I dazi di Trump bloccati: la reazione dei mercati

I dazi di Trump bloccati: la reazione dei mercati

I dazi imposti da Donald Trump nel Liberation Day sono stati bloccati dalla Corte federale del commercio americano: come hanno reagito i mercati?

I dazi annunciati da Donald Trump nel Liberation Day del 2 aprile sono stati dichiarati illegali nella notte italiana tra mercoledì 28 e giovedì 29 maggio. A emettere la sentenza, la Corte federale del commercio americano. Dall’altro lato, l’amministrazione Trump ha già dichiarato il ricorso in appello. Nell’attesa di capire cosa succederà, come hanno reagito i mercati alla notizia?    

I dazi di Donald Trump dichiarati illegali: la sentenza

La U.S Court of International Trade (USCIT), un tribunale federale che si occupa di gestire le cause civili legate all’importazione e al commercio internazionale, ha bloccato i dazi introdotti dal Presidente degli Stati Uniti. Le motivazioni risiedono principalmente nel fatto che Donald Trump non avrebbe l’autorità per imporre i dazi in modo autonomo, cioè senza passare per il Congresso: il Parlamento americano, infatti, è l’organo istituzionale che, secondo la Costituzione, ha il potere di autorizzare o meno le tariffe doganali. The Donald, invece, ha saltato questo passaggio invocando lo IEEPA (International Emergency Economics Power Act), una legge del 1977 che conferisce al Presidente il potere di regolamentare il commercio in risposta a minacce che possano costituire un’emergenza nazionale.

Il problema principale, secondo l’interpretazione della Corte, è lo IEEPA non concede automaticamente poteri illimitati al Presidente e, pertanto, ha deciso di annullare i dazi doganali del 2 aprile. Nello specifico, nella sentenza si legge che le tariffe “vanno oltre qualsiasi autorità concessa al Presidente dall’IEEPA per regolamentare le importazioni”. Inoltre, la USCIT ha giudicato illegali anche gli oneri doganali imposti nei confronti di Canada, Cina e Messico finalizzati al contrasto del fentanyl perché “non ci sarebbe connessione fra l’imposizione dei dazi e le minacce insolite e straordinarie che i provvedimenti contro il traffico di droga dichiarano di voler contrastare”. Subito dopo la sentenza, l’amministrazione Trump ha annunciato il ricorso alla Corte d’Appello

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La reazione dei mercati

La decisione della USCIT è stata accolta con favore dalla Borse europee, che aprono in verde e – al momento in cui scriviamo – sembrano decise a continuare in questo modo: il CAC 40 di Parigi guadagna lo 0,73%, il DAX di Francoforte lo 0,42% e Il FTSE MIB di Milano registra un +0,45%. In controtendenza il FTSE 100 di Londra, giù dello 0,11%. Molto bene anche i listini asiatici, che hanno chiuso tutti in rialzo: Tokyo ha messo a segno un +1,88%, Shenzhen un +1,33%, Hong Kong sale dello 0,9% così come Shanghai, in rialzo dello 0,7%. Anche le Borse USA sembrano contente della decisione della Corte, coi futures di Wall Street che salgono di oltre l’1%

Il mercato crypto si unisce al trend con Bitcoin su di circa 2000$ a 108.600$, Ethereum mette a segno un +4,3% rispetto alla giornata di ieri e viaggia intorno ai 2.730$, mentre Solana approfitta del momento per recuperare qualcosa dal crollo di ieri, toccando quota 175$ per poi scendere e – per ora – stabilizzarsi sui 172$. Il clima è comunque molto positivo, perché la sospensione “ufficiale” dei dazi potrebbe portare molta liquidità al nostro mercato preferito. 

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Donald Trump e i dazi: la verità ti fa male, lo so

Donald Trump e i dazi: la verità ti fa male, lo so

Il Presidente USA Donald Trump ha sostenuto i dazi con dichiarazioni spesso false o inesatte. Qui vedremo quelle più clamorose. Buon divertimento!

Il Presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump ha fondato la sua campagna elettorale sulla necessità di rendere l’America grande ancora – Make America Great Again – e lo ha fatto a suon di slogan e frasi ad effetto come “America First!” e “ritorno all’Età dell’Oro”. I dazi commerciali, imposti poi revocati poi ripristinati, sono frutto di questa strategia e vengono giustificati a colpi di dichiarazioni di grande impatto. Il problema è che molte di queste sono totalmente infondate. Via al fact checking!

Donald Trump quando parla di Stati Uniti tende a gonfiare le cifre

Donald Trump è un fiero americano e, come tale, è incline ad ingrandire tutto ciò che riguarda gli Stati Uniti d’America, numeri compresi. Prendiamo in esame qualche fiammata sovranista: 

  • L’accordo di Parigi sul clima è costato agli Stati Uniti “trilioni di dollari che gli altri paesi non stavano pagando”. In occasione del Congresso del 4 marzo 2025, Donald Trump ha giustificato così l’uscita dall’Accordo di Parigi sul clima: falso, gli Stati Uniti non hanno mai destinato somme neanche lontanamente simili all’Accordo. Joe Biden, al momento dell’insediamento, aveva promesso di stanziare circa 11 miliardi all’anno, cifra in seguito ridimensionata. 
  • Honda ha appena annunciato un nuovo stabilimento in Indiana, uno dei più grandi al mondo”. Sempre in occasione del Congresso del 4 marzo 2025, il Presidente USA ha dichiarato in tono trionfale la costruzione di un nuovo polo industriale da parte del colosso giapponese: falso, Honda aveva espresso l’intenzione di costruire la nuova Honda Civic in Indiana piuttosto che in Messico, come riportato da Reuters, senza dare conferma di quanto detto sopra.  
  • Gli Stati Uniti stanno incassando 2 miliardi di dollari al giorno dai dazi doganali”. Dichiarazione dell’8 aprile 2025, durante il discorso ai lavoratori dell’industria del carbone: falso, la cifra è nell’ordine delle centinaia di milioni, non di miliardi e, soprattutto, i dazi sono a carico degli importatori americani, non degli esportatori stranieri.  
  • Stavamo perdendo 2 trilioni di dollari all’anno sul commercio”. Frase detta da Donald Trump il 22 aprile 2025 durante un’intervista per il Time nella Casa Bianca. Qui, il POTUS si riferisce al deficit commerciale degli Stati Uniti col resto del mondo prima del suo arrivo: falso, nel 2024 lo squilibrio ammontava a circa 918 miliardi di dollari, nel 2023 a 773 miliardi, nel 2022 a 945 miliardi e così via. 
  • Ho siglato 200 accordi”. Il 25 aprile 2025, nella stessa intervista al Times, alla domanda “Non ne è stato annunciato neanche uno (accordo commerciale, ndr). Quando li annuncerete?” Donald Trump ha risposto con un secco “Ho chiuso 200 accordi”: falso, non c’era – e non c’è – alcuna prova che possa validare questa affermazione.

Donald Trump e Unione Europea: non proprio amore a prima vista

Che il Presidente degli Stati Uniti d’America non provi eccessiva simpatia nei confronti del Vecchio Continente è cosa nota: proprio recentemente ha confermato questa “leggera” antipatia alzandoci i dazi al 50%. Vediamo perché: 

  • Non comprano le nostre macchine, non comprano il nostro cibo. Non comprano nulla”. Domenica 6 aprile 2025, Donald Trump ha dichiarato ai giornalisti a bordo dell’aereo presidenziale Air Force One che l’Unione Europea fondamentalmente se ne approfitterebbe degli USA: falso, solo nel 2024, l’UE ha importato dagli Stati Uniti beni per quasi 650 miliardi di dollari. Non proprio spiccioli. 
  • Non prendono i nostri prodotti agricoli”. Sempre in quel 6 aprile, il POTUS ci ha accusato di non comprare beni e merci per l’agricoltura: falso, come riporta lo stesso governo USA, nel 2024 l’Unione Europea ha speso quasi 13 miliardi di dollari (+1% rispetto al 2023) in derrate agricole. Ci piace molto la frutta secca (con guscio) americana.
  • Mettono delle barriere che rendono impossibile vendere un’auto. Non è questione di soldi. È che rendono tutto così difficile: gli standard, i test. Ti lasciano cadere una palla da bowling sul tetto dell’auto da sei metri d’altezza. E se c’è una piccola ammaccatura, ti dicono: Mi dispiace, la tua auto non è idonea”. Questa è veramente stupenda. Lunedì 7 aprile 2025, bilaterale col primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: falso, non c’è nessun controllo di sicurezza simile in Europa e, soprattutto, non c’è scritto da nessuna parte che un danno minore possa far fallire il test all’auto. 
  • L’Unione Europea è stata creata con lo scopo di sfruttare gli Stati Uniti d’America”: falso. Il 10 aprile 2025, Donald Trump è protagonista di una sparata talmente vaga da essere difficile da confutare. In ogni caso, numerosi studiosi – soprattutto storici ed economisti – sono rimasti spiazzati di fronte a questa dichiarazione. John O’Brennan, importante professore di Integrazione Europea, Politica dell’Unione Europea e Relazioni Internazionali, ha affermato che questa uscita “non potrebbe essere più sbagliata o inaccurata”. E come lui molti altri.

Dalla Cina con furore

Che americani e cinesi non vadano d’amore e d’accordo è risaputo. Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, dal suo insediamento, ha rincarato la dose con una guerra commerciale a base di dazi estremi poi sospesi. Esaminiamo qualche suo recente esercizio di ginnastica mentale:

  • Abbiamo avuto enormi deficit con la Cina. Biden ha lasciato che la situazione sfuggisse di mano. Sono deficit per 1,1 trilioni di dollari; ridicoli, ed è semplicemente una relazione ingiusta”. È il 23 gennaio 2025 e siamo al meeting annuale del World Economic Forum di Davos quando dagli altoparlanti si diffondono queste parole: falso. I fact checkers indicano che nel 2023 effettivamente il deficit commerciale degli Stati Uniti complessivamente viaggiava su quella cifra. Donald Trump, però, si dimentica un dettaglio importante: il deficit di 1,1 trilioni di dollari riguarda tutto il mondo, non solamente la Cina, e considera solo i beni senza includere i servizi nel calcolo. 
  • Abbiamo un deficit con la Cina di più di un trilione di dollari”. L’ha affermato The Donald in un’intervista alla Fox News Radio del 21 febbraio 2025: falso. Come riportato dal B.E.A. (Bureau of Economic Analysis), nel 2024 il deficit commerciale si aggirava sui 263 miliardi di dollari, nel 2023 la cifra era prossima ai 252 miliardi. Insomma, ha sbagliato di circa 730 miliardi di dollari.
  • La Cina “non ha mai pagato neanche 10 centesimi a ogni altro Presidente americano”. Liberation Day, mercoledì 2 aprile 2025. Donald Trump annuncia per la prima volta i dazi e trova il tempo per sparare un’altra pallottola propagandistica. Con ciò, il POTUS intendeva dire che prima di lui, i cinesi erano liberi di commerciare a gratis con gli Stati Uniti: falso, nel 1792 Alexander Hamilton, allora Segretario al Tesoro USA, propose la Tariff Act – nota anche come Hamilton Tariff – per incentivare il consumo di merci prodotte internamente. 

The Donald: l’erba del vicino è sempre più verde

Chiudiamo questa rassegna di acrobazie retoriche coi vicini di casa degli Stati Uniti: Canada e Messico. Queste tre grandi nazioni hanno da sempre rapporti commerciali molto stretti, ufficializzati da vari accordi tra cui il NAFTA (North American Free Trade Agreement) e l’USMCA (United States Mexico Canada Agreement). 

  • Gli Stati Uniti hanno “200 miliardi di deficit col Canada”. Lo ha sottolineato più volte il 7 gennaio 2025, in occasione di una conferenza stampa nella sua casa di Mar-a-Lago: falso. Sempre i dati del B.E.A. ci dicono che nel 2024 lo squilibrio tra import ed export col Canada ammontava a 35,7 miliardi di dollari.
  • Il Canada è “UNA DELLE NAZIONI COI DAZI PIÙ ALTI AL MONDO”. Tutto maiuscolo perché Donald Trump, su Truth, scrive spesso in caps lock. L’11 marzo 2025 pubblica questo statement: falso, come riportato anche dalla Banca mondiale, che mette il Canada nella 102esima posizione su 137 paesi per tariffa media ponderata su tutti i prodotti. Questo indicatore riflette la media delle tasse sulle importazioni, calcolata tenendo conto di – ponderando – quanto vengono importati i diversi prodotti.
  • Il Canada non permette alle banche americane di fare affari in Canada, ma le loro banche invadono il mercato americano. Oh, mi sembra proprio giusto, vero?” scriveva su Truth il 4 marzo 2025: falso, il Canada non vieta la presenza di banche straniere, men che meno americane. Recentemente hanno irrigidito la regolamentazione, ma istituzioni bancarie come Bank of America, Citigroup e Wells Fargo operano sul suolo canadese da più di cento anni.
  • Abbiamo un deficit commerciale col Messico di 200 miliardi di dollari”. Il Presidente degli USA lo ha affermato il 9 febbraio 2025, durante un’intervista per Fox News: falso, sempre i dati del B.E.A. del 2024 indicano un disavanzo commerciale pari a circa 180 miliardi di dollari, la metà di quanto detto da Trump.

Insomma, abbiamo analizzato solo un decimo delle falsità che il 48esimo Presidente degli Stati Uniti d’America ha avuto modo di inventare durante questi primi cinque mesi di mandato. Conoscere i dati è importantissimo e ti permette di parlare con cognizione di causa, evitando delle figuracce epocali e imbarazzanti. 

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Rapporto ISTAT 2025: come sta l’Italia oggi?

Rapporto ISTAT 2025: come sta l’Italia oggi?

Il rapporto annuale ISTAT 2025 offre una fotografia del quadro economico, demografico e sociale dell’anno appena trascorso. Cosa ci dicono i dati?

Il rapporto annuale ISTAT del 2025 analizza ed elabora i dati del 2024, descrivendo la situazione dal punto di vista dei cambiamenti della popolazione italiana, dell’economia e dell’assetto sociale e sociali. Nello specifico, esamina i punti di forza e di debolezza del nostro Paese, concentrandosi sulla dimensione macroeconomica e sul profilo della popolazione italiana a livello di demografia, istruzione e redditi da lavoro. A che punto siamo? 

Popolazione italiana e società: il quadro demografico

Nel Rapporto annuale del 2025, l’ISTAT ci dice che il trend negativo di calo della popolazione in Italia prosegue. La causa principale risiede nel saldo naturale (nascite meno decessi) fortemente negativo. In particolare, le nuove nascite nel 2024 ammontavano a 370.000, circa 200.000 in meno rispetto al 2008, con un tasso di fecondità al minimo storico di 1,18 figli per donna. A questo, bisogna aggiungere i 156.000 italiani emigrati all’estero e il fenomeno della “fuga di cervelli”: in dieci anni, 97.000 giovani laureati, compresi nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni, hanno scelto di vivere all’estero. Il saldo migratorio, con 435.000 nuovi ingressi nel 2024 (+20,5% rispetto al 2023) non basta per compensare le perdite. In ogni caso, l’Italia resta uno dei paesi più longevi al mondo, con un quarto dei residenti che ha più di 65 anni (il doppio rispetto ai minori di 15 anni), 4,6 milioni di ultraottantenni e 23.500 ultracentenari. Le previsioni per il futuro confermano queste traiettorie. 

Infatti, riprendendo l’ultima rilevazione ISTAT – al 31 gennaio 2025 – relativa al bilancio demografico, in Italia la popolazione residente ammonta a 58.924.313 persone, un numero inferiore di circa 10.000 unità rispetto all’inizio dell’anno. Le nascite a gennaio 2025 si aggirano intorno alle 31.000 unità, in calo del 6% rispetto a gennaio 2024, mentre i decessi sono 66.000, una cifra inferiore dello 0,4% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. 

In sintesi, i dati aggregati del Rapporto annuale ISTAT 2025 sulla popolazione in Italia – residente, sia italiana sia straniera – mostrano la seguente composizione demografica: 

  • 0-20 anni: 17,8% 
  • 21-45 anni: 31.3%
  • 46-70 anni: 38,8%
  • 71- 100 e più: 12,1% 

Le previsioni per il futuro, come anticipato, confermano questi trend: si stima che in Italia, la popolazione residente sarà pari a

  • 58,6 milioni a gennaio 2030
  • 54,8 milioni a gennaio 2050
  • 46,1 milioni a gennaio 2080  

 Composizione delle famiglie italiane e natalità 

A quanto si legge, le tendenze descritte sono causa e conseguenza di dinamiche demografiche strutturali: le famiglie monopersonali superano il 35%, mentre le coppie con figli scendono al 28,2%. I matrimoni sono in calo da quarant’anni, dal momento che si passa dai 400.000 e oltre degli anni Settanta ai 184.207 del 2023. Ciò è dovuto sia al crollo della natalità, che banalmente riduce il numero di adulti, sia a cambi di natura sociologica, con le unioni libere sempre più diffuse anche in caso di figli. Inoltre, due terzi dei giovani tra i 18 e 34 anni vive ancora coi genitori, contro la media europea del 49,6%. 

Per quanto riguarda la natalità, il Rapporto mette a confronto la generazione delle madri (nate cioè nel 1958) con le attuali quarantenni, evidenziando come la quota delle donne senza figli sia raddoppiata, dal 13% al 26% stimato, con un picco nel Sud Italia di tre donne su dieci. Infine, il primo figlio arriva in età sempre più avanzata: dai 25,9 anni per le donne nate nel 1960 ai 29,1 anni per quelle del 1970, con ritardi ancora più marcati per le generazioni più giovani. 

Economia italiana: cosa ci dicono i dati?

Il Rapporto annuale ISTAT 2025 comincia col resoconto del quadro macroeconomico italiano, cioè con la descrizione complessiva dello stato di salute e delle prospettive dell’economia dell’Italia. Secondo quanto rilevato dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT, appunto), l’economia italiana nel 2024 ha continuato a crescere in modo lento ma graduale, nonostante la situazione europea attuale non sia delle più dinamiche: come nel 2023, il PIL (Prodotto Interno Lordo) è aumentato dello 0,7%, meno rispetto a Francia (+1,2%) e Spagna (+3,2%), ma di più rispetto alla Germania (-0,2%). 

Le stime per il primo trimestre del 2025 vedono una crescita congiunturale dello 0,3%, che corrisponde ad una crescita annua acquisita dello 0,4%. Nel caso in cui ti stessi chiedendo cosa significano queste due righe, per “crescita congiunturale” si intende la variazione percentuale del PIL rispetto al trimestre precedente, mentre la “crescita annua acquisita” ci dice quale sarebbe il risultato a fine anno se l’economia restasse immobile. Unite, queste due misure servono a tracciare un quadro economico complessivo che consideri il brevissimo periodo (trimestre) e l’anno in corso. Sempre per fare un paragone, l’andamento congiunturale italiano è stato superiore a Germania e Francia (+0,2% e +0,1%) ma inferiore alla Spagna (+0,6%). 

Il Rapporto segnala una buona spinta da parte della componente nazionale – formata da consumi nazionali e investimenti – con calo della domanda estera. Questa contrazione è dovuta alla forte incertezza causata dal contesto geopolitico attuale e dalle misure protezionistiche, imposte e poi sospese, dell’amministrazione statunitense. Per queste ragioni, ci dice l’ISTAT, le previsioni per l’Italia da parte delle varie istituzioni nazionali e internazionali vedono un rallentamento dell’espansione economica nel 2025, al pari delle altre economie avanzate. Il saldo della bilancia commerciale, cioè la differenza tra export e import, nel 2024 è salito fino a 55 miliardi di euro, rispetto ai 34 miliardi del 2023. 

In che stato è il mercato del lavoro?

Secondo l’ISTAT, nel 2024 il numero degli occupati è cresciuto di molto (+1,5%), sostenuto dai contratti a tempo indeterminato, mentre si è ridotta del 6,8% la fetta dei contratti a termine. Inoltre, nel Q1 del 2025, gli occupati sono aumentati dello 0,7% rispetto a dicembre e dell’1,9% – 450.000 nuovi contratti – rispetto a marzo 2024. In ogni caso, a fine 2024, il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni si attesta al 62,2% (23,9 milioni di persone): un buon numero, anche se di molto inferiore a quello della Germania (circa il 77%) e lievemente più ridotto rispetto a quello di Francia (69%) e Spagna (66%). 

Come abbiamo anticipato, il contratto a tempo pieno e indeterminato domina e riguarda il 63% dei lavoratori, con un aumento del 2,1% rispetto al 2023 e del 4,8% rispetto al 2019. Tuttavia, nel 2024, il Rapporto segnala che il 30% delle donne lavora in part-time e che spesso, non è una scelta. 

Finanza pubblica e bilancio dello Stato

Come si valuta lo stato della finanza pubblica? Col saldo primario, quindi calcolando la differenza fra spese dello Stato (al netto degli interessi sul debito, ovvero togliendo da questa cifra gli interessi sui titoli di stato come i BTP) ed entrate dello Stato. Il risultato può essere positivo, l’avanzo primario, o negativo, cioè il disavanzo primario. Il Rapporto annuale dell’ISTAT ci comunica che, nel 2024, la finanza pubblica è migliorata in modo significativo: il saldo primario è positivo per la prima volta dal 2019 a causa dell’aumento delle entrate, quindi delle tasse, e della minima riduzione delle uscite, dunque della spesa pubblica. Tuttavia, il rapporto fra debito pubblico e PIL sale di 0,7 punti percentuali, dal 134,6% al 135,3%.

La situazione sul versante prezzi e retribuzioni

Questa sezione inizia con una buona notizia: nel 2024 si è consolidato il processo di disinflazione. Il Rapporto indica che l’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato per i paesi europei (IPCA, una metrica che serve a standardizzare le metodologie di misurazione dell’inflazione dell’Eurozona) è passato dal 12,6% annuo dell’ottobre 2022 all’1,1% nel 2024, il valore più contenuto tra le grandi economie europee. Le proiezioni per il 2025, però, vedono un leggero incremento: i prezzi sono tornati a salire in modo moderato nei primi mesi di quest’anno. 

Il discorso non è così roseo quando si parla di retribuzioni nominali. Rispetto a gennaio 2019, a causa del boom inflazionistico causato da Covid e guerre, nel 2022 la perdita di potere d’acquisto per un lavoratore era superiore al 15%, mentre a marzo 2025 è pari al 10%. In altre parole, significa che a marzo scorso, con uno stipendio di 1500€, compravi quello che nel gennaio 2019 costava 1350€. Il Rapporto poi tratta la retribuzione lorda di fatto, in quanto indicatore migliore per calcolare realmente la perdita o il guadagno di potere d’acquisto. La differenza con la retribuzione nominale è nel considerare come parte dello stipendio anche gli extra, tra cui bonus, straordinari, tredicesima, quattordicesima e via dicendo. Considerando questo parametro, allora la perdita di potere d’acquisto dal 2019 al 2024 risulta più contenuta: 4,4% in Italia, 2,6% in Francia e 1,3% in Germania. La Spagna, in controtendenza, guadagna il 3,9%.  

Il nodo della produttività

La produttività è un fattore cruciale perché misura l’efficienza con cui si producono beni o servizi: indica quanto output si riesce ad ottenere utilizzando una certa quantità di input. Detto in parole semplici, ci spiega quante risorse umane o materiali – input – sono necessarie per la realizzazione del prodotto finale – output. La regola aurea, naturalmente, è produrre di più sprecando di meno. Per capire come l’aumento della produttività si rifletta sul miglioramento dell’economia di un paese, può essere utile il classico esempio dell’artigiano: un artigiano costruisce una sedia in 6 ore e la vende a 50€. A un certo punto decide di investire dei soldi per comprare un macchinario. Ora produce due sedie nello stesso tempo e guadagna il doppio. L’artigiano quindi spende meno in termini di ore lavorate per sedia, può abbassare i prezzi, accrescere la clientela e assumere dipendenti proprio perché vende di più. Potrà poi reinvestire i profitti in altri macchinari o in altri dipendenti, in un circolo virtuoso che, moltiplicato per il numero di aziende, contribuisce all’espansione dell’economia nazionale. 

Il Rapporto annuale dell’ISTAT, purtroppo, ci dice che il sistema produttivo italiano presenta delle criticità strutturali come la dimensione delle imprese, la specializzazione e l’innovazione delle produzioni, che hanno un effetto frenante sull’espansione economica. Nello specifico, nel 2024 la crescita dell’occupazione è stata superiore a quella del valore aggiunto. Per valore aggiunto, si intende la nuova ricchezza creata da un’attività produttiva – la nazione Italia in questo caso – in un determinato momento. Cosa succede se l’artigiano assume dipendenti ma non incrementa le vendite? Esattamente il contrario di quanto detto nell’esempio. Infatti, l’ISTAT scrive che lo squilibrio fra occupazione e valore aggiunto ha provocato una diminuzione della produttività dell’ora lavorata dell’1,4%. L’effetto a catena di questo fenomeno provoca il rallentamento dell’economia in generale. 

Sistema economico e generazioni: la panoramica

L’ultimo capitolo del Rapporto annuale ISTAT 2025 indaga i mutamenti che si sono verificati nella popolazione nel corso degli anni al cambiare del sistema economico.

Evoluzione delle categorie occupazionali negli anni

Come abbiamo già riportato, l’ISTAT ci mette in guardia sulle carenze strutturali legate alla bassa produttività e alle sue conseguenze. Negli ultimi venti anni, infatti, sono cresciute le possibilità di occupazione ma non quelle di benessere economico, perché le nuove posizioni lavorative hanno riguardato soprattutto le attività ad alta intensità di lavoro e a ridotta produttività, come il settore della ristorazione. 

Tuttavia, dal Rapporto si legge anche che l’evoluzione del sistema economico italiano ha portato risultati positivi come l’aumento dell’occupazione qualificata, seppure con minore forza rispetto alle altre grandi economie europee. Precisamente, tra il 2000 e il 2024 la quota di tecnici e professionisti è passata da un quarto a un terzo – cioè circa il 33% –  del totale degli occupati, mentre in Spagna, Francia e Germania siamo, rispettivamente, sul 37%, 43% e 44%. Inoltre, questo trend ha riguardato anche i professionisti ICT (Information and Communication Technology), specialmente a partire dagli anni della pandemia: programmatori, data analyst e ingegneri informatici rappresentano una componente strategica per la competitività e l’innovazione dell’intera infrastruttura economica. Naturalmente, anche in questo settore siamo indietro rispetto agli altri paesi UE. 

Che ruolo ha l’istruzione?

L’istruzione, ovviamente, è una leva decisiva per l’accesso a lavori più qualificati e retribuiti ed è considerata la trasformazione più rilevante nel modificare le opportunità professionali delle diverse generazioni. Tradotto, ciò significa che, negli anni, il generale innalzamento del livello di istruzione ha ampliato l’accesso a migliori opportunità lavorative per un numero sempre maggiore di persone. Nel 1980, infatti, la metà dei giovani fra i 15 e i 24 anni già lavorava, mentre nel 2024, per lo stesso range di età, due terzi sono inattivi perché studiano o si formano professionalmente. Dagli anni Novanta, poi, la percentuale di laureati fra i 25 e i 34 anni è passata dal 7% a oltre il 30%, con le donne che raggiungono anche il 37,1%. In sintesi, nel Rapporto annuale dell’ISTAT si nota come gli individui che, al momento dell’ingresso del mondo del lavoro, avevano un livello di istruzione più elevato – o lo miglioravano in corso d’opera – avevano maggiori possibilità di beneficiare di salari più alti

Attenzione al contesto familiare di partenza

L’istruzione è una variabile determinante, ma spesso è una conseguenza della situazione di partenza. In parole semplici, questo vuol dire che i figli tendono a seguire le orme dei genitori: tra i giovani provenienti da famiglie in cui nessun genitore possiede un diploma, solo il 17,6% riesce ad ottenere un titolo di studio universitario, contro il 75% dei figli di genitori laureati. Ancora più grave, nel primo gruppo di giovani più di un terzo non arriva al conseguimento del diploma di maturità. 

Il fenomeno della mobilità intergenerazionale, definito come il cambiamento nella posizione socioeconomica di un individuo rispetto a quella dei suoi genitori, è limitato ma non assente: come si legge nel Rapporto, c’è un ruolo non trascurabile delle capacità e delle scelte individuali nel determinare il proprio percorso di vita. 

Chi innova in Italia? I giovani, che sono sempre di meno

Il Rapporto annuale ISTAT 2025 termina con un paragrafo dedicato ai giovani nel mondo dell’imprenditoria. Le rilevazioni registrano una quota importante di occupati sotto i 35 anni – che rappresentano il 24% della forza occupazionale – lavorare nelle imprese più dinamiche e di nuova creazione: nel 2022, il 36% di questi aveva un impiego in società con meno di 5 anni di vita e quasi il 40% operava nel settore dei servizi ad alta tecnologia. Infine, ci viene mostrata una correlazione tra capitale umano giovane, innovazione e successo dell’impresa. Entrando nel dettaglio, ma non troppo, la dotazione di risorse umane qualificate under 35 è risultata un fattore chiave che ha permesso alle imprese di digitalizzarsi con successo, innovare e mettere a segno migliori performance a livello di crescita e occupazione. 

Rapporto annuale ISTAT 2025: le conclusioni 

Il Rapporto annuale ISTAT 2025 si conclude con le parole di Francesco Maria Chella, Presidente dell’Istituto di Statistica. Chella parla di segnali economici positivi, come il calo dell’inflazione e l’aumento dell’occupazione, a cui si affiancano debolezze strutturali che frenano la crescita e minano lo sviluppo. Si concentra molto sulle giovani generazioni le quali, nonostante siano generalmente più istruite, si ritrovano ad affrontare redditi e opportunità lavorative inferiori – quantitativamente e qualitativamente – rispetto ai coetanei nei principali paesi UE. Il Presidente parla poi delle evoluzioni che hanno interessato il sistema economico italiano, del cambiamento delle categorie occupazionali negli anni e dei divari sociali e territoriali che, tuttora, potrebbero condizionare negativamente le prospettive future. Poi, torna sulla questione giovani: il capitale umano altamente istruito è una grande opportunità per accelerare i processi di digitalizzazione e migliorare la produttività di imprese e pubbliche amministrazioni. Per questo motivo, chiude, è fondamentale sostenere questa fascia di popolazione, contrastando le disparità nell’accesso all’istruzione, soprattutto universitaria, per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro e promuovere l’innovazione.

Siamo giunti al termine di questo mega spiegone semplificato e sintetizzato del Rapporto annuale ISTAT 2025. La situazione, come è intuibile, non è delle migliori, a maggior ragione se comparata con le altre grandi economie europee, i nostri vicini. Tuttavia, come ha dichiarato lo stesso Presidente, è necessario sforzarsi per cambiare atteggiamento, favorendo la dinamicità e la determinazione delle nuove generazioni, per costruire un Paese che sia al passo coi tempi. 
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Contratto a tempo determinato o indeterminato?

I contratti a tempo determinato e indeterminato presentano differenze nette e potrebbero essere influenzati dal prossimo referendum. Come?

Contratto a tempo determinato o indeterminato? Questo è il dilemma, direbbe l’Amleto di Shakespeare se vivesse nel ventunesimo secolo. Qui esploreremo insieme le differenze fra le due tipologie di contratto, concentrandoci sui diritti e i doveri tanto del lavoratore quanto del datore di lavoro. Tratteremo poi le questioni relative a dimissioni, licenziamento e riassunzione e vedremo infine come cambierebbe la normativa grazie al referendum di giugno. Rilassati che si parte!

Contratto a tempo determinato: caratteristiche

Il contratto a tempo determinato è un contratto di lavoro subordinato – di segno opposto al lavoro autonomo – in cui è prevista una data di cessazione del rapporto. La durata massima è di 12 mesi ma può essere prorogata a 24 mesi nel caso in cui si verificassero alcune circostanze specifiche, dette causali, come l’aumento della normale attività lavorativa, la sostituzione di altri lavoratori (non quelli in sciopero) o generiche esigenze temporanee e impreviste. Deve essere firmato per iscritto e, importante, deve essere indicato il termine di scadenza poiché se tale data non viene specificata, sostanzialmente l’aggettivo “determinato” non ha valore. 

In sintesi, il contratto a tempo determinato non può avere una durata superiore a 24 mesi, anche se esistono delle eccezioni che consentono di prorogare questo tipo di rapporto: i contratti collettivi nazionali (CCNL), territoriali e aziendali potrebbero presentare delle clausole frutto di contrattazioni sindacali. Inoltre, nel caso di rinnovo con lo stesso lavoratore per la stessa posizione, subentra l’obbligo di stop and go, cioè di “pausa obbligatoria”. Il lavoratore, quindi, potrà firmare il nuovo contratto dopo uno stop di 10 o 20 giorni se, rispettivamente, il precedente contratto aveva durata di 6 mesi o più. Se questi intervalli di tempo non vengono rispettati, il secondo contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato. 

Diritti e doveri del lavoratore

Un contratto a tempo determinato, generalmente, presenta tutele molto simili a quelli del contratto a tempo indeterminato con una variabile ovvia, la proporzionalità. Tradotto, ciò significa che il lavoratore a tempo determinato maturerà ferie, permessi e TFR in proporzione alla durata del rapporto contrattuale. Allo stesso modo, verrà coperto in caso di malattia o infortunio, ma la garanzia del posto è assicurata solo entro la data di scadenza prefissata. Anche lo stipendio, a parità di mansioni, è comparabile a quello del contratto a tempo indeterminato. C’è poi il diritto a congedi speciali come maternità e paternità, alla sicurezza sul posto di lavoro e alla formazione continua. 

I doveri sono identici a quelli del lavoratore a tempo indeterminato, tra cui diligenza, obbedienza e fedeltà all’azienda – li vedremo in modo più approfondito più avanti. 

Diritti e doveri del datore di lavoro

I diritti del datore di lavoro sono espressione dell’autorità formale e gerarchica che il boss ha in azienda: sono strumenti strutturali e legali di gestione, connessi al ruolo di responsabilità e di comando che questa figura ricopre all’interno dell’organizzazione. Si parla pertanto di potere direttivo, disciplinare e di controllo e di diritto alla prestazione lavorativa. I primi tre fanno riferimento alla facoltà del datore di lavoro di dare ordini in merito all’esecuzione e alla disciplina delle mansioni, di verificare che effettivamente il lavoratore esegua quanto comunicato e di sanzionare eventuali mancanze. Il diritto alla prestazione lavorativa, infine, è relativo al fatto che il datore è legittimato a pretendere dal lavoratore quanto pattuito nel contratto a livello di mansioni e impegni. 

Tra i doveri, invece, ricordiamo gli obblighi di corresponsione puntuale della retribuzione, quindi di pagamento dello stipendio secondo i tempi prestabiliti, di concessione di ferie e permessi e di versamento dei contributi previdenziali e assicurativi, che non possono essere trattenuti. Il datore di lavoro, poi, deve accertarsi che l’ambiente professionale sia sicuro e salubre e che siano rispettate la dignità e la privacy del lavoratore, secondo la normativa vigente. 

Vediamo ora il secondo tipo di contratto, quello a tempo indeterminato. 

Contratto a tempo indeterminato: caratteristiche

Il contratto a tempo indeterminato, in Italia, è la forma di rapporto lavorativo più comune: secondo i dati provvisori pubblicati dall’ISTAT a marzo 2025, i dipendenti a termine sarebbero circa 2 milioni e 594mila, contro i 16 milioni e 560mila che invece hanno un contratto permanente. È detto a tempo indeterminato, o permanente, perché privo di una data di scadenza e, per questa ragione, la firma non necessita di causali specifiche. 

Anche questo tipo di contratto deve essere redatto in forma scritta e deve includere tutte le informazioni essenziali relative al rapporto lavorativo. Tra queste, l’insieme delle attività richieste al lavoratore, l’inquadramento, la data di inizio, i giorni di ferie e le ore di permesso. 

Diritti e doveri del lavoratore

I diritti del lavoratore permanente, come abbiamo anticipato, sono praticamente sovrapponibili con quelli previsti dal contratto a termine. Il soggetto, quindi, ha diritto a una retribuzione congrua col tipo di lavoro svolto, a lavorare in un ambiente sicuro e inclusivo, a ferie, permessi e congedi speciali e al trattamento di fine rapporto (TFR). Una delle poche differenze, in questo senso, risiede nella sezione malattie e infortuni. Diversamente dal contratto a tempo determinato, l’indeterminato presenta delle condizioni particolari: il lavoratore può usufruire di un periodo massimo di assenza, detto periodo di comporto, la cui durata è stabilita dalla normativa vigente, dai contratti collettivi nazionali di settore o dal contratto individuale di lavoro. Se, al termine di questo periodo, il lavoratore non rientra in azienda, il datore può procedere al licenziamento. Ciò non vale nel caso in cui, invece, la malattia o l’infortunio fossero causate da attività connesse alle mansioni lavorative. 

La parte dei doveri rimanda ai vincoli di collaborazione e correttezza nei confronti dell’azienda e del datore di lavoro. Troviamo infatti l’obbligo alla fedeltà, all’obbedienza e alla diligenza. Per fedeltà si intendono quei comportamenti di lealtà professionale e di protezione dell’organizzazione: non trattare affari con la concorrenza e non divulgare informazioni sensibili o segreti industriali. Con obbedienza, naturalmente, si indica il dovere del lavoratore di eseguire quanto richiesto dal datore e, infine, la parte della diligenza fa riferimento alla buona condotta lavorativa, al rispetto delle norme disciplinari e degli orari di lavoro. 

Diritti e doveri del datore di lavoro

I diritti e i doveri del datore di lavoro sono gli stessi, sia in caso di contratto a tempo determinato che indeterminato. Dunque, rimandiamo a quelli che abbiamo visto nel paragrafo precedente. 

Dimissioni, licenziamento e riassunzione: determinato vs indeterminato

Il contratto a tempo determinato si basa su un principio preciso: il lavoratore, firmando, si impegna a prestare servizio per un intervallo di tempo determinato. Per questo motivo, rispetto all’indeterminato, dove le dimissioni sono libere con preavviso, la rinuncia volontaria all’impiego non è consentita. In caso, l’azienda potrebbe chiedere un risarcimento sotto forma di penale. Ma esistono delle eccezioni. Il lavoratore può dimettersi se c’è una giusta causa, quindi se diventa oggettivamente impossibile proseguire col rapporto lavorativo. Le giuste cause più comuni sono il mancato pagamento dello stipendio, l’assenza di rispetto delle norme di sicurezza, situazioni di mobbing o molestia. Un fatto curioso è che le dimissioni possono essere presentate solamente online. Questa procedura è diventata obbligatoria nel 2016, col Jobs Act, e il motivo è molto semplice: contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco, una pratica illegale in cui il datore di lavoro, al momento dell’assunzione, fa firmare il foglio delle dimissioni privo di data, così da riempirlo all’occorrenza. 

Per quanto riguarda il licenziamento, nel caso del contratto a termine valgono le stesse regole delle dimissioni, ma dalla prospettiva del datore di lavoro. Questo vuol dire che il dipendente a termine non può essere licenziato prima della scadenza, a meno che non si tratti di una giusta causa. Anche qui, per giusta causa si intende una circostanza così grave da rendere impossibile l’attività lavorativa. Lo stesso discorso vale per il contratto a tempo indeterminato, a cui però si aggiunge una clausola: il giustificato motivo oggettivo o soggettivo. Il primo, riguarda le ragioni obiettive, del funzionamento dell’azienda e della sua produttività. Il secondo, dall’altro lato, si riferisce ai comportamenti scorretti del dipendente, come il mancato rispetto degli obblighi descritti sopra. 

La riassunzione, infine, è un procedimento che vale solamente per i contratti a termine perché, per definizione, un contratto a tempo indeterminato non presuppone una data di scadenza. Le pratiche per il reintegro del dipendente in azienda sono quelle dello stop and go, che abbiamo già trattato nel primo paragrafo. 

Cosa cambia coi referendum di giugno?

I referendum del prossimo giugno sono cinque, divisi in due aree tematiche: una collegata alla cittadinanza e una al mondo del lavoro. Quest’ultima è composta da quattro quesiti referendari differenti. Il primo e il secondo si occupano di licenziamenti illegittimi – o senza una giusta causa – e indennità previste verso i dipendenti nel caso in cui si verificasse questa scorrettezza. Il terzo pone l’attenzione sui contratti a tempo determinato e chiede il ripristino dell’obbligo di causali che giustifichino una scadenza a 12 mesi o inferiore. 
Se vuoi informarti in modo più approfondito – e dovresti – abbiamo scritto una guida sui referendum dell’8 e 9 giugno dove potrai leggere con attenzione e comprendere cosa ti verrà chiesto al momento del voto. Dopo di ciò, iscriviti a Young Platform e facilitati la vita!

L’indennità di accompagnamento nel 2025: la guida

L'indennità di accompagnamento nel 2025. Le novità

L’indennità di accompagnamento nel 2025 è cambiata? Qual è l’importo previsto? Se cerchi risposte, questo è l’articolo che fa per te. Cominciamo!

L’indennità di accompagnamento è una misura previdenziale erogata dallo stato in favore di soggetti in possesso di determinati requisiti. Nel 2025, però, questo tipo di indennità ha visto alcune modifiche, soprattutto a livello di importo previsto. In questa breve guida, troverai tutte le informazioni che stai cercando. Buona lettura!

Indennità di accompagnamento: che cos’è e quali sono i requisiti per ottenerla

L’indennità di accompagnamento è definita dall’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) come una prestazione economica, concessa su richiesta, a favore di soggetti mutilati o invalidi totali per i quali è stata accertata la condizione di non autosufficienza

L’indennità viene erogata per 12 mensilità – nel senso che non c’è una tredicesima come per le pensioni – a partire dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda. Il soggetto interessato, poi, continuerà a godere del servizio assistenziale fin quando le sue condizioni sanitarie rispetteranno i requisiti, che a breve vedremo. Non è compatibile con altre prestazioni simili riconosciute per invalidità derivanti da cause di guerra, lavoro o servizio.  

L’indennità di accompagnamento si ottiene nel caso in cui si soddisfino alcuni requisiti: l’impossibilità di deambulare, quindi muoversi autonomamente a piedi, senza l’aiuto di un accompagnatore o l’incapacità di compiere attività tipiche della vita quotidiana. Recentemente, a questi requisiti di carattere fisico ne sono stati affiancati altri di natura psicologica. Infatti, in una sentenza del 2022, la Corte di Cassazione ha sottolineato la necessità di estendere la condizione di non autosufficienza includendo anche quei soggetti fisicamente abili ma che, a causa di gravi disturbi cognitivi, non sono in grado di gestirsi in modo autonomo. 

Dal punto di vista legale, è possibile fare domanda per l’indennità di accompagnamento se si ha la cittadinanza italiana e se si è residenti in Italia in modo stabile e duraturo. Nel caso di cittadini stranieri comunitari – membri dell’U.E. – occorre essere iscritti all’anagrafe del comune di residenza, mentre per i cittadini stranieri extracomunitari è obbligatorio essere in possesso del permesso di soggiorno da almeno un anno.  

Indennità di accompagnamento: come richiederla e a quanto ammonta l’importo

L’indennità di accompagnamento può essere richiesta in caso di riconoscimento dell’invalidità da parte del medico legale, al termine dell’accertamento sanitario. Una volta ottenuto il verbale che certifica la condizione di non autosufficienza, è obbligatorio inserire anche i dati socioeconomici. Queste informazioni fanno riferimento agli eventuali ricoveri, all’esercizio di attività lavorativa e alle modalità di pagamento e di incasso specificando, ad esempio, la delega ad una terza persona (l’accompagnatore). Ora che la domanda è pronta, è possibile inviarla direttamente online sul sito dell’INPS o depositarla presso un’associazione di categoria come l’ANMIC (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili). Il tempo di lavorazione è stabilito dalla legge in 30 giorni.

L’importo dell’indennità di accompagnamento è uguale per tutti i cittadini in possesso dei requisiti elencati precedentemente, a prescindere dall’età e dal reddito personale annuo. Rispetto all’anno scorso, questo contributo previdenziale che, ricordiamo, viene erogato mensilmente, ha visto un leggero aumento: se nel 2024 ammontava a 531,76€, nel 2025 questa cifra equivale a 542,02€. Per i ciechi assoluti si passa dai 987,50€ del 2024 ai 1.022,44 del 2025

Obblighi dell’accompagnatore

L’indennità di accompagnamento è concepita come una misura finalizzata a ridurre il carico sul servizio sanitario nazionale: lo Stato eroga il contributo affinché il soggetto interessato possa procurarsi il supporto necessario in modo autonomo, pagando un accompagnatore. Questa figura può essere un familiare o una persona terza e può fornire aiuto per la deambulazione o per lo svolgimento delle attività quotidiane. Tuttavia, la sua presenza non è prevista per legge. Dal momento che non è obbligatorio avere un accompagnatore, conseguentemente non ci sono obblighi legali per questo tipo di profilo. 

Quando si perde l’identità di accompagnamento? 

L’indennità di accompagnamento può essere sospesa o revocata definitivamente. La sospensione avviene nel caso in cui il soggetto che beneficia dell’assistenza venga ricoverato in modo gratuito, cioè presso una struttura pubblica finanziata dallo Stato, per un periodo pari o superiore ai 30 giorni. Anche in questo caso, però, è possibile continuare a percepire l’importo se, durante l’ospedalizzazione, sia comunque necessaria la presenza di un accompagnatore. 

La revoca definitiva, invece, avviene in due casi specifici: se, a seguito di un nuovo accertamento sanitario, i requisiti sanitari non sono più soddisfatti oppure se il soggetto invalido si trasferisce all’estero. Nel caso in cui, però, questa seconda circostanza fosse dovuta a motivi legati alle cure mediche – perché magari all’estero sono più avanti in determinati trattamenti – la revoca non ha luogo.

In ogni caso, i cittadini italiani hanno a disposizione uno strumento creato per rendere più accessibili e comprensibili le proprie informazioni assistenziali, sociali e pensionistiche: il fascicolo previdenziale

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Dal piombo all’oro: cosa è successo al CERN

Dal piombo all'oro: cosa è successo al CERN

Dal piombo all’oro: per la prima volta, al CERN di Ginevra i ricercatori hanno trasformato il metallo vile in metallo prezioso. Cosa è successo?

Il piombo e l’oro sono due metalli chimicamente molto simili, la differenza tra i due è di soli tre protoni. Ma questa piccola distinzione cambia tutto: un chilo d’oro costa circa 45.000 volte un chilo di piombo, per via di alcune caratteristiche come la scarsità in natura e la rarità, che lo rendono estremamente prezioso. Il 7 maggio, però, dal CERN di Ginevra è arrivata una notizia spiazzante: per la prima volta, si è compiuta la trasmutazione del piombo in oro. In questo articolo capiremo come e, soprattutto, proveremo a ragionare sulle conseguenze di questo esperimento. 

Trasformare il piombo in oro: un sogno che va avanti da secoli. 

La trasformazione, o meglio, la trasmutazione del piombo in oro è un sogno che l’umanità insegue da secoli: intorno al XVI secolo, gli alchimisti – antenati degli odierni chimici – ricercavano ossessivamente la nota Pietra Filosofale proprio perché considerata uno strumento necessario al raggiungimento di questo obiettivo. Lo scopo della trasmutazione era sia materiale, per via della ricchezza infinita, sia spirituale, in ragione del parallelismo fra purificazione del metallo vile in prezioso e purificazione dell’anima. 

Nel tempo, la scienza moderna ha dimostrato l’infondatezza delle teorie alchemiche, ma ha comunque continuato ad indagare su possibili reazioni chimiche in grado di rendere possibile questa trasmutazione. Finalmente, il 7 maggio 2025 al CERN di Ginevra, la trasformazione è stata ufficialmente dimostrata e verificata. Vediamo brevemente cos’è successo. 

Il piombo diventa oro : ALICE rileva la trasmutazione

La trasmutazione del piombo in oro è un processo nei fatti molto complesso, ma troveremo il modo per semplificarlo con un esempio ad hoc. In ogni caso, al CERN (Consiglio Europeo per la Ricerca Nucleare) di Ginevra, i fisici del Large hadron collider (Lhc), il più grande e potente acceleratore di particelle al mondo, hanno accelerato gli ioni del piombo a una velocità prossima a quella della luce e hanno notato una reazione particolare. Questi ioni, incrociandosi senza scontrarsi, generano fortissimi campi elettromagnetici che provocano l’emissione di protoni dal nucleo dell’atomo di piombo, il quale cambia struttura e si trasforma. Il piombo, quindi, può diventare tallio, mercurio o oro, se rispettivamente perde uno, due o tre protoni dal nucleo. 

Questi cambiamenti impercettibili sono state osservati grazie al rilevatore ALICE e ai cosiddetti calorimetri a zero gradi (ZDC), progettati e costruiti da ricercatori italiani dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) di Torino e Cagliari. Tuttavia, l’oro esiste per un intervallo di tempo brevissimo e in quantità estremamente ridotte, perché i nuclei, scontrandosi coi componenti dell’acceleratore, si frammentano immediatamente. 

Facciamo un parallelismo per comprendere meglio. Immagina due treni che sfrecciano a velocità supersonica su due binari paralleli, in direzioni opposte: quando si incrociano, spostano una massa d’aria che, naturalmente, impatta la carrozzeria. Al momento dell’impatto, a volte, può capitare che uno dei due treni perda uno, due o tre pezzi a causa dell’urto. Se ciò avviene, allora il treno che “subisce il danno” non è più il treno originale, ma diventa un altro tipo di veicolo simile ma strutturalmente diverso. Infine, il treno trasformato – o trasmutato – è destinato a frantumarsi perché la pressione dello spostamento d’aria ne causa il deragliamento. Ora non ti resta che sostituire “treni” con ioni di piombo e “massa d’aria” con campo elettromagnetico.

L’oro sarà per sempre un bene scarso?

Questa è la riflessione principale che ci sentiamo di fare a fronte dell’esperimento appena descritto. L’oro, come abbiamo anticipato, è prezioso per determinate peculiarità che lo rendono unico e da cui dipende la sua quotazione. Cosa succede se viene a mancare una delle proprietà più importanti, ovvero la scarsità

Naturalmente siamo distanti anni luce dal poter creare artificialmente una quantità d’oro visibile anche solo ad occhio nudo, tuttavia il dato che emerge è che l’oro potrebbe essere prodotto in modo sintetico e arbitrario. Bitcoin no. Per concludere, un’osservazione curiosa: premesso che la correlazione non giustifica la causalità, è interessante notare come dal 7 maggio, il giorno della pubblicazione della scoperta, il prezzo dell’oro sia calato del 5,5% e BTC, al contrario, abbia messo a segno un +8% – al momento in cui scriviamo. 

È importante ribadire che, sicuramente, queste performance sono frutto di molti fattori contestuali e non esclusivamente legate a questa notizia. O forse no? Nel dubbio, iscriviti a Young Platform e resta aggiornata/o!

Guerra Russia-Ucraina: gli aggiornamenti post-vertice

Guerra Russia Ucraina: aggiornamento post-vertice

Russia e Ucraina a colloquio per la prima volta dopo tre anni, con scarsi risultati. Prevista una chiamata lunedì fra Trump e Putin. Gli aggiornamenti

Russia e Ucraina hanno inviato le proprie delegazioni a Istanbul nella giornata di venerdì 16 maggio per provare a intavolare delle trattative di pace. Il vertice ha dato scarsi risultati ma, secondo gli analisti, è un segnale positivo perché è il primo meeting diretto da marzo 2022. Intanto i leader europei si parlano e Trump organizza una chiamata con Putin. Qui gli aggiornamenti.

Vertice Russia e Ucraina: cos’è successo venerdì a Istanbul

Il vertice tra Russia e Ucraina di Istanbul non è andato esattamente come previsto. Il presidente della Federazione russa Vladimir Putin non si è presentato all’incontro, pur essendo stato lui stesso a proporre il faccia a faccia col presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky. Da parte sua, Zelensky si è rifiutato di partecipare, in reazione all’assenza di Putin. In ogni caso, i due hanno inviato le rispettive delegazioni, che si sono confrontate senza intermediari per la prima volta da marzo 2022. 

Il capo della delegazione russa, Vladimir Medinsky, ha dichiarato che “Mosca è soddisfatta del risultato ed è pronta a proseguire il dialogo. Nei prossimi giorni”, ha continuato, “ci sarà un imponente scambio di prigionieri”. Infatti, l’accordo tra le parti – fa sapere la TV di stato russa – prevederebbe un rilascio reciproco di mille prigionieri di guerra e una successiva ripresa delle trattative.

Al momento, tuttavia, non è in programma un cessate il fuoco perché, a detta di Medinsky, “guerra e negoziazioni si conducono sempre contemporaneamente, come diceva Napoleone”. Lo stesso capo delegazione – secondo fonti ufficiali ucraine – avrebbe poi aggiunto che la Russia è pronta a combattere per tutto il tempo necessario, menzionando le guerre dello Zar Pietro il Grande contro la Svezia, che durarono 21 anni.

Intanto, domenica 18 maggio Volodymyr Zelensky è volato a Roma per incontrare il Papa Leone XIV e il Vice Presidente degli Stati Uniti JD Vance.

Volodymyr Zelensky vola a Roma

Nella giornata di domenica 19 maggio, il Presidente ucraino si è presentato a Roma, insieme ad altri leader mondiali, in occasione della messa di inaugurazione del pontificato di Papa Leone XIV. I due si sono poi incontrati per parlare dell’importanza delle trattative di pace: il Papa, la scorsa settimana, aveva già proposto il Vaticano come sede per le negoziazioni fra le due parti in conflitto. Zelensky, in seguito, ha avuto un confronto col Vice Presidente USA JD Vance e col Segretario di Stato Marco Rubio presso la residenza dell’ambasciatore statunitense nella Capitale. Lo stesso Zelensky ha poi descritto la seduta su Telegram come “positiva”.

Dall’altro lato, sempre domenica, il Primo Ministro britannico Keir Starmer avrebbe discusso degli svolgimenti del conflitto russo-ucraino coi leader di USA, Germania, Francia e Italia. In merito, il Presidente francese Emmanuel Macron ha scritto su X (ex Twitter) che lunedì 19 maggio “il Presidente Putin deve dimostrare di volere la pace accettando il cessate il fuoco incondizionato di trenta giorni proposto dal Presidente Trump e supportato da Ucraina ed Europa”. 

Sempre in queste ore, Donald Trump e Vladimir Putin dovrebbero chiamarsi per discutere sulla fine della guerra. 

Trump sulla guerra tra Russia e Ucraina: fermare il “bagno di sangue”

Tramite un post sul suo social Truth, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha scritto che alle 16 (ora italiana) di lunedì 19 maggio chiamerà Vladimir Putin per parlare della guerra e cercare di ragionare sulla risoluzione del conflitto. 
In caps lock – come sempre –  Trump ha poi scritto che “i temi della telefonata saranno: fermare il “bagno di sangue” che sta uccidendo, in media, più di 5.000 russi e ucraini a settimana, e il commercio”. In un altra nota, ha poi aggiunto di voler parlare anche con Zelensky e, in un secondo momento, con alcuni membri della NATO: “si spera che sarà un giorno produttivo, che venga raggiunto il cessate il fuoco e che questa guerra così violenta, che non sarebbe mai dovuta accadere, finisca”, ha concluso. 

Trump chiama Putin: cosa si sono detti

In un lungo post su Truth, Donald Trump ha riferito che la telefonata di due ore con Vladimir Putin – secondo lui – è andata molto bene: “Russia e Ucraina inizieranno immediatamente le negoziazioni per raggiungere il cessate il fuoco e, soprattutto, la FINE della Guerra”. Il POTUS ha poi aggiunto che la Russia vuole iniziare un rapporto commerciale su larga scala con gli USA che, sempre secondo Trump, costituirebbe una grandissima opportunità per entrambe le economie. Inoltre, ha scritto che allo stesso modo l’Ucraina beneficerebbe di questi accordi, principalmente grazie al processo di ricostruzione della nazione. Infine, ha concluso precisando di aver informato le varie parti in causa: il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e i leader di Francia, Italia, Germania e Finlandia. Il post si chiude con un motivante “Let the process begin!” (che il processo abbia inizio!).

Che effetto avrebbe la pace tra Russia e Ucraina sui mercati?

La fine della guerra fra Russia e Ucraina avrebbe ripercussioni nette sui mercati finanziari, per diverse ragioni. A livello sistemico, verrebbe meno una delle principali fonti di incertezza geopolitica che da anni condiziona l’andamento dell’economia globale: dall’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, cominciata nel febbraio del 2022, i governi di tutto il mondo sono stati costretti a ridefinire le alleanze strategiche commerciali, non potendo più contare sulla globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta. Al termine delle ostilità, infatti, le armi lascerebbero spazio alla diplomazia e la fiducia degli investitori potrebbe tornare a livelli che non si vedevano da anni. Anche le banche centrali cambierebbero approccio nel definire le politiche monetarie, come ha dichiarato Jerome Powell nell’ultimo FOMC, dal momento che sarebbe più semplice prevedere gli scenari economici con maggiore precisione. 

Si verificherebbe poi un calo dei prezzi delle materie prime energetiche. La Russia, infatti, è una delle principali nazioni esportatrici di petrolio e gas naturale e con la pace, quasi certamente, andrebbe incontro ad un allentamento – la rimozione è improbabile – delle sanzioni economiche. Allo stesso modo, una risoluzione pacifica del conflitto avrebbe conseguenze dirette sulla riduzione del prezzo delle materie prime agricole, di cui Russia e Ucraina sono grandi produttrici ed esportatrici. Nello specifico, le commodities interessate sarebbero il grano, il mais, l’olio di girasole e i fertilizzanti. 

Quanto detto finora avrebbe poi un impatto concreto sulla riduzione della pressione inflazionistica. Come abbiamo spiegato anche in questo articolo, l’aumento del costo delle materie prime, energetiche o alimentari, è collegato a catena all’aumento del costo della vita: se il prezzo di una pizza margherita nel 2019 si aggirava intorno ai 5.5€, oggi siamo intorno ai 7€ a causa del rincaro della farina per l’impasto e dell’energia per il forno. È evidente, quindi, come il consumatore finale sia costretto a spendere di più per comprare lo stesso prodotto e la valuta perda il potere d’acquisto

A sua volta, il mondo crypto potrebbe beneficiare di questo cambio di contesto: la riduzione dell’incertezza si tradurrebbe nel calo dell’avversione al rischio e, conseguentemente, nell’afflusso di capitale verso asset considerati più volatili, come Bitcoin. C’è poi anche un tema legato alla postura favorevole dell’Ucraina nei confronti delle criptovalute e alla forte presenza dei miners di Bitcoin in Russia, esclusi dalla comunità proprio a causa dell’invasione. 

Non resta che attendere

Come abbiamo visto, Donald Trump è ottimista e crede che stia per cominciare una nuova fase di incontri diplomatici. Non resta che attendere sperando che Vladimir Putin decida una volta per tutte a mettere la parola fine a questo inutile conflitto che va avanti ormai da troppo tempo. Se non vuoi perderti altre notizie, iscriviti a Young Platform e resta aggiornata/o su ciò che è rilevante!

JPMorgan Chase: i clienti potranno comprare Bitcoin

JPMorgan: i clienti potranno comprare Bitcoin

Il CEO di JPMorgan Chase Jamie Dimon all’investor day di lunedì 19 maggio: “permetteremo ai clienti di comprare Bitcoin, ma non lo custodiremo”

JPMorgan Chase si aggiunge alla lista delle grandi banche che consentono ai loro clienti di acquistare Bitcoin. In occasione dell’investor day di lunedì, il CEO Jamie Dimon ha comunicato che sarà possibile comprare BTC attraverso la banca, la quale però non li custodirà ma si limiterà a riportare il saldo nei documenti relativi agli estratti conto. Facciamo il punto della situazione.

JPMorgan Chase e Bitcoin: il CEO comunica l’apertura all’acquisto

JPMorgan Chase e Bitcoin inaugurano un nuovo rapporto. Questa è la grande notizia che emerge dall’incontro annuale con gli investitori della banca. Nella giornata di lunedì 19 maggio, il CEO Jamie Dimon ha informato la platea che la banca permetterà ai clienti di comprare Bitcoin attraverso le loro piattaforme limitandosi, però, a questa funzione: “vi consentiremo di acquistare Bitcoin”, ha dichiarato, “ma non li custodiremo. Li riporteremo negli estratti conto”. 

JPMorgan Chase è la banca più grande degli Stati Uniti e uno dei principali colossi finanziari a livello globale: come si legge sul loro sito, al 31 marzo 2025 deteneva 4,4 trilioni di dollari in asset finanziari con 351 miliardi di dollari di patrimonio netto. Se una potenza del genere offre la possibilità di comprare Bitcoin ai propri clienti, il prossimo futuro riserverà sicuramente delle sorprese interessanti per i criptoinvestitori

Jamie Dimon mantiene un atteggiamento critico

Il CEO di JPMorgan Chase, nonostante quanto descritto finora, continua a nutrire dubbi su Bitcoin. L’opinione di Jamie Dimon su BTC è cosa nota: nel 2021 l’aveva definito “inutile” e nel 2024, a Davos, aveva usato l’espressione “pet rock” – pietra da compagnia, fa riferimento a un fenomeno degli anni ‘70 in cui una semplice pietra veniva venduta come animale domestico – che “non fa nulla”. Anche durante l’investor day ha voluto precisare che la sua visione resta immutata, sottolineando i problemi relativi al riciclaggio di denaro, all’evasione delle tasse e alla mancanza di chiarezza in merito alla proprietà. 

Questa volta, tuttavia, ha dovuto riconoscerne l’importanza, quantomeno a livello di domanda. Sempre in occasione della conferenza di lunedì, il CEO di JPMorgan Chase ha comunicato la sua posizione usando il seguente parallelismo: “Non credo che dovreste fumare, ma difendo il vostro diritto a farlo. Così difendo il vostro diritto di comprare Bitcoin”. Evidentemente, non gli sarà sfuggito che gli ETF su Bitcoin battono quelli sull’oro o che la stessa JPMorgan Chase prevede che Bitcoin overperformerà l’oro nella seconda metà dei 2025. 

Banche USA e Bitcoin: qual è la situazione  

Con JPMorgan Chase, la lista delle banche statunitensi che hanno aperto all’acquisto di bitcoin si allunga. Tra le più importanti ricordiamo Morgan Stanley e Charles Swab, che permettono ai clienti di investire in ETF Bitcoin spot, e U.S. Bank, che invece si concentra sui servizi di custodia per clienti istituzionali e fondi di investimento. C’è poi tutta una serie di banche crypto-friendly come Ally Bank, che consente agli utenti di collegare i loro conti bancari a piattaforme come Coinbase per eseguire operazioni con le criptovalute.  

Insomma, anche JPMorgan Chase si è resa conto che Bitcoin è sempre più richiesto e popolare in modo trasversale: la regina delle criptovalute, un tempo relegata a una nicchia di appassionati, è sempre più mainstream

Spese condominiali: manuale di sopravvivenza

Spese condominiali: manuale di sopravvivenza

Le spese condominiali rientrano nell’immenso insieme di seccature tipiche del condominio. Tuttavia, sapere cosa pagare è cruciale. Qui il manuale

Le spese condominiali sono solo una delle numerose noie che costellano la vita di chi vive in un condominio. Naturalmente, il primo posto spetta di diritto alle fatidiche riunioni: luoghi immortali di scontro verbale e fisico che tormentano le sere di madri e padri di famiglia. È nato prima l’uomo o la riunione condominiale? In ogni caso, in questo articolo purtroppo (o per fortuna) ci occuperemo solo delle cose da pagare, senza toccare altro. Chi prima inizia prima conclude no? E allora partiamo!

Spese condominiali: come non farsi fregare

Le spese condominiali sono una fra le principali cause di discussione fra gli inquilini di un condominio: le epiche dispute verbali volte a identificare chi non ha messo i soldi per la potatura delle siepi in cortile si susseguono senza fine, perse nelle pieghe della storia. Scherzi a parte, sapere cosa si paga e perché è importante per evitare guai legali e, soprattutto, per non rischiare di sostenere spese inutili. Con questo manuale di sopravvivenza, scopriremo insieme il mondo delle spese condominiali in modo da non rimanere fregati di fronte al temibile e tenebroso amministratore di condominio. Nello specifico, vedremo come si calcolano, quali possono essere detratte, quali spettano al proprietario e quali all’inquilino e, infine, cosa succede in caso di mancato pagamento.  

Ripartizione delle spese condominiali: il calcolo in base ai millesimi

La ripartizione delle spese condominiali è la modalità attraverso cui si assegna a ciascun condomino una quota della totalità delle spese comuni. Il sistema adottato è quello del calcolo in base ai millesimi, che definisce in modo proporzionale l’importo dovuto da ciascun residente. Questo calcolo viene effettuato utilizzando uno strumento, detto tabella millesimale, elaborato considerando la superficie e il volume di ogni singolo appartamento. 

La logica dietro questo sistema concepisce il condominio come diviso in mille parti: ogni unità, in funzione dei parametri esposti prima, equivale a una parte di queste mille. A questo punto, ogni residente dovrà pagare una quota proporzionale alla fetta di condominio di cui è proprietario. Facciamo un esempio. Se per assurdo un condominio ha cinque appartamenti uguali – stesse metrature e stessi volumi – allora ognuno di questi equivale a 200 su 1000 (mille parti diviso cinque). Al pagamento delle spese condominiali, che ipotizziamo essere di 1000€ per semplicità di calcolo, ogni condomino pagherà 200€, ovvero un quinto delle spese comuni totali. Alcune di queste, però, sono detraibili dalle tasse

Spese condominiali detraibili: quali sono?

Le spese condominiali detraibili sono quelle incluse negli interventi di natura straordinaria: la riqualificazione dell’immobile, il miglioramento della classe energetica, la messa in sicurezza antisismica e la manutenzione delle aree verdi condominiali. Insomma, la detrazione fondamentalmente riguarda i lavori che rientrano nei vari bonus erogati a pioggia in questi ultimi anni, come il Superbonus, l’Ecobonus, il Sismabonus e chi più ne ha più ne metta. Non sono invece detraibili le spese ordinarie comuni come quelle relative alla pulizia e alla manutenzione o al consumo di energia elettrica delle aree condivise. Queste spese, per essere scalate dalle tasse, devono essere inserite all’interno del modello 730, cioè del modello per la dichiarazione dei redditi.

Ma cosa succede se chi vive nell’appartamento è in affitto? E se invece è proprietario? Nella prossima sezione esamineremo quali spese condominiali deve pagare uno e quali l’altro. 

Proprietario vs inquilino: a chi tocca pagare?

Fin dai tempi dei primi insediamenti umani, fin dalle prime capanne di legno e argilla, si consuma l’eterna lotta tra inquilino e proprietario. Due entità incompatibili, legate da un contratto firmato e false cortesie: “spese straordinarie, non di mia competenza!” dice il primo, “il regolamento condominiale parla chiaro!” ribatte il secondo, indicando il comma 3-ter/bis dell’articolo 12, scritto in corpo 3 con inchiostro grigio chiarissimo, visibile solo al microscopio ottico. Un’iperbole di fantozziana memoria che ci ricorda quanto il terreno della ripartizione delle spese condominiali sia spinoso e fonte di controversie. Cerchiamo quindi di chiarire una volta per tutte chi paga che cosa. 

Spese condominiali: l’inquilino 

Le spese condominiali che spettano all’inquilino fanno parte della categoria che comprende la manutenzione ordinaria e i consumi. A livello concettuale, l’inquilino è responsabile di ciò che utilizza e lo riguarda durante la sua permanenza: tinteggiatura delle pareti, pulizia delle grondaie, manutenzione di corrimano e ringhiere, disinfestazione, derattizzazione, riparazione dell’impianto elettrico, di riscaldamento e di condizionamento – quest’ultima solo se ordinaria, quindi relativa a piccoli interventi. In sintesi, l’inquilino deve farsi carico dei costi connessi alla gestione e al mantenimento dell’appartamento e del condominio al momento in cui è presente. Per capirci, potrebbe essere utile il paragone con l’affitto di una macchina. Se noleggi un’auto per qualche giorno dovrai occuparti del carburante o delle gomme in caso di foratura, ma non della sostituzione del motore o dell’assicurazione RCA. 

Spese condominiali: il proprietario

Il proprietario invece si occupa delle spese di manutenzione straordinaria, cioè degli interventi riguardanti tutto ciò che viene installato in modo stabile nel tempo, al di là della presenza del coinquilino. Alcuni di questi possono essere l’allacciamento alla rete fognaria, l’installazione della caldaia nuova, la sostituzione integrale di pavimenti e rivestimenti e l’acquisto di bidoni della spazzatura. Quindi, per riassumere, il proprietario deve pagare per tutte le spese che riguardano l’alloggio a prescindere dal coinquilino. 

Esiste poi una serie di costi condivisi fra i due, come le questioni attinenti al portiere del palazzo, se esiste. In questo caso, la spesa è per il 90% a carico dell’inquilino, mentre il restante 10% è compito del proprietario. 

Passiamo ora all’ultimo paragrafo, quello relativo al mancato pagamento delle spese condominiali. 

Spese condominiali non pagate: scatta la prescrizione

La leggenda narra che l’inquilino dell’interno 22, terzo piano, si dimenticò di pagare le spese del condominio di via Roma 35: arrivò l’avviso, poi la raccomandata, infine la condanna unanime da parte dei membri dell’assemblea condominiale, con messa al bando e foto segnaletica. Nessuno sa che fine abbia fatto. Voci dicono che il suo fantasma continui ad aggirarsi fra i contatori, armato di torcia e regolamento. 

La realtà, naturalmente, è ben diversa. Secondo il codice civile, in caso di mancato pagamento è previsto un limite di tempo entro il quale l’amministratore può richiedere il pagamento degli arretrati: cinque anni per le spese ordinarie e dieci anni per le spese straordinarie. Se tale richiesta, sotto forma di domanda formale o azione legale, non ha luogo, il debito va in prescrizione e il condomino moroso non è più legalmente obbligato al pagamento. Nel caso in cui, invece, l’amministratore richieda ufficialmente il rimborso, al momento stesso della presentazione della domanda riparte il conto alla rovescia. Tradotto, significa che il condominio ha più tempo per recuperare la somma mancante perché il limite di cinque o dieci anni si azzera e il timer ricomincia da capo. 

Tutto questo, però, si riferisce al proprietario dell’immobile, che è l’unico vero responsabile per i debiti dell’inquilino. Il primo deve quindi sollecitare il secondo all’estinzione del debito e può avvalersi del diritto di sfratto qualora la cifra arretrata sia pari o superiore a due mensilità di affitto.  

Condomini e blockchain: la tokenizzazione

Per concludere questo viaggio nel fantastico mondo dell’amministrazione condominiale, è interessante collegare la blockchain e i suoi casi d’uso alla semplificazione e all’ottimizzazione delle procedure. Nello specifico, genera molta curiosità la tokenizzazione immobiliare. Tokenizzare un immobile significa rappresentarlo – o frazionarlo – digitalmente attraverso dei token emessi su blockchain, affinché ognuno di questi corrisponda a una parte dell’edificio. Il token, poi, acquisisce o perde valore in funzione dell’aumento o riduzione del prezzo dell’intero stabile. 

Nel caso del condominio, l’associazione immediata è fra token e calcolo in base ai millesimi, di cui abbiamo parlato sopra: essendo “fisicamente” in possesso di un numero di token proporzionale al valore dell’appartamento, i proprietari potrebbero essere più incentivati a collaborare per gestire in modo efficiente gli affari condominiali e prendersi cura delle aree comuni. Una cooperazione di questo tipo, avrebbe ripercussioni positive sul prezzo del token e, conseguentemente, sulla valutazione del complesso condominiale. 

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Referendum 2025: guida completa al voto

Referendum dell'8 e 9 giugno: per cosa si vota?

I referendum dell’8 e 9 giugno si avvicinano e gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi su cinque quesiti. Di cosa si tratta? La guida

I referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno sono alle porte e circa 47 milioni di italiane e italiani saranno chiamati alle urne per decidere in merito a cinque quesiti referendari: uno sulla cittadinanza e quattro sul tema del lavoro. In questo articolo troverai gli elementi necessari per poter esprimere il tuo voto nel modo più informato possibile.

Referendum abrogativo: che cos’è e come funziona 

Il referendum abrogativo è definito come uno strumento col quale i cittadini hanno la possibilità di richiedere la revoca totale o parziale di una legge. Può essere un’iniziativa che parte dal basso, nel caso in cui venga proposto dalla cittadinanza, o dall’alto, quando invece sono i promotori sono gli organi rappresentativi, come i consigli regionali. Se il referendum ha esito positivo, dunque se la maggioranza voterà “sì” alla domanda “volete voi abrogare…”, la legge oggetto della votazione verrà eliminata. Per essere valido, però, è necessario raggiungere il quorum: ciò significa che il referendum avrà valore legale solo se il 50% più uno degli aventi diritto al voto si recherà effettivamente alle urne – un po’ come il 51% attack. I referendum abrogativi più famosi della storia della Repubblica italiana sono quello sul divorzio del 1974, quello sull’interruzione di gravidanza del 1978 e quello sull’aborto del 1981.  

Vediamo ora nello specifico quali sono i referendum dell’8 e del 9 giugno 2025

Referendum sulla cittadinanza italiana

Il referendum sulla cittadinanza – scheda gialla – propone il dimezzamento degli anni di residenza legale previsti per poter presentare la domanda di cittadinanza italiana. Attualmente, gli anni necessari per questa richiesta sono dieci, mentre il referendum mira a ridurli a cinque. Secondo i promotori, tra cui spicca Riccardo Magi di +Europa, i cittadini di origine straniera interessati dall’approvazione di questo referendum sarebbero circa 2,5 milioni, a cui andrebbe aggiunto un altro mezzo milione di persone rappresentato da figli e figlie minorenni.

Il tema della cittadinanza è tornato di attualità nel periodo successivo alle Olimpiadi di Parigi,  dove un gran numero di atleti e atlete italiani di origine straniera è tornato a casa con una medaglia al collo. Molte di queste personalità sportive hanno colto il momento di popolarità per porre l’attenzione sull’argomento, sottolineando quanto sia lungo e complesso l’iter burocratico per essere ufficialmente riconosciuti come cittadini italiani. 

Referendum sul lavoro

I referendum sul lavoro sono quattro e sono stati promossi dalla CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), il più antico sindacato italiano, guidato da Maurizio Landini. Analizziamo i quesiti referendari uno per uno. 

1. Contratto di lavoro a tutele crescenti e disciplina dei licenziamenti illegittimi

Questo referendum – scheda verde – propone la revoca di un decreto relativo al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, introdotto nel marzo 2015 dal Governo Renzi col Jobs Act. Questa tipologia di contratto, infatti, impedisce il reintegro del lavoratore in azienda in caso di licenziamento illegittimo, prevedendo invece un risarcimento economico compreso fra le sei e le trentasei mensilità. Va precisato che il quesito riguarda le imprese con più di 15 dipendenti. Se vincesse il Sì, si tornerebbe alla situazione normativa precedente al decreto, che infatti verrebbe abrogato: si ristabilirebbe l’obbligo di reintegro nel caso in cui il datore di lavoro avesse licenziato un lavoratore in modo irregolare o senza valide motivazioni. 

2. Indennità in caso di licenziamento nelle piccole imprese

Il secondo referendum – scheda arancione – riguarda sempre i licenziamenti illegittimi, ma è relativo alle “piccole imprese”, cioè a quelle realtà con meno di 16 dipendenti. Nello specifico, si chiede l’eliminazione dei limiti massimi di risarcimento previsti nel caso in cui la cessazione del rapporto di lavoro avvenisse in modo irregolare, lasciando invece al giudice la facoltà di stabilire l’importo. Attualmente, nelle piccole imprese, se il datore di lavoro licenzia l’impiegato senza una giusta causa, il rimborso non può superare le sei mensilità: se vincesse il Sì, questo tetto verrebbe abrogato e la decisione finale spetterebbe alla magistratura.   

3. Contratti a termine

Il terzo quesito referendario – scheda grigia – riguarda i contratti a termine. In particolare, propone l’eliminazione di alcune norme che stabiliscono quando e perché un’azienda può offrire un contratto a tempo determinato e le condizioni necessarie per il rinnovo o il prolungamento. In Italia, al giorno d’oggi, la normativa vigente permette ai datori di lavoro di assumere risorse mettendo sul tavolo un contratto con durata inferiore ai 12 mesi, senza dover fornire le motivazioni che giustifichino il ricorso a questo strumento: se vincesse il Sì, verrebbe ripristinato l’obbligo di specificare le cause. 

4. Solidarietà giuridica tra committente e appaltatore

L’ultimo referendum abrogativo – scheda rosa – si occupa di salute e sicurezza sul lavoro. In questo caso, si propone la revoca di alcune norme che regolano il campo degli infortuni sul lavoro, nel caso di appalti o subappalti. Per comprendere bene il quesito, è importante conoscere la normativa attuale: quando una società committente appalta un lavoro delega alcune responsabilità all’impresa appaltatrice, tra cui quelle legate agli incidenti derivanti dai rischi connessi all’attività. Un esempio per capire meglio: una società appalta a un’impresa edile la costruzione di un palazzo e un operaio si fa male cadendo dai ponteggi. In questo caso, la colpa ricade esclusivamente su chi esegue il lavoro, quindi sull’azienda appaltatrice (o subappaltatrice). Se vincesse il Sì, anche la società committente dovrebbe rispondere dei danni o, per dirla in un altro modo, la responsabilità per l’incidente verrebbe estesa anche alla società committente. 

Se le urne chiamano, rispondi presente!

Questi referendum abrogativi sono importanti a prescindere dai temi: sono un termometro che misura la partecipazione politica dei cittadini e delle cittadine. I referendum sono anche strumenti di democrazia diretta a disposizione degli elettori e, in quanto tali, è fondamentale rispettarli: sarà possibile votare domenica 8 giugno dalle 7 alle 23 e lunedì 9 giugno dalle 7 alle 15

Se vuoi sapere come e quando si vota in Italia, abbiamo scritto una guida che parla proprio delle prossime elezioni, dagli un’occhiata e poi iscriviti qui sotto per non perderti le ultime notizie!