH, del rapporto ETH/BTC e dei dati on-chain come l’accumulo da parte delle “whale”.
  • Focus su AAVE: analisi tecnica, motivazioni del rialzo e il suo peso nella DeFi.
  • Un’occhiata a DOGE e all’impatto delle news sul suo Open Interest.

Dietro le quinte: cosa dicono i dati on-chain e il sentiment

Guardare solo i prezzi non basta. I dati on-chain per Bitcoin raccontano una storia interessante: pochi nuovi indirizzi retail, ma un forte accumulo da parte degli holder di lungo periodo e degli istituzionali. E Google Trends? L’interesse per Bitcoin è ai minimi, nonostante il prezzo vicino ai massimi. Un paradosso? O un segnale che la crescita attuale è più solida e meno guidata dalla FOMO?

Il report completo esplora:

  • Il significato del basso numero di nuovi indirizzi BTC.
  • La dinamica tra short-term e long-term holder.
  • Storie incredibili come quella del trader James Wynn.

Il mondo là fuori: perché la macroeconomia è cruciale

Viviamo in un’epoca di forte incertezza globale: dalle politiche commerciali di Trump all’inflazione che non molla la presa, fino alle mosse della Federal Reserve. In questo scenario, Bitcoin e le crypto emergono sempre più come “asset alternativi”. Comprendere il contesto macroeconomico è fondamentale, ed è per questo che ai membri dei nostri Club offriamo analisi dedicate.

Questo è solo un assaggio delle analisi e degli insight che troverai nel Market Report crypto completo di Maggio. Vuoi capire a fondo le dinamiche di mercato, scoprire le analisi tecniche dettagliate, i dati on-chain che fanno la differenza, leggere le storie più calde come quella di James Wynn e avere una visione chiara del contesto globale grazie anche al nostro report macroeconomico dedicato?

Entra ora nei Club Silver, Gold o Platinum di Young Platform! Avrai accesso immediato al report crypto di maggio, al report macroeconomico e a tutti i contenuti esclusivi pensati per darti gli strumenti per navigare il mercato con consapevolezza.

Che succede tra Elon Musk e Donald Trump?

Che succede tra Elon Musk e Donald Trump?

Elon Musk e Donald Trump, una volta amiconi, ora si scannano a suon di tweet al vetriolo. Cosa è successo tra i due? Come hanno reagito i mercati?

Che succede tra Elon Musk e Donald Trump? In questo articolo ricostruiremo gli eventi degli ultimi giorni che hanno portato il Tony Stark sudafricano e il 47esimo Presidente degli Stati Uniti dall’essere inseparabili come pizza e birra a scontrarsi senza esclusione di colpi. Ci occuperemo anche della reazione dei mercati, influenzati da questa rottura. Partiamo! 

Una rottura (quasi) improvvisa

Ciò che sta succedendo nelle ultime ore tra Elon Musk e Donald Trump, un botta e risposta via social dal sapore neanche troppo velatamente trash, sta catalizzando l’attenzione dei media di tutto il mondo a causa del suo carattere tanto violento quanto inaspettato. Per molti questo dissing è un fulmine a ciel sereno, un colpo di scena tale da tenerti incollato coi popcorn su X ad aggiornare in attesa di nuovi tweet. E non senza ragione: il ricordo di un Elon Musk con gli occhi a cuore per Donald Trump, sia in campagna elettorale che nei primi cinque mesi di mandato, è ancora vivo nella nostra mente.

Il patron di Tesla infatti, nei mesi precedenti alle elezioni presidenziali, ha supportato il candidato repubblicano a botte di donazioni – circa 300 milioni di dollari secondo le stime – e di endorsement divisi fra interviste e post su X. Anche durante i primi mesi di mandato, Musk ha partecipato attivamente all’amministrazione Trump istituendo il DOGE (Department of Government Efficiency), un apparato finalizzato alla riduzione degli sprechi pubblici e all’efficientamento della macchina governativa. Il 7 febbraio, poi, il Tony Stark dei tempi nostri pubblicava questo tweet: “Amo @realDonaldTrump tanto quanto un uomo etero può amare un altro uomo”. Insomma, non proprio la cronaca di una morte annunciata, per citare García Márquez. Tuttavia, in questo rapporto idilliaco già emergevano le prime ostilità. 

I primi scricchiolii: Elon Musk non è troppo d’accordo sui dazi trumpiani

Il 2 aprile, nel giorno trionfalmente definito “Liberation Day”, Donald Trump annuncia al mondo i dazi doganali. Ma Elon Musk è un tecno-capitalista, avverso alla burocrazia e forte sostenitore del libero mercato: già il 5 aprile, in occasione del Congresso della Lega a Firenze, in collegamento video con un Matteo Salvini visibilmente emozionato, aveva affermato di sperare in una partnership commerciale molto stretta fra Stati Uniti ed Europa, fondata su una “situazione di zero dazi nel futuro, verso una zona di libero scambio”. 

Qualche giorno dopo, l’8 aprile, aveva attaccato frontalmente Peter Navarro, principale consulente commerciale di Donald Trump nonché mente strategica dietro i dazi globali e la guerra commerciale con la Cina: “Navarro è davvero un idiota. Quello che dice qui è dimostrabilmente falso”, in riferimento ad alcune sue dichiarazioni relative a Tesla. Che poi, per fare una piccola parentesi, il dottor Musk potrebbe non avere tutti i torti, dal momento che Navarro ha giustificato la necessità di una trade war contro la Cina citando Ron Vara, un economista che non esiste. Come lo sappiamo? Perché Ron Vara è l’anagramma di Navarro, si auto-citava. Ma torniamo a noi. Il 22 aprile, in occasione della conferenza per le trimestrali di Tesla, Elon Musk ha dichiarato che, secondo lui, tariffe doganali più basse, così come il libero scambio delle merci, “sono generalmente una buona idea”. Nello stesso intervento, poi, ha comunicato agli investitori che avrebbe lasciato il DOGE a maggio. 

L’inizio dello scontro: il One Big Beautiful Bill Act

Il casus belli, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, sarebbe legato al giudizio di Elon Musk  – cioè “disgustoso abominio” – nei confronti del One Big Beautiful Bill Act (OBBBA), un’imponente legge che mira a estendere i tagli fiscali del primo mandato Trump e che aggiungerebbe, in dieci anni, circa 3.000 miliardi (3 trilioni) di dollari al debito pubblico americano, già spaventosamente alto (circa 36,4 trilioni di dollari). Questa incredibile quantità di denaro verrebbe recuperata tagliando i finanziamenti al welfare, all’istruzione e ai programmi di protezione ambientale contenuti nell’Inflaction Reduction Act di Joe Biden. Quest’ultimo punto è interessante, dato che andrebbe a penalizzare in primis Tesla eliminando i sussidi ai veicoli elettrici – circa 7.500$ a macchina – che Musk, però, sembra trascurare. 

Il giorno caldo è giovedì 5 giugno. Donald Trump ospita il cancelliere tedesco Friedrich Mertz nello Studio Ovale della Casa Bianca e si definisce “molto deluso” da Elon Musk, aggiungendo che avevano “un bel rapporto” che non si sa se continuerà. Inizia la pioggia di tweet. 

Musk risponde “Pazienza” e fa notare che senza di lui non avrebbe vinto le elezioni, “quanta ingratitudine”, commenta. Trump risponde affermando di averlo cacciato dall’incarico amministrativo e conclude il post con “è IMPAZZITO!”. Minaccia poi di cancellare i contratti governativi a Musk, fondamentali per aziende come SpaceX, come risposta alle critiche. Musk risponde in modo altrettanto duro e chiede l’impeachment– un’accusa formale a un alto funzionario pubblico, in questo caso Trump, finalizzata alla sua rimozione – e posta un altro tweet devastante: “È il momento di sganciare la vera bomba: @realDonaldTrump è nei file su Epstein. Questa è la vera ragione per cui non sono stati resi pubblici”. 

Adesso, il “peggio” sembra passato e, apparentemente, i due sembrano intenzionati a seppellire l’ascia di guerra. Nella mattinata italiana di venerdì 6 giugno, dalla Casa Bianca hanno fatto sapere che Mimì e Cocò avrebbero organizzato una telefonata di riconciliazione per chiarire quanto accaduto. Inoltre Bill Ackman, noto gestore di hedge fund americano, in un tweet ha suggerito ai due di “fare pace per il bene del Paese”. Elon Musk ha risposto con un secco “Non hai torto”. 

Come hanno reagito i mercati allo scontro tra Elon Musk e Donald Trump?

La grande osservata è naturalmente Tesla, sia perché ormai viene considerata l’estensione di Elon Musk sia perché, come abbiamo visto prima, il suo futuro è direttamente collegato alle politiche anti-ambientaliste di Donald Trump. Nella giornata di giovedì 5 giugno, infatti, il colosso americano delle auto elettriche è arrivato a perdere più del 15% in una sola seduta, passando dai 322,7$ ad azione ai 272,4$, per poi recuperare leggermente e attestarsi – al momento in cui scriviamo – sui 292,5$. Allo stesso modo l’S&P500, che contiene Tesla all’interno del paniere, lo stesso giorno è sceso di circa 1,3 punti percentuali, ma già nella giornata di venerdì 6 ha assorbito la perdita finendo addirittura in territorio positivo (+0,3% rispetto al bottom toccato giovedì). Lo stesso pattern si ripete un po’ per tutti i principali indici americani. 

Nel mercato delle criptovalute la situazione è un po’ più complessa, dato che Elon Musk e Donald Trump insieme erano considerati un po’ i crypto brothers o comunque celebrità crypto-friendly, come testimoniato dall’accordo tra Fidelity e World Liberty Finance e dall’associazione sempre più solida Musk-Dogecoin – ricordiamoci che nel governo USA esiste un apparato che si chiama letteralmente DOGE. In ogni caso, durante la scaramuccia social, Bitcoin ha perso più del 4% ma ha subito colmato il gap una volta toccato il supporto dei 100k, ritornando sulla soglia dei 104.500$. Discorso diverso per Ethereum che, dopo aver perso l’8,4% circa nella giornata di giovedì, è riuscita a riprendere solo metà di quanto perso, fermandosi intorno ai 2.500$. Invece, Solana ha replicato i movimenti di BTC poiché è scesa dai 153,2$ ai 141$, per poi tornare alla quota attuale di 151,7$. In ultimo, bella botta per il token del POTUS, TRUMP, che ha messo a segno un -13,7% giovedì, tentando il recupero disperato il giorno successivo, senza successo – poco più del 2%. Per concludere, gli eventi di giovedì 6 hanno fatto uscire circa 20 miliardi dal mercato, con la Total Market Cap che scende dai 3,24 trilioni di dollari ai 3,22 toccando, però, la cifra di 3,1 trilioni

Se non vuoi perderti altro drama (la maggior parte delle volte siamo seri), iscriviti ai nostri canali Telegram e Whatsapp, o direttamente qua sotto!