Cobalto: la storia di un metallo artistico

Il cobalto è stato utilizzato per creare un colore rivoluzionario amatissimo dai pittori dal 1800 in poi: il blu cobalto. Qual è la sua storia?

Il cobalto è stato utilizzato per creare un colore rivoluzionario amatissimo dai pittori dal 1800 in poi: il blu cobalto. Qual è la sua storia?

Il cobalto, un metallo bianco con riflessi azzurri, ha avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’arte. Il monossido di cobalto, infatti, è un ingrediente fondamentale per la realizzazione del blu cobalto, un colore che ha affascinato generazioni intere di pittori, soprattutto quelli della corrente impressionista. Qual è la sua storia? E quali altri casi d’uso possiede?

Cobalto: l’identikit 

In questa sezione, prima di partire con contenuti più leggeri e artistici, forniremo l’identikit di questo particolare metallo: che cos’è, chi lo controlla e perché è importante.

Che cos’è il cobalto?

Il cobalto è un metallo bianco argenteo che, in casi estremi, può essere anche blu. Il nome sarebbe associato al medico e alchimista svizzero Paracelso, che coniò il termine latino cobaltum a partire dal tedesco kobolet. Questa parola veniva utilizzata dai minatori tedeschi per descrivere dei “folletti”, accusati di scambiare i metalli preziosi con dei metalli inutili, come nel caso del cobalto con l’argento (molto simili esteticamente).

Dove si trova il cobalto? 

Il cobalto, tanto nell’estrazione quanto nella raffinazione, è concentrato nelle mani di pochissimi attori. Per quanto riguarda l’estrazione, i top 3 detengono l’81% della quota mondiale delle attività a essa connesse, con la Repubblica Democratica del Congo in prima posizione assoluta. Lo stato centrafricano, infatti, nel 2024 ha prodotto 182 kt (una kilotonnellata equivale a un milione di kg) di cobalto mentre la seconda, cioè l’Indonesia, è arrivata “solo” a 33 kt. In terza e ultima posizione troviamo la Russia, con 6 kt estratte l’anno scorso. 

Una volta estratto, il cobalto deve ovviamente essere raffinato. Qui la concentrazione è ancora maggiore: la top 3 delle nazioni raffinatrici è responsabile per l’89% dei processi di raffinazione. In questa classifica, al primo posto troviamo la Cina, che nel 2024 ha raffinato 196 kt di cobalto, ovvero più del 70% del totale estratto a livello mondiale. Sul secondo gradino del podio c’è la Finlandia, con 20 kt, mentre la terza posizione se la prende il Giappone, con circa 6 kt.  

Sulla base di questi dati, si potrebbero aprire mille discorsi relativi ai rischi di tale accentramento sulla catena di approvvigionamento, di cui parleremo nell’ultimo paragrafo. 

A cosa serve il cobalto?

Tra le principali applicazioni troviamo sicuramente il settore energetico, che attualmente è il traino principale della domanda globale: viene utilizzato principalmente nelle batterie ricaricabili ed è un componente cruciale per le batterie agli ioni di litio, fondamentali per il funzionamento di veicoli elettrici, smartphone e computer portatili. 

Il cobalto viene anche impiegato nel settore aerospaziale e della difesa, poiché le leghe a base di questo metallo sono iper resistenti al calore, alla corrosione e al deterioramento. Nello specifico, sono usate per la progettazione di turbine per motori a reazione, di componenti di veicoli spaziali e, in generale, per i materiali con applicazione militare.  

Un’altro caso d’uso è relativo all’ambito medico: le leghe di cobalto-cromo sono biocompatibili e resistenti all’usura, per cui hanno le caratteristiche adatte per essere delle protesi perfette, tanto a livello ortopedico (ginocchio e anca) quanto dentistico (corone e impianti dentali). 

Passiamo adesso a temi più rilassanti: il cobalto nell’arte.

Blu cobalto: un colore che ha fatto la storia

Il blu cobalto è un colore che viene inventato nei primi anni dell’800, in Francia, per motivi artistici, ovviamente, ma anche e soprattutto economici. Fino a quel momento, infatti, il blu non era un colore così “democratico”: il blu più utilizzato – il migliore per qualità e per effetto desiderato – era il cosiddetto blu oltremare. Questa tonalità, considerata il blu per antonomasia, era estremamente costosa poiché ottenuta attraverso la lavorazione dei lapislazzuli, pietre preziose importate dalle miniere afghane – per questo “oltremare” – e pagate letteralmente a peso d’oro

I costi erano tanto proibitivi che i pittori dell’epoca si limitavano ad utilizzarlo per opere importanti e, quando potevano, lo sostituivano con un pigmento simile più economico, l’azzurrite. Naturalmente, l’effetto ottenuto era nettamente differente – come bere un Campari Spritz fatto con un Campari “finto”, pagato un terzo rispetto all’originale. Era quindi necessario trovare un altro blu, che avesse le stesse caratteristiche del blu oltremare ma con costi ridotti. Arriva il momento della svolta

Perché e come nasce il blu cobalto?

Grazie alla richiesta che il Ministro degli Interni francese Jean-Antoine Chaptal fece al celebre chimico Louis-Jacques Thénard. Il ministro chiese al chimico di risolvere questo problema del blu, trovando un equivalente economico al blu oltremare. Thénard si mise all’opera e nel 1802 scopri che, attraverso la sinterizzazione del monossido di cobalto con l’ossido di alluminio a 1200 °C, si poteva ottenere una miscela che rispondeva al desiderio del Ministro degli Interni. 

Da quel momento, gli artisti dell’epoca ebbero la possibilità di sperimentare utilizzando un colore che, fino a qualche attimo prima, non poteva essere sprecato. L’importanza di avere a disposizione grandi quantità di blu cobalto è tale che il celebre pittore Pierre-Auguste Renoir affermò (o almeno così si crede): “una mattina, siccome uno di noi era senza il nero, si servì del blu: era nato l’Impressionismo”. Una cosa del genere sarebbe stata impossibile col blu oltremare. 

Monet e lo stesso Renoir iniziarono ad utilizzare stabilmente il blu cobalto per le ombre, abbandonando il nero. Oltre l’Impressionismo, altri importanti pittori fecero uso di questa tonalità di blu nei loro capolavori: Van Gogh ne “La Notte Stellata”, Kandiskij ne “Il Cavaliere Azzurro”, Mirò nel suo “Figure di Notte guidate da tracce fosforescenti di lumache”, per citarne alcuni. Una vera e propria rivoluzione. 

Una riflessione interessante: cosa lega il cobalto a Bitcoin? 

Al di là dell’arte, la storia del cobalto ci mette di fronte a una riflessione che, per certi versi, potrebbe confermare qualcosa che a noi di Young Platform sta molto a cuore: come anticipato sopra, il tema è relativo all’accentramento della catena di approvvigionamento e ai rischi che tale oligopolio porta con sé. In sintesi, si tratta del parallelismo tra il passaggio dal blu oltremare al blu cobalto e la transizione dal gold standard al sistema a valuta fiat. Ma procediamo per gradi. 

Dal blu oltremare al blu cobalto

Abbiamo visto che l’introduzione del blu cobalto nel 1802 ha avuto ricadute positive sul mondo artistico, dal momento che ha reso possibile la sperimentazione a basso costo di un colore considerato, fino a quel momento, abbastanza elitario. Tuttavia questa gradazione, molto utilizzata anche ai giorni nostri, è fortemente legata all’estrazione e alla raffinazione del cobalto, concentrata nelle mani di pochissimi attori

Tolta la questione etica, importantissima, legata allo sfruttamento del lavoro minorile e alla violazione dei diritti umani, che Repubblica Democratica del Congo e Cina, purtroppo, sembrano ignorare, consideriamo i meri aspetti logistici: quella del cobalto è una filiera in cui la totalità delle attività di estrazione e di raffinazione è concentrata, rispettivamente, per l’81% e per l’89% nelle mani di tre attori. Una situazione del genere, come vuole la teoria della diversificazione, è molto pericolosa perché rende il sistema vulnerabile agli shock, sia endogeni che esogeni. Infatti, eventi legati all’instabilità politica o alle questioni di economia interna da una parte, e ai disastri naturali o alle guerre dall’altra, potrebbero causare l’interruzione della fornitura a livello globale proprio perché i distributori della stragrande maggioranza del prodotto sono letteralmente tre. Il risultato, quindi, è una pesante dipendenza dell’industria globale da pochi attori, capaci di fare il bello e il cattivo tempo. 

Dal Gold Standard al Fiat Standard

Allo stesso modo, con l’annuncio del Presidente americano Richard Nixon il 15 agosto del 1971 – il Nixon Shock – si decretò la fine del Gold Standard, cioè si ebbe la fine della convertibilità del dollaro statunitense in oro, e si passò a un sistema basato sulla valuta fiat. Tale sistema, tuttora vigente, fa sì che il valore della valuta in questione, come potrebbe essere il dollaro USA, sia sostenuto esclusivamente dalla fiducia economica e politica di cui gode il governo emittente, nel nostro caso quello americano.

Questo passaggio, così come nel caso precedente, in qualche modo creò una situazione più “democratica” e discrezionale: se prima i governi facevano molta fatica nel finanziare grandi progetti di spesa pubblica, poiché vincolati al sottostante aureo, adesso hanno il controllo totale della moneta circolante e possono permettersi una maggiore flessibilità nella gestione dell’economia. Ma anche qui, seguendo la stessa logica di prima, c’è un tema legato all’accentramento, dal momento che il potere monetario, inteso come la capacità di controllare e gestire le politica economica, è concentrato nelle mani di pochi attori, le banche centrali – come la Federal Reserve o la Banca Centrale Europea

Tale centralizzazione, per quanto efficace nel regolare inflazione e scenari di crisi, non è assolutamente priva di rischi e, soprattutto, si basa molto sulla componente umana, fallace per definizione, come dimostrato durante la crisi dei mutui subprime del 2008. Il risultato finale è che, spesso, l’economia mondiale può muoversi in diverse direzioni in funzione delle decisioni di un manipolo di alti funzionari. Quando va bene evviva!, ma quando va male? 

La morale della favola: Bitcoin e decentralizzazione

La concentrazione di tanto potere in poche mani non è mai una cosa buona. Politica, economia, finanza, riunioni di condominio, gruppi di progetti universitari e squadre di calcetto funzionano male quando un’unica entità decide per tutti. Bitcoin nasce proprio per questa ragione: restituire il potere agli individui ed eliminare gli attori centrali ingombranti, o comunque ridurne l’autorità decisionale; sfruttare la decentralizzazione per creare un sistema democratico, dove ci si interfaccia tra pari senza la necessità di intermediari che, in qualche modo, decidano per il singolo o ne condizionino le scelte. Naturalmente, questa è solamente una tra le qualità e i casi d’uso di Bitcoin nel mondo reale. Se questa introduzione ti ha fatto scattare qualcosa, il consiglio è di dare un’occhiata a quanto abbiamo scritto sulla storia e sul funzionamento di BTC, per avere un’idea chiara e completa sulle potenzialità rivoluzionarie della regina delle criptovalute. 

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IA ed energia: l’integrazione del futuro?

IA ed energia: l'integrazione del futuro?

Intelligenza artificiale ed energia insieme potrebbero rivoluzionare il settore energetico. In che modo? Quali sono le previsioni per il futuro? 

L’intelligenza artificiale e l’energia, integrate in modo strategico, potrebbero rivoluzionare il settore energetico sotto tutti i punti di vista: dall’ottimizzazione delle strutture esistenti all’innovazione in aree tecnologiche cruciali. In questo articolo, analizzeremo la situazione attuale, le previsioni degli esperti per il futuro e le sfide che questa interazione dovrà inevitabilmente affrontare. 

Intelligenza artificiale ed energia: perché è necessaria una riflessione? 

Intelligenza artificiale ed energia devono essere pensate insieme, come due facce della stessa medaglia, per via del loro duplice e simbiotico rapporto: l’IA ha bisogno dell’energia, dunque del settore energetico, per esistere e il settore energetico ha bisogno del potenziale dell’IA per evolvere e innovarsi in un contesto in cui la domanda è in costante aumento.  

La rilevanza dell’argomento è tale che l’AIE (Agenzia Internazionale per l’Energia), un’organizzazione intergovernativa che lavora per la sicurezza energetica globale e la promozione di politiche energetiche sostenibili, ha pubblicato ad aprile 2025 un report dal titolo “Energia e IA”. In queste 304 pagine, l’obiettivo è dimostrare al mondo una tesi molto chiara: le potenzialità rivoluzionarie dell’intelligenza artificiale devono essere sfruttate per spingere al massimo l’innovazione e l’efficienza in un settore strategico come quello dell’energia. Questa integrazione, afferma l’AIE, è fondamentale per ottimizzare, ripensare e rinnovare un sistema che, giorno dopo giorno, deve soddisfare le esigenze crescenti della popolazione, dell’universo industriale e dei servizi.

Una volta chiarite le motivazioni, a questo punto è il momento di scendere più in profondità per rispondere a domande precise: quanto consumano – e consumeranno – i data center dedicati all’IA? Come verrà soddisfatta la richiesta? E ancora: in che modo l’IA può aiutare il settore energetico? Quali saranno le sfide principali? Vediamo cosa come hanno risposto gli esperti dell’AIE.

Perché l’intelligenza artificiale ha bisogno del settore energetico?

La risposta a questa domanda, come si può intuire, è semplice: perché consuma – tanto – e consumerà sempre di più, man mano che aumenterà la sua diffusione nei vari ambiti della vita quotidiana. Per dirlo in un altro modo, l’IA potrebbe rappresentare una rivoluzione paragonabile alla scoperta dell’elettricità, proprio a causa di questo status di tecnologia d’uso generale. A quanto pare, dalle parti di Wall Street lo sanno bene, dal momento che dal lancio di ChatGPT nel novembre 2022 fino alla fine del 2024, il 65% circa della crescita in market cap dell’S&P 500 è attribuibile ad aziende legate all’intelligenza artificiale. Questa percentuale, più o meno, equivale a 12 trilioni di dollari (dodici-mila-miliardi) – da segnalare anche l’interesse per la categoria delle Crypto AI, vedi il caso di Grayscale

Come nella più classica delle dinamiche circolari, un’iniezione così imponente di capitale ha provocato la corsa agli investimenti, con le principali aziende tech che prevedono di destinare fino a 300 miliardi di dollari in attività, impianti e attrezzature connesse all’intelligenza artificiale, solo nel 2025. Naturalmente, gran parte di questi finanziamenti viene assorbita dai data center, essenziali per la formazione e l’implementazione dell’IA, ma estremamente energivori. 

Quanto consumano i data center?

I data center, definibili come un complesso di server e sistemi di archiviazione per l’elaborazione e la conservazione dei dati, attualmente rappresentano circa l’1,5% della quota di consumo mondiale di elettricità, cioè 415 TWh (Terawattora): un data center progettato per l’IA, ad esempio, può richiedere lo stesso quantitativo di elettricità di 100.000 famiglie medie, mentre quelli in costruzione – sensibilmente più grandi – potrebbero arrivare a 20 volte tanto. 

Volendo fare un ragionamento in prospettiva futura, dal 2017 ad oggi i data center hanno incrementato il consumo di elettricità del 12%, cioè quattro volte più velocemente del consumo totale a livello globale. Questo significa che se il Pianeta Terra, dal 2017, ha aumentato il fabbisogno elettrico del 3%, i data center hanno richiesto una quantità di energia quattro volte superiore a quel tasso di crescita. Inutile dirlo, il motore più importante di questo incremento è l’intelligenza artificiale, seguita dai servizi digitali, anch’essi molto richiesti. In tutto ciò, l’AIE comunica che, nel 2024, la top 3 consumatori a livello mondiale vede gli Stati Uniti in testa (col 45% del totale), seguiti dalla Cina (25%) e dall’Unione Europea (15%).

Dunque se, ad oggi, il consumo dei data center equivale a 415 TWh, le previsioni del report dell’AIE stimano che entro il 2030 questa quota raddoppierà, arrivando a circa 945 TWh, un valore di poco superiore a quello che utilizza il Giappone intero. Per quanto riguarda le proiezioni al 2035, il report parla di “forbice”, poiché inserisce nel calcolo variabili legate allo sviluppo di soluzioni efficienti di risparmio energetico. In ogni caso, la forbice va da un minimo di 700 TWh a un massimo di 1.700 TWh

Questo incredibile potenziamento è legato sia alla maggiore “presenza fisica” di data center in giro per il mondo, sia all’intensificazione dell’utilizzo degli stessi, immaginando che, in futuro, l’IA si diffonderà in ogni angolo delle città in cui vivremo. Infatti, a livello di consumi, l’impatto più significativo lo si ha nella fase di funzionamento piuttosto che in quelle di produzione o configurazione: un chip da 3 nanometri di ultima generazione richiede circa 2,3 MWh (Megawattora) per wafer – la fetta circolare di silicio su cui vengono fabbricati i circuiti – per essere prodotto, 10 MWh per essere configurato e 80 MWh per il funzionamento durante un ciclo di vita di cinque anni.  

Come soddisfare questa domanda nel futuro?

Il report risponde nell’unico modo possibile e cioè con una gamma diversificata di fonti energetiche. In particolare, nello scenario base – ottenuto a partire dall’elaborazione delle condizioni attuali, senza inserire variabili ottimistiche o pessimistiche – le rinnovabili e il gas naturale dovrebbero guidare questo mix energetico, con le prime a coprire circa la metà della domanda (450 TWh) e il secondo responsabile per quasi un quarto (175 TWh). A seguire, l’energia nucleare che, con l’implementazione dei piccoli reattori modulari (SMR, small modular reactors), potrebbe contribuire con un apporto di poco inferiore al gas naturale. 

Spostiamo ora il focus sul settore energetico. 

Perché il settore energetico ha bisogno dell’intelligenza artificiale?

Perché, come è evidente, l’intelligenza artificiale è in grado di ottimizzare ogni aspetto dell’ambito energetico: esplorazione, produzione, manutenzione, sicurezza e distribuzione. In due parole, applicare l’IA al settore energetico, come abbiamo anticipato all’inizio di questo articolo, potrebbe tradursi nella sua rivoluzione. Vediamo qualche caso specifico: 

IA ed energia insieme nell’industria del petrolio e del gas

Il report ci informa che in quest’area, l’adozione del connubio vincente intelligenza artificiale-energia si è verificata in anticipo rispetto alla media. Gli utilizzi principali fanno riferimento all’ottimizzazione dei processi di ricerca e identificazione dei giacimenti, all’automatizzazione delle attività legate all’estrazione degli idrocarburi – gestione dei pozzi, controllo dei flussi e separazione dei fluidi – ma anche a tutto ciò che è relativo a sicurezza e manutenzione: rilevazione delle perdite, manutenzione preventiva e riduzione delle emissioni. In futuro, segnala l’AIE, questa integrazione potrebbe tradursi in un risparmio del 10% dei costi operativi in acque profonde. 

Intelligenza artificiale nel settore elettrico

Nel campo dell’energia elettrica, il report dell’AIE prevede che l’IA avrà un ruolo fondamentale nel bilanciamento delle reti, che stanno diventando sempre più digitalizzate e decentralizzate – come avviene nel caso dei pannelli solari sui tetti. Nello specifico, con l’IA sarebbe possibile migliorare la previsione e l’integrazione della generazione di energia rinnovabile riducendo il curtailment – la riduzione forzata – e, quindi, le emissioni. In parole semplici, ciò vuol dire che l’intelligenza artificiale, grazie alla sua capacità di analizzare serie infinite di dati, sarebbe in grado di fare previsioni più accurate sulla produzione di energia rinnovabile (influenzata dal meteo) e sulla domanda media. In questo modo, si riuscirebbe a integrare la rinnovabile con altre fonti di energia in maniera più precisa e intelligente, evitando sprechi inutili connessi al blocco arbitrario dell’elettricità in eccesso (curtailment). 

C’è poi un tema interessante legato all’aumento di efficienza delle reti già esistenti. In due parole, integrare l’IA consentirebbe di sbloccare fino a 175 GW (Gigawatt). Come? Con l’utilizzo di sensori remoti e strumenti di gestione capaci di leggere ed elaborare in tempo reale enormi quantità di dati. Attualmente, le reti – o linee di trasmissione – elettriche trasportano una quantità massima di elettricità stabilita in base a condizioni statiche e prudenti, calcolate con un margine di sicurezza molto ampio: durante la stagione estiva, ad esempio, la temperatura dell’aria o il vento vengono misurate in modo conservativo, per evitare che un flusso elettrico fuori misura provochi la fusione dei cavi o problemi di natura simile. Il risultato è che, per la maggior parte del tempo, le reti lavorano a basso regime. Con una gestione basata sull’intelligenza artificiale, queste condizioni passerebbero da statiche a dinamicheDynamic Line Rating, DLR – e consentirebbero un controllo in real time delle possibilità di carico delle reti stesse, con effetti positivi sulla quantità di energia circolante.   

Infine, l’intelligenza artificiale applicata al settore elettrico potrebbe fornire un contributo concreto al rilevamento dei guasti della rete e alla manutenzione preventiva delle centrali elettriche. Nel primo caso, velocizzando le operazioni di localizzazione dei problemi, con una riduzione della durata delle interruzioni del 30-50%. Nel secondo, ottimizzando le attività di identificazione dei potenziali danneggiamenti, segnalando in anticipo l’eventuale sostituzione di componenti cruciali, con risparmi stimati sui 110 miliardi di dollari entro il 2035.

IA nell’industria, nel trasporto e nel riscaldamento degli edifici

Il report, per concludere questa sezione, tocca rapidamente i tre ambiti appartenenti alla macrocategoria degli “usi finali”, cioè degli impieghi a cui l’energia è destinata dopo la distribuzione agli utilizzatori finali. Per quanto riguarda l’industria, l’AIE quantifica i benefici dell’implementazione di applicazioni IA con risparmi pari al consumo totale del Messico odierno. Poi, sui trasporti, si parla di tagli equivalenti all’energia utilizzata da 120 milioni di auto, grazie all’ottimizzazione del traffico e delle rotte. Infine, l’IA potrebbe migliorare la gestione dei sistemi di riscaldamento negli edifici civili e non, con riduzione dell’utilizzo dell’elettricità previsto pari a circa 300 TWh – quello che Australia e Nuova Zelanda producono in un anno. 

Intelligenza artificiale ed energia: le innovazioni

L’intelligenza artificiale può contribuire notevolmente all’innovazione energetica dal momento che è capace di ricercare, in tempi estremamente rapidi, le molecole in grado di migliorare gli strumenti esistenti. Grazie alla combinazione tra modelli predittivi e generativi e letteratura accademica sterminata, l’IA accelera esponenzialmente il processo di selezione dei candidati e di realizzazione di prototipi adatti. In particolare, quattro aree chiave beneficerebbero del potenziale dell’IA:

  • La produzione di cemento, rendendo più efficiente la ricerca e lo sviluppo di nuove miscele e riducendo l’utilizzo del clinker, componente molto inquinante che costituisce la base del cemento stesso.
  • La ricerca di materiali per la cattura di CO2, come i MOF (Metal Organic Frameworks), riducendo il consumo energetico e i costi associati alla CCUS (Carbon Capture, Utilization and Storage, il processo di cattura di CO2 finalizzato al riutilizzo o allo stoccaggio. 
  • La progettazione di catalizzatori per combustibili sintetici, cioè di sostanze che accelerano le reazioni chimiche per produrre combustibili a basse emissioni. La difficoltà nel progettare questo tipo di catalizzatori risiede nell’infinito numero di combinazioni possibili tra molecole, processo che l’IA è in grado di accelerare di molto. 
  • La ricerca e lo sviluppo delle batterie, facilitando i processi di test dei materiali, di previsione delle prestazioni, di ottimizzazione della produzione e di gestione del fine vita. 

Quali sono le sfide dell’integrazione tra IA e settore energetico?

Il report conclude presentando, come è giusto che sia, anche gli ostacoli che questo ambizioso progetto si troverà ad affrontare. Innanzitutto, l’AIE ci avverte del fatto che la crescente digitalizzazione, che pure ha implicazioni positive sulla sicurezza energetica, porta inevitabilmente con sé anche i rischi specifici, come la vulnerabilità ai cyberattacchi. Un problema fondamentale riguarda anche la sicurezza delle catene di approvvigionamento del settore energetico: i chip, come è noto, richiedono grandi volumi di terre rare e minerali critici, concentrati in poche aree del mondo – la Cina controlla il 98% della raffinazione del gallio. Un terzo tema è relativo al disaccoppiamento fra investimenti nei data center e investimenti nelle infrastrutture energetiche, vitali per il funzionamento del sistema. Infine, c’è il nodo da sciogliere sulla mancanza di competenze digitali e di personale qualificato, in tandem con lo scarso dialogo tra istituzioni, settore tech e settore energetico. 

Non so te, ma noi dopo la lettura e l’analisi di questo report siamo abbastanza convinti che l’intelligenza artificiale detterà legge anche in questo settore: oneri e onori, rischi e opportunità. Ma, d’altronde, chi non risica non rosica.  

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USA-Iran: la guerra si allarga? Occhio ai mercati

USA-Iran: la guerra si allarga? Occhio ai mercati

Gli USA attaccano l’Iran bombardando i siti nucleari: cos’è successo? Cosa ne pensano i mercati? Occhio al comportamento di Bitcoin! Qui il focus

Gli Stati Uniti hanno bombardato i siti nucleari iraniani nella notte italiana tra sabato 21 e domenica 22 giugno, entrando nel conflitto a fianco di Israele. In questo articolo cercheremo di capire cosa è successo, quali potrebbero essere le conseguenze e, soprattutto, come hanno reagito i mercati finanziari. E attenzione a Bitcoin! 

Gli Stati Uniti sono entrati in guerra contro l’Iran? 

Nella notte italiana tra sabato 21 e domenica 22 giugno, gli Stati Uniti hanno portato a termine la missione segreta “Martello di Mezzanotte” (Midnight Hammer), bombardando i siti nucleari iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan. L’attacco ha visto l’azione coordinata dell’aviazione e della marina militare americane ed è stato eseguito in circa 18 ore, in modo estremamente chirurgico. Se non hai la minima idea di cosa stiamo parlando, innanzitutto iscriviti al nostro canale Telegram, perché su certe cose occorre essere sul pezzo. Poi, mettiti comoda/o che ora ripercorriamo al volo gli ultimi avvenimenti.   

Perché gli Stati Uniti hanno bombardato l’Iran? 

La risposta è molto semplice: per neutralizzare le strutture in cui la Repubblica islamica dell’Iran, da anni, sta arricchendo l’uranio. Ora, arricchire l’uranio non significa necessariamente costruire un ordigno atomico, dal momento che l’energia nucleare, come sappiamo, viene utilizzata principalmente per scopi civili. 

Per esempio, l’uranio a basso arricchimento (LEU, Low Enriched Uranium), arricchito al 3-5%, è largamente impiegato come combustibile per le centrali nucleari, mentre già l’uranio ad alto arricchimento (HEU, Highly Enriched Uranium), arricchito oltre per oltre il 20%, è considerato weapon-usable”, cioè utilizzabile per le armi o, in generale, per il settore militare. Infatti, i reattori che alimentano la propulsione di sottomarini e portaerei nucleari, spesso fanno uso di uranio arricchito dal 50% al 90%. La Repubblica islamica, secondo l’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), aveva raggiunto un livello di arricchimento superiore al 60% – lo standard attuale per le armi nucleari statunitensi è al 93,75% –  soprattutto nella struttura di Fordow, considerata la più importante. Questo impianto, però, era già stato preso di mira dall’IAF (Israeli Air Force) nella notte tra il 12 e il 13 giugno. Allora passiamo alla seconda domanda.

Perché è stato necessario l’intervento degli Stati Uniti?

La risposta qui è un po’ più complessa: a causa dell’architettura della centrale di Fordow. Questo impianto, infatti, è unico nel suo genere e totalmente diverso dagli altri che abbiamo menzionato. Lasciando da parte le specifiche tecniche relative ai processi di arricchimento, la struttura di Fordow differisce dalle altre perché è stata costruita dentro una montagna. Questo dettaglio è cruciale perché, insieme alla contraerea iraniana, protegge gli scienziati nucleari e i costosissimi strumenti dai potenziali raid israeliani. È qui che subentrano gli USA.

L’esercito degli Stati Uniti è l’unico al mondo a possedere delle bombe progettate per penetrare fino a 60 metri di profondità ed esplodere una volta entrate nella struttura sotterranea: pesano circa 30.000 pound – 13.600 kg – e si chiamano GBU-57 MOP “bunker buster” (anti-bunker). Inoltre, la USAF (United States Air Force) è anche l’unica in grado di trasportare questi ordigni, grazie ai celebri bombardieri stealth B-2 Spiritstealth perché sono invisibili ai radar. 

Arriviamo al momento dell’operazione Midnight Hammer. Sette bombardieri B-2 Spirit si alzano in volo verso l’Oceano Pacifico, in quello che poi è stato definito un depistaggio: l’obiettivo era far credere agli iraniani che le destinazioni fossero Guam e Diego Garcia, basi militari americane situate rispettivamente nell’Oceano Pacifico e Indiano. Arriva il cambio di rotta, i B-2 adesso viaggiano verso Est, attraversano l’Oceano Atlantico e giungono sopra l’Iran dopo quasi 18 ore di volo ininterrotto, scortati dai caccia dell’aeronautica americana. Una volta vicini a Fordow e Natanz, i B-2 sganciano 14 di queste letali bombe e, nel mentre, un sottomarino della marina USA appostato nel Golfo Persico lancia 20 missili Tomahawk contro la centrale nucleare di Isfahan. Da quanto si legge, la contraerea iraniana non ha sparato neanche un colpo per difendersi. 

L’esito dell’operazione è ancora incerto. Donald Trump e la sua amministrazione, ovviamente, hanno parlato di successo totale e danni “monumentali”, mentre la controparte iraniana ha dichiarato che gli strumenti per l’arricchimento dell’uranio erano già stati spostati in un altro luogo segreto, sconosciuto a USA, Israele e AIEA. I primi report dell’intelligence americana, però, mostrano come l’attacco non abbia distrutto gli impianti come sperato, ma abbia solamente provocato danni tali da ritardare le operazioni nucleari di qualche mese .  

Cosa è successo dopo i bombardamenti USA?

Gli iraniani, naturalmente, hanno promesso una vendetta eterna e il Ministro degli Esteri ha parlato di “superamento della linea rossa”: le forze militari dell’Ayatollah Khamenei – guida suprema della Repubblica Islamica dell’Iran – hanno reagito con un attacco missilistico alla base americana in Qatar. La cosa curiosa è che prima dell’offensiva, il Qatar è stato avvertito proprio dagli ufficiali iraniani. Gli americani hanno quindi avuto tutto il tempo di evacuare il personale militare e preparare al meglio le difese. La risposta iraniana, infatti, è stata facilmente neutralizzata. 

Lato Stati Uniti, le dichiarazioni di queste ore sembrano indicare la volontà di non essere coinvolti in questa guerra. A quanto sembra, gli USA intendevano eseguire l’operazione Martello di Mezzanotte e ritornare nella loro posizione, senza intraprendere ulteriori azioni militari. Tuttavia, nella giornata di domenica, Donald Trump sul suo social Truth ha parlato di cambio di regime – il rovesciamento della dittatura islamica in Iran – scrivendo che “Non è politicamente corretto usare il termine “cambio di regime”, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di RENDERE L’IRAN DI NUOVO GRANDE, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime??? MIGA!!!”. Il giorno dopo, sempre su Truth, il POTUS ha dichiarato al mondo che il cessate il fuoco era in vigore, “ordinando” alle parti in causa di rispettarlo. 

Qualche ora dopo, Israele e Iran hanno ripreso a scambiarsi missili, ignorando totalmente quanto detto dal Presidente degli Stati Uniti, che ha reagito in modo visibilmente arrabbiato: “Sono due nazioni che si combattono da talmente tanto tempo, che non sanno più che c***o stanno facendo!”. Cinema totale. Adesso, però, sembra che effettivamente i due paesi abbiano messo la parola fine agli scontri. 

Il resto del mondo, ovviamente, ha condannato quanto accaduto e sta a guardare nell’attesa di capire come si comporteranno gli attori coinvolti in questa guerra, già ribattezzata la “guerra dei 12 giorni”. 

Come hanno reagito i mercati?

In primo luogo, diamo uno sguardo al petrolio, materia prima che più di tutte subisce gli effetti di quanto accade in Medio Oriente. Il prezzo del Brent e del WTI – per chiarimenti rimandiamo all’articolo sulle previsioni del prezzo del petrolio – all’inizio della giornata di lunedì 23 giugno, subito dopo l’attacco USA, hanno raggiunto i massimi da gennaio 2025, toccando rispettivamente 81,40$ e 78,40$, per poi ritracciare e oscillare fra territorio positivo e negativo.

La cosa incredibile, è che dal 23 al 25 giugno – momento in cui scriviamo — Brent e WTI hanno perso rispettivamente il 17,6% e il 16,6%, attestandosi sui 67$ e i 65,3$ dollari per barile. Movimenti così repentini verso il basso stanno a indicare che gli attori finanziari sono molto ottimisti e non pronosticano un’interruzione forzata delle forniture mondiali di petrolio e gas naturale liquido. Tutto dipenderà dai prossimi avvenimenti. 

Vediamo ora i principali listini in giro per il mondo. 

Le borse asiatiche

Partendo dal Giappone, Tokyo chiude in positivo, mettendo a segno un +0,39%. Stesso discorso per la Cina, con Shanghai e Hong Kong che aprono e terminano la sessione in positivo, chiudendo rispettivamente a +1,04% e +1,23%.

Le borse europee

Un po’ di calma piatta per le borse del Vecchio Continente, che si oscillano fra rosso e verde, rimanendo comunque vicine alla parità. Al momento in cui scriviamo, la peggiore è Francoforte, che nella giornata di oggi viaggia in territorio negativo perdendo lo 0,20%. Seguono Parigi con un +0,03%, Londra con un +0,05% e Milano, che mette a segno un +0,17%.  

Le borse americane

Per quanto riguarda Wall Street, essendo in questo momento ancora chiusa, faremo riferimento alla chiusura di ieri, martedì 24 giugno: l’S&P500 ha guadagnato l’1,11%, il Dow Jones l’1,19% e il Nasdaq, che ha chiuso meglio degli altri, un +1,43%. Anche qui, l’attacco degli Stati Uniti alle strutture nucleari iraniane non sembra aver generato troppa preoccupazione, anzi. 

Come si sta comportando Bitcoin?

Incredibilmente bene, anche se, stando allo storico, dovremmo smettere di utilizzare la parola “incredibile” e, al contrario, iniziare ad abituarci. Bitcoin sta dimostrando, evento dopo evento, di essere un asset che resiste e reagisce alle crisi e agli shock esterni in modo eccezionale. Questa resilienza potrebbe essere la conseguenza di una sempre più diffusa presa di consapevolezza tra singoli individui, aziende e investitori istituzionali, che Bitcoin rappresenti un rifugio – o, per dirla in modo coerente, un ₿unker – contro questo tipo di situazioni.

Volendo prendere giusto un paio di esempi, come il Covid Crash e l’invasione russa dell’Ucraina – trovi più informazioni sul nostro account Instagram – dopo sessanta giorni, Bitcoin aveva rispettivamente guadagnato il 21% e il 15%. Se prendiamo invece S&P500 e oro, a parità di situazioni, in occasione del primo evento, l’uno aveva messo a segno un +2% e l’altro un +3%, mentre nel secondo caso si parla, nell’ordine, di +3% e addirittura -9%

Questo comportamento si sta verificando anche nel caso dell’intervento USA in Iran: un’azione militare di questa portata, in teoria, avrebbe potuto generare il panico nei mercati finanziari, a causa del suo carattere improvviso e fortemente aggressivo. Il grafico, però, parla chiaro. Bitcoin, dopo aver perso circa il 5% nella notte fra domenica 22 e lunedì 23 giugno, arrivando a toccare i 98.000$, adesso si aggira intorno ai 106.000$. Ciò significa che dal bottom di lunedì, BTC ha rimbalzato recuperando la perdita e guadagnando l’8,8%. 

È chiaro che la correlazione non indica necessariamente causalità, dato che è possibile che siano intervenuti altri fattori contestuali. Tuttavia, ha senso iniziare a ragionare in questi termini: Bitcoin si starebbe affermando come un “coltellino svizzero” dell’economia globale, cioè come uno strumento utile per ogni imprevisto, economico o geopolitico. Ci stai facendo un pensiero? Dai un’occhiata a Bitcoin e alle criptovalute cliccando qui sotto.

Non fartelo raccontare, i “te l’avevo detto!!!” non piacciono a nessuno.

Litio: a cosa serve? Batterie, farmaci e utilizzi

Litio: a cosa serve? Batterie, farmaci e utilizzi

A cosa serve il litio? Cosa sono le batterie al litio? Come funziona il litio come farmaco? Scopriamo insieme perché questo metallo è così richiesto!

Il litio è un metallo color bianco-argentato che, negli ultimi anni, è diventato una risorsa critica estremamente richiesta dalle super potenze mondiali e non solo. I motivi dietro a questa crescita incredibile della domanda sono da ricercare nei suoi molteplici casi d’uso: batterie, farmaci, ceramiche, grassi lubrificanti e altro ancora. In questo articolo partiremo alla scoperta di un minerale diventato così popolare nel giro di pochissimi anni. Iniziamo!

Litio: che cos’è, chi lo controlla e chi lo se lo contende

Il litio è il metallo alcalino più leggero e meno denso sulla Terra, di colore bianco-argentato che, a contatto con acqua o aria, si ossida e prende una colorazione più scura. Presenta delle caratteristiche fisiche particolari che lo rendono estremamente richiesto in ambiti differenti, come vedremo in seguito. Tra queste, leggerezza, alta densità energetica – cioè la capacità di immagazzinare molta energia in poco spazio – e reattività sono le più importanti per il mondo dell’industria. 

Ma come funziona la filiera del litio? Qual è la geopolitica dietro questo metallo? Per rispondere a queste domande, abbiamo letto e studiato il report della AIE (Agenzia Internazionale dell’Energia) dal titolo “Global Critical Minerals Outlook”, pubblicato a maggio 2025. Cosa ci dicono gli esperti?

Chi sono i produttori principali di litio?

Il primo dato rilevante che ci fa capire l’importanza di questo metallo riguarda la sua produzione: nel 2024, l’estrazione globale di litio ha registrato un aumento significativo, pari o addirittura superiore al 35%, per un totale di 255 kilotonnellate (kt) – per fare un paragone, il grattacielo più alto del mondo, il Burj Khalifa, pesa circa 110 kt. La top 5 dei maggiori produttori di litio nel mondo è insolita, perché include delle nazioni di cui non si sente parlare spesso. 

Infatti, al primo posto troviamo l’Australia che, con 90 kt di litio estratto nel 2024, si prende la medaglia d’oro per distacco. Distacco che, secondo l’AIE, è destinato ad aumentare: entro il 2030 si prevede che il mining di questo metallo crescerà di un ulteriore 30/35%, raggiungendo quota 124 kt. Il secondo posto se lo prende la Cina, con 57 kt nel 2024, mentre l’ultimo gradino del podio spetta al Cile, che l’anno scorso ha prodotto 49 kt di litio, guadagnando lo status di produttore dominante dell’America centro-meridionale. Per il quarto posto dobbiamo spostarci nel continente africano, più precisamente in Zimbabwe con 23 kt all’attivo. Infine, in ultima posizione c’è un’altra nazione sudamericana, l’Argentina, che ha ricavato 13 kt di litio dalle sue miniere. In merito, l’AIE ci comunica che questo paese ha aumentato la produzione del 65% nel 2024, con l’obiettivo di diventare, nel 2030, un attore ancora più importante. 

Un altro dato da menzionare riguarda la concentrazione delle attività di estrazione: se nel 2024 i primi tre produttori erano responsabili del 77% della produzione mondiale di litio, entro la fine di questo decennio, l’AIE prevede che la quota scenderà al 67%. Un cambiamento del genere indica una certa diversificazione geografica, frutto della volontà diffusa di entrare in questo mercato. Gli analisti ritengono che, entro il 2030, la parte prodotta dal “resto del mondo” passerà dagli attuali 17 kt a 49 kt. Inoltre, la quantità di litio estratto a livello globale raddoppierà nei prossimi cinque anni, arrivando a un totale pari a 471 kt

Una volta estratto il litio, chi si occupa della raffinazione?

Nel 2024, secondo il report, la produzione globale di prodotti chimici raffinati è stata pari a 242 kt. La discrepanza fra il litio estratto (255 kt) e quello raffinato, naturalmente, è dovuta alle inefficienze intrinseche e inevitabili dei processi di purificazione. In ogni caso, queste attività sono concentrate per il 96% nei primi tre paesi della classifica dei raffinatori, ma si ritiene che entro il 2030 l’oligopolio perderà qualche quota, scendendo all’85%. A proposito di classifica, vediamo la top 5.

Al primo posto c’è la Cina, in posizione di dominio assoluto, che nel 2024 ha lavorato 170 kt di prodotti chimici di litio: da sola, la Repubblica popolare controlla il 70% della raffinazione totale a livello mondiale e non intende fermarsi, dato che al 2030 questa cifra dovrebbe salire a 277 kt. Il secondo posto va all’Argentina, che raffina la stessa quantità di litio che estrae, cioè 13 kt. Medaglia di bronzo per l’Australia, nazione che, a quanto pare, ha interesse solo nell’estrazione. Nella fantastica terra dei canguri, infatti, viene raffinato solo il 4,5% del litio raccolto, cioè 4 kt. In quarta posizione troviamo a pari merito Stati Uniti e Corea del Sud, con 3 kt di litio a testa. Con 1 kt prodotto nel 2024, l’ultimo posto di questa speciale classifica va al Giappone.

Tornando rapidamente alla Cina, l’AIE afferma che il Dragone, nonostante abbia un quasi-monopolio dei processi di raffinazione, in dieci anni potrebbe perdere una fetta rilevante di mercato. Nello specifico, la quota potrebbe passare dal 70% al 60% entro il 2035. Questo anche perché, sempre secondo le previsioni, l’Argentina e gli Stati Uniti dovrebbero aumentare i kt di litio raffinati, rispettivamente, del 270% e dell’800% – cioè da 13 a 49 kt e da 3 a 27 kt.

Il mercato del litio: qual è la domanda? 

Nel 2024, il litio ha visto una crescita della domanda del 30%: il settore energetico, ovviamente, ha trainato questo incremento, proprio per il ruolo fondamentale che questo metallo ricopre nella costruzione di batterie, macchine elettriche e componenti per le rinnovabili

Per quanto riguarda la domanda nel futuro, l’AIE immagina tre differenti tipi di scenario con tre differenti tipi di output. Gli scenari in questione sono chiamati STEPS, APS e NZE: lo scenario STEPS (Stated Policies Scenario o Scenario delle Politiche Dichiarate), è lo scenario base e rappresenta il futuro come la prosecuzione del presente, col mantenimento delle attuali politiche energetiche; lo scenario APS (Announced Pledges Scenario o Scenario delle Promesse Annunciate) presuppone che i governi raggiungano i loro obiettivi in materia energetica e climatica, come l’abbandono dei combustibili fossili e l’aumento delle energie rinnovabili; lo scenario NZE (Net Zero Emission) raffigura un futuro in cui il settore energetico globale ha raggiunto l’obiettivo di emissioni nette zero, entro il 2050.

Nel primo scenario – STEPS – la domanda di litio dovrebbe passare a 700 kt entro il 2035 e a 1.160 kt entro il 2050, crescendo quindi di quasi cinque volte rispetto al 2024. Nel secondo e terzo scenario – APS e NZE – la domanda sarebbe più alta, nell’ordine, del 30% e del 20% rispetto allo scenario base, arrivando quindi a 1.500 kt e 1.400 kt

E il prezzo? 

Il prezzo del litio è un tema che a prima vista può sembrare controintuitivo: dal 2023, il valore di questo metallo è diminuito dell’80%. Allora uno potrebbe chiedersi come possa essere possibile, dato che c’è stato un incremento di domanda del 30% nel solo 2024 e che nei prossimi venti anni la richiesta quintuplicherà. La risposta, come la legge della domanda e dell’offerta vuole, è proprio nell’offerta, che è cresciuta a dismisura ed è destinata a continuare su questo trend.

Il litio è il 25esimo materiale più abbondante sulla Terra e, al contrario dell’oro e di Bitcoin, non è scarso. Ciò vuol dire che se la domanda sale, anche del 30% in un anno, l’offerta si adegua più o meno agilmente e il prezzo rimane stabile o addirittura scende, nel caso di sovrapproduzione. Ma comunque, volendo dare due numeri, il costo del litio in una batteria tipica da 57 kWh – una batteria di un’auto elettrica comune di medie dimensioni – è calato da 67$ a 15$.   

Dato che si parlava di batterie e auto elettriche, passiamo alla prossima sezione, quella dei principali casi d’uso.

A cosa serve il litio? I principali casi d’uso

Il litio, come abbiamo sottolineato più volte, deve la sua popolarità principalmente al settore energetico, primo motore della domanda, in particolare per le batterie delle auto elettriche. Esistono, però, anche altre applicazioni, meno conosciute ma comunque fondamentali. L’industria farmaceutica, ad esempio, utilizza il litio come farmaco nel trattamento di alcuni disturbi psichiatrici, mentre il settore manifatturiero lo impiega nella lavorazione del vetro e della ceramica, ma anche nella lubrificazione dei macchinari. Vediamo caso per caso. 

Cosa sono le batterie al litio?

Le batterie al litio, o più correttamente le batterie agli ioni di litio, sono batterie estremamente funzionali perché più piccole, più leggere e allo stesso tempo più potenti delle batterie tradizionali, come quelle al piombo. Questo tipo di batteria rappresenta un’innovazione così importante che nel 2019 i suoi tre inventori hanno ricevuto il Premio Nobel per la Chimica

Oggi le batterie al litio alimentano smartphone, pc portatili, auto elettriche e altro ancora proprio perché questo metallo possiede una caratteristica fisica particolare che costituisce un vantaggio rilevante nei confronti dei suoi competitor: l’alta densità energetica. Detto facile, ciò vuol dire che, a parità di peso o volume, le batterie al litio riescono a conservare e rilasciare molta più energia rispetto alle batterie più datate e convenzionali. In più, sono ricaricabili. Una vittoria su tutti i fronti. 

Come funziona una batteria al litio? Senza andare troppo nello specifico, queste batterie funzionano grazie agli ioni di litio – motivo per cui è più corretto chiamarle batterie agli ioni di litio: uno ione, in due parole, è un atomo che ha perso un elettrone e che, quindi, assume una carica positiva. La batteria, poi, è composta da due elementi principali, ovvero il catodo e l’anodo. Quello che succede, spiegato in modo molto semplice, è che gli ioni di litio, durante la fase di scarica in cui la batteria fornisce energia, si muovono dall’anodo al catodo generando elettricità

Insomma, grazie all’invenzione di tre scienziati, adesso siamo in grado di produrre strumenti tecnologici sempre più compatti, leggeri ed efficienti. 

Il litio come farmaco 

Il litio nella medicina viene utilizzato principalmente per il trattamento del disturbo bipolare, una condizione psichiatrica caratterizzata da cambiamenti estremi dell’umore, per cui il paziente alterna stati di forte euforia e irritabilità – gli episodi di mania e ipomania – a periodi di profonda depressione. Questo particolare metallo, grazie alle sue proprietà, viene impiegato per ridurre quanto più possibile gli switch tra i due stati d’animo e, quindi, stabilizzare l’umore

L’efficacia del litio come farmaco in questo ambito viene scoperta alla fine degli anni ‘40 da John Cade, uno psichiatra australiano, quando fu catturato dai giapponesi durante la guerra: il medico si accorse che alcuni suoi compagni di cella, a causa della scarsa alimentazione, mostravano reazioni insolite a livello comportamentale. Al termine del conflitto mondiale, Cade riprese gli studi e scoprì che il carbonato di litio aveva un effetto calmante sulle cavie da laboratorio. Provò questo composto chimico anche su se stesso e su dieci pazienti e, documentando il trattamento, notò miglioramenti importanti sullo stato psichiatrico dei soggetti.

La scoperta, però, passò inosservata ma venti anni dopo lo psichiatra danese Mogens Schou, decise di riprendere in mano la scoperta e validarla a livello scientifico, seguendo le procedure del metodo sperimentale. Nel 1970, finalmente, la ricerca venne revisionata, accettata e quindi validata: il litio era senza dubbio un farmaco efficace per il trattamento del disturbo bipolare. 

Litio: effetti collaterali

Il litio, come ogni farmaco, non è privo di effetti collaterali. Tra quelli meno gravi, che non richiedono l’intervento istantaneo del medico, troviamo mal di stomaco, indigestione, perdita o aumento di peso, labbra gonfie, salivazione eccessiva e prurito. Ci sono poi altri effetti tali per cui è consigliato rivolgersi rapidamente a un medico, come forte sete, gonfiore alle gambe, difficoltà di movimento e svenimenti, anomalie del battito cardiaco e mal di testa forte. Infine, quelli che richiedono l’intervento immediato di un dottore: vertigini gravi e vista appannata, parlata confusa, forte sonnolenza, nausea e vomito. 

Altri casi d’uso 

Il litio, come già abbiamo anticipato, è utilizzato anche in altri settori, come quello manifatturiero, industriale e chimico. Vediamo alcuni esempi: 

  • Vetro e ceramiche: il litio viene impiegato per abbassare la temperatura di fusione di vetri e ceramiche, con notevoli risparmi energetici e, quindi, economici. Ha anche effetti positivi sulla resistenza, la durabilità e la lucentezza dei prodotti finali.
  • Grassi lubrificanti: i settori industriale e automobilistico fanno uso di grassi lubrificanti che contengono litio, perché estremamente resistenti all’acqua e alle alte temperature. 
  • Chimica organica e polimeri: alcuni composti del litio sono utilizzati con frequenza dalle industrie chimiche per via della loro qualità di potenti reagenti. In particolare, sono fondamentali per la realizzazione della gomma sintetica.

Siamo giunti al termine di questo lungo viaggio alla scoperta di questo metallo e dell’infrastruttura alla base della sua produzione, raffinazione, distribuzione e domanda. Il litio rimarrà così importante nel futuro? Verrà sostituito da altre tecnologie? Iscriviti al nostro canale Telegram o qui sotto a Young Platform per non perderti gli aggiornamenti!

Riunione FED giugno 2025: i risultati

Riunione FED giugno 2025: i risultati

Riunione FED giugno 2025: tassi stabili tra il 4.25% e il 4,50%, Powell conferma un atteggiamento wait and see

Si è appena conclusa la riunione della FED del 18 giugno 2025 in cui il Presidente Jerome Powell ha comunicato la decisione del FOMC sui tassi di interesse. Come previsto, il Comitato ha scelto di mantenere i tassi invariati tra il 4.25% e il 4,50%.

Riunione FED giugno 2025: come da previsione, i tassi restano invariati

Al termine della sua riunione del 18 giugno 2025, il Federal Open Market Committee (FOMC) ha annunciato la sua attesa decisione sulla politica monetaria statunitense. L’istituto guidato da Jerome Powell ha optato per lasciare invariati i tassi di interesse nel range tra il 4.25% e il 4,50%, come ampiamente previsto. 

Nel comunicato ufficiale, la Federal Reserve ha dipinto il quadro della situazione attuale affermando che, seppur ancora alta, l’incertezza sugli scenari economici futuri sia diminuita rispetto ai mesi scorsi. Ha poi ribadito che l’inflazione resta piuttosto elevata rispetto al target del 2%, mentre le condizioni del mercato del lavoro sono state definite solide, col tasso di disoccupazione stabile su livelli bassi. Infine, In merito alle future mosse – la cosiddetta forward guidance – Jerome Powell ha segnalato che la FED continuerà a monitorare attentamente l’insieme dei dati economici e l’evolversi del contesto. 

Nella conferenza stampa, Jerome Powell ha sostanzialmente rimarcato i punti toccati nel comunicato ufficiale: l’incertezza sul futuro provocata dai dazi doganali – annunciati e poi sospesi – e dall’instabilità geopolitica, non consentono una previsione chiara dell’evoluzione dello scenario economico. In particolare, ha sottolineato il dato relativo al PIL americano, in calo nel primo trimestre a causa della corsa all’import – il cosiddetto front-loading. Dall’altro lato, ha specificato che il mercato del lavoro rimane solido con un’occupazione ancora alta. Lato inflazione, l’ultimo CPI ha rilevato una crescita dello 0,1% anno su anno. Per cui la decisione di mantenere i tassi invariati, ha continuato Powell, è stata dettata dalla necessità di perseguire gli obiettivi del doppio mandato: bassa disoccupazione e inflazione al 2%,

Come si sono mossi i mercati

L’esito di questa riunione della FED di giugno era ampiamente previsto e i mercati hanno reagito in modo abbastanza contenuto all’annuncio della decisione sui tassi. S&P 500 ha chiuso in parità, il Nasdaq in positivo dello 0.13% e il Dow Jones in negativo dello 0,10%. In Europa, le borse viaggiano quasi tutte in territorio negativo:Milano, Francoforte e Parigi perdono tutte tra lo 0,7% e lo 0,8% , mentre a Londra il FTSE 100 si dimostra leggermente più forte con un calo dello 0,5%. 

Anche il mondo delle criptovalute reagisce in modo moderato. Bitcoin continua a muoversi nella zona compresa fra i 104.000$ e i 105.000$, così come Ethereum, fermo sulla soglia dei 2.500$. Leggermente più negativa Solana che perde lo 0,5% e scende a quota 145$ (al momento in cui scriviamo). 

Prossime riunioni della FED: taglio dei tassi all’orizzonte?

L’opinione condivisa è quella che vede almeno un paio di tagli dei tassi di interesse nelle prossime riunioni di settembre, ottobre e dicembre, anche a causa delle pressioni del presidente degli Stati Uniti. Recentemente, infatti, Donald Trump ha criticato fortemente Jerome Powell per il suo atteggiamento, considerato fin troppo cauto, arrivando a dire che è “stupido e lento, mi odia”. Aldilà di questo curioso episodio in linea con il personaggio di Trump, monitorare le decisioni delle più importanti banche centrali del mondo è fondamentale perché i cambiamenti nelle politiche monetarie hanno impatti concreti sui mercati: il taglio dei tassi potrebbe spingere gli investitori verso strategie più rischiose e asset volatili come Bitcoin e le criptovalute, storicamente, ne hanno sempre beneficiato. Per evitare di perdere aggiornamenti rilevanti per i tuoi investimenti iscriviti al nostro canale Telegram o direttamente a Young Platform cliccando qui sotto!

Italia e Germania: insieme, nel bene e nel male

Italia e Germania: insieme, nel bene e nel male

Italia e Germania. Quante volte ci siamo scontrati? Tra calcio, cibo e stile di vita, tante. Se prendiamo l’economia, però, siamo molto vicini. Come?

Italia e Germania, due nazioni, due popoli, due sistemi di pensiero apparentemente inconciliabili, le cui rivalità si notano in ogni settore della vita quotidiana: nelle partite di calcio, nella cucina, nella teutonica organizzazione contrapposta all’italica dolce vita, nel vestirsi, nel sandalo col calzino. Quando parliamo delle due economie, però, tutto cambia e l’interconnessione è evidente. In questo articolo, snoccioleremo un report della Banca d’Italia e vedremo in che modo e come questo stretto legame condiziona le relative economie. Partiamo!

Italia e Germania: quanto sono interdipendenti le due economie? 

Italia e Germania, stando al report della Banca d’Italia “Sincronizzazione e trasmissione: L’effetto del rallentamento tedesco sul ciclo economico italiano”, sono due economie fortemente e profondamente interconnesse e, di conseguenza, sincronizzate. Questa stretta interdipendenza si osserverebbe soprattutto nelle correlazioni tra due dei principali indicatori dell’attività economica: Produzione Industriale (PI) e Prodotto Interno Lordo (PIL). Il report, poi, ci spiega che nel periodo della “doppia recessione” – o duble-dip, una fase in cui due momenti di contrazione sono intervallati da uno di ripresa – degli anni 2008-2013, le correlazioni tra le due PI e quelle tra i due PIL sono state “eccezionalmente elevate”. Entrando nel dettaglio, ma non troppo: 

Italia e Germania a confronto: la Produzione Industriale

La Produzione Industriale, in macroeconomia, fa riferimento a tutte quelle attività che trasformano materie prime, energie e informazioni in beni di consumo. In altre parole, è il processo attraverso cui diversi elementi, ovvero l’input, vengono combinati insieme al fine di generare prodotti finiti, cioè l’output. I dati (Eurostat) relativi a questo indicatore per le economie italiana e tedesca, ci indicano che la sincronizzazione è rimasta notevolmente forte nel tempo. Ma quanto? Tanto, quasi il massimo: a partire dal 2009, la correlazione della Produzione Industriale è rimasta stabile su livelli elevati, vale a dire su valori superiori a 0,8, arrivando anche a toccare 0.9.

Per chi non fosse avvezzo ai numeri o alla statistica, la correlazione si misura con un coefficiente numerico, detto appunto coefficiente di correlazione, che va da -1 a +1. Per cui, se il valore del coefficiente è molto vicino a -1, significa che c’è un rapporto di correlazione negativa quasi perfetta, ovvero che i due fenomeni si muovono in direzioni opposte. Se, invece, il valore si aggira intorno allo 0, allora il rapporto è molto debole, quasi inesistente, Se, infine, il valore è prossimo a +1, allora i due fenomeni si muovono nella stessa direzione con forza simile.

Il fatto che, nel caso della Produzione Industriale, il valore del coefficiente abbia costantemente superato 0.8 arrivando nei pressi di 0.9, indica che i movimenti di crescita o contrazione dell’industria italiana dipendono, o comunque seguono con la stessa entità, quelli dell’industria tedesca. 

Italia e Germania a confronto: il Prodotto Interno Lordo

Anche qui, il report ci mostra come la correlazione fra il PIL tedesco e quello italiano sia stata abbastanza forte, sebbene con un andamento più variabile rispetto a quello misurato con la PI. Se diamo un’occhiata ai dati, il valore del coefficiente di correlazione è stato intorno a 0.8 nel periodo della doppia recessione – 2008-2013 – come un po’ in tutta l’Eurozona, per poi diminuire fino al 2018. In quest’anno, infatti, si è toccato il minimo storico a 0.25, che ha rappresentato il bottom del trend discendente.

Da quel momento la correlazione fra i due PIL è tornata a crescere col picco massimo registrato durante la recessione globale causata dalla pandemia da COVID-19. Ricordiamo, sempre a chi litiga coi numeri, che quando il valore cresce non significa che il PIL cresce, o viceversa: la correlazione misura l’intensità e la direzione dei movimenti, a prescindere dalla dimensione presa in considerazione. Sarebbe come dire “quando c’è bel tempo ci sono più persone al parco” e dedurre che, effettivamente, se c’è il sole la gente va al parco. A noi interessa capire se una relazione tra i due fenomeni esiste, non se chi va al parco si legge un libro, gioca a scacchi o pianifica l’invasione dello stato del Burmini – +10 punti se hai beccato la reference. 

In ogni caso, dalla Banca d’Italia ci comunicano che questa correlazione sui PIL non è casuale ma frutto dell’interconnessione fra i due sistemi economici, anche in ragione degli intensi scambi commerciali. Conseguentemente, è lecito affermare che i cicli economici di Italia e Germania mostrano dinamiche fortemente analoghe

Quali sono i settori più strettamente interconnessi?

Italia e Germania, come è stato dimostrato, sono due economie che viaggiano insieme, nel bene e nel male. Ma, volendo andare più in profondità, quali sono i settori più fortemente interdipendenti? Senza alcun dubbio, la risposta è: i settori manifatturieri. Infatti, i comparti e le filiere legate alla manifattura hanno un ruolo di grande rilievo nell’architettura delle due economie: in Germania rappresentano circa il 20% del PIL, in Italia il 17%. Se entrambe le nazioni, così interconnesse, condividono una presenza della manifattura pari quasi a un quinto della produzione economica totale, è logico supporre che le fortune di una faranno le fortune dell’altra e viceversa. 

Riguardo a quest’ultimo punto, è di stretta attualità il caso del forte rallentamento del settore dell’automotive. Il report, come vedremo anche in seguito, si occupa soprattutto del biennio 2018-2019 e ci spiega come gli “ostacoli” – tra virgolette, perchè si parla di nuove procedure di test delle emissioni – che hanno intralciato l’espansione dell’industria automobilistica tedesca, abbiano avuto ricadute pesanti anche in Italia. Questo, come sappiamo, non è un caso.

Un dato interessante, che dimostra quanto Italia e Germania siano in sinergia, è che lo Stato tedesco è il primo mercato di vendita per le imprese italiane, col 13% delle esportazioni – nel 2019. Inoltre, una “quantità considerevole” di produttori italiani di componenti automobilistiche – che nel Belpaese rappresentano quasi il 3% dell’indice della Produzione Industriale – esportano lì i loro prodotti. Il report, infine, conclude questa sezione avvertendoci sul fatto che, sebbene l’automotive sia un “traino significativo e un canale primario di trasmissione”, il rallentamento dell’economia tedesca ha effetti a livello sistemico, vale a dire intersettoriale, e non è limitato a quell’ambito in particolare. Tradotto, significa che una contrazione dell’economia di Berlino, per quanto concentrata sulle auto, ha implicazioni negative sull’economia di Roma nel suo complesso, a testimonianza dello stretto legame fra le due. 

La connessione fra Italia e Germania all’opera: il caso studio del 2018-2019

Come abbiamo anticipato, il report della Banca d’Italia prende in esame il rallentamento dell’economia tedesca nel 2018-2019 e studia le conseguenze di questo stop sull’economia dell’Italia, proprio per evidenziare le correlazioni di cui abbiamo parlato. Il dato politico che emerge, per spoilerare, è che questa frenata del settore manifatturiero tedesco ha avuto un impatto negativo e simultaneo sul PIL italiano, calcolato in circa l’1% del Prodotto Interno Lordo – nel 2019, il PIL italiano ammontava a quasi 2 trilioni di euro, dunque la perdita (o il mancato guadagno) si attesta sui 20 miliardi. Andiamo a dare un’occhiata a qualche dato.  

Effetti sull’economia tedesca

Il famoso rallentamento, ci dice il report, è iniziato nel Q1 – cioè nel primo trimestre – del 2018, per assumere proporzioni significative a partire dal Q3 dello stesso anno. In questo periodo, naturalmente, il settore manifatturiero ha visto una crescita modesta – ma non quello dei servizi, che si è dimostrato più solido. Questa flessione, secondo gli analisti, sarebbe dovuta a shock interni alla Germania, piuttosto che da eventi destabilizzanti a livello europeo. 

Nello specifico, si parla di “fattori temporanei” che hanno ostacolato la crescita tra cui: alti livelli di assenze per malattia, condizioni climatiche molto rigide che hanno inciso sul trasporto fluviale, scioperi e, forse il più rilevante, l’introduzione di una nuova procedura per il controllo delle emissioni, detta WLTP, implementata in seguito allo scandalo Dieselgate – ne abbiamo parlato brevemente nell’articolo sui fondi ESG. La procedura WLTP ha avuto un impatto non proprio leggero sulla filiera di produzione delle auto: i ritardi nell’ottenere tutte le certificazioni di conformità hanno creato un effetto a catena tale da sospendere l’assemblaggio di molti modelli, posticipando consegne e vendite. È facile immaginare gli effetti devastanti sull’indotto, dato che parliamo di un settore industriale che rappresenta un quinto del PIL: fabbriche di pneumatici, produttori di sedili, aziende che realizzano sistemi elettronici, fornitori di acciaio e plastica, aziende di logistica per il trasporto dei componenti, officine meccaniche e così via. 

Nel caso in cui avessi una creatività e un’immaginazione non troppo sviluppate, l’Unione Europea ha quantificato che, senza questo calo tanto improvviso quanto persistente, il PIL tedesco nel 2018 sarebbe stato di 0,6 punti percentuali più alto – circa 24 miliardi di euro. Il dato è ancora più incredibile se si va a isolare il mancato apporto del settore manifatturiero: se in media questo era di circa lo 0,8% (sul PIL), nel 2018 si aggirava intorno allo 0,2% e nel 2019 era addirittura negativo (-0,8%)

Ricadute sull’economia italiana

Per calcolare il contraccolpo del rallentamento tedesco sull’economia italiana, oltre alle misurazioni di natura macroeconomica, gli autori del report hanno diviso le imprese italiane in gruppo sperimentale e gruppo di controllo: nel primo gruppo, naturalmente, rientravano le imprese esposte al mercato tedesco, nel secondo quelle che esportavano in altri paesi o che non esportavano proprio. 

Poi, hanno ulteriormente suddiviso la misurazione in indicatori di sentiment e indicatori di valutazione. Il primo tipo col compito di valutare le percezioni delle imprese sull’economia italiana e sulle condizioni commerciali dell’impresa stessa, a tre mesi e a tre anni. Il secondo tipo con lo scopo di chiedere a queste aziende delle valutazioni sul futuro a livello di decisioni economiche concrete: domanda attuale e prevista, piani di investimento, eventuali assunzioni di dipendenti e via dicendo. 

Ça va sans dire, nel 2019 entrambi gli indicatori sono risultati peggiori per le imprese che rientravano nel gruppo di controllo, ovvero quelle che erano fortemente legate al tessuto economico tedesco. Queste aziende, in particolare, si attendevano una domanda più bassa, proprio a causa della contrazione tedesca, che, con un po’ di ritardo, si è tradotta in un atteggiamento conservativo di riduzione degli investimenti e delle assunzioni

Per concludere, come abbiamo spoilerato all’inizio, la crisi del settore automobilistico tedesco ha comportato per l’economia italiana una perdita stimata in un punto percentuale di PIL, principalmente nel 2019. Anche gli investimenti delle imprese esportatrici in Germania sono calati del 2,5%, mentre non sono state registrate ripercussioni sull’occupazione. 

Qual è la situazione attuale?

Italia e Germania, come è logico che sia, restano due sistemi economici estremamente intrecciati. Stando ai dati che ci comunica l’ISTAT, nel 2022, il valore complessivo degli scambi commerciali tra Germania e Italia ha raggiunto circa 168,5 miliardi di euro, con esportazioni italiane per 77,5 miliardi e importazioni dalla Germania pari a 91 miliardi. Nel 2023, l’interscambio ha toccato i 164 miliardi di euro, suddivisi in 75 miliardi di esportazioni italiane e 89 miliardi di importazioni tedesche. Nel 2024, la somma ammontava a circa 155 miliardi di euro, ripartiti in 70 miliardi di export e 85 miliardi di import. Infine, il Q1 del 2025 ha registrato un valore totale di 40 miliardi di dollari – 19 miliardi in entrata contro 21 miliardi in uscita. Insomma, dal punto di vista economico, la Germania rappresenta il principale partner commerciale dell’Italia, sia come destinazione principale delle esportazioni italiane, sia come principale fonte delle importazioni nel nostro Paese.

Siamo arrivati al termine di questo viaggio alla scoperta delle connessioni e delle interazioni che caratterizzano il rapporto economico tra Italia e Germania, nel bene e nel male. Anche lo “scontro sociale” tra italiani e tedeschi è destinato a durare a lungo e magari su qualche cosa hanno pure ragione loro. Ma… 

via al contropiede con Totti, dentro il pallone per Gilardino… Gilardino la può tenere anche vicino alla bandierina, cerca l’uno contro uno, Gilardino, dentro Del Piero, Del Piero… Goooool! Aleeex Deeel Piero! Chiudete le valigie! Andiamo a Berlino! 

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Previsioni prezzo del petrolio: voci dagli esperti

Prezzo petrolio: le previsioni 2024 degli esperti

Le previsioni sul prezzo del petrolio per il 2025/2026. Cosa ci dicono gli esperti? Quale sarà il prezzo del Brent e del WTI nel prossimo biennio?

Le previsioni per il prezzo del petrolio nel 2025/2026 sono formulate dagli esperti sulla base di diversi fattori come l’andamento dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente e le relative sanzioni dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Inoltre, il prezzo del barile dipende dall’offerta, che può essere modificata artificialmente dai membri dell’OPEC+, l’organizzazione di esportatori di petrolio che controlla il 40% della produzione mondiale. Vediamo insieme cosa ci dicono gli analisti

Prezzo del petrolio oggi: qual è la quotazione?

Qual è il prezzo del petrolio oggi? È la prima domanda da porsi, perché conoscere il presente – e il passato – è il modo migliore, se non l’unico, per cercare di capire cosa succederà nel prossimo futuro. In questa sezione, pertanto, daremo uno sguardo alla quotazione del petrolio greggio prendendo i due benchmark di riferimento a livello mondiale, ovvero il WTI e il Brent

Qual è il prezzo del petrolio WTI?

Il prezzo del WTI (West Texas Intermediate) – al momento in cui scriviamo – oscilla fra i 71 e i 72 dollari per barile. Se prendiamo in considerazione la storia recente di questo petrolio estratto negli USA, noteremo che, in realtà, il prezzo attuale è determinato quasi esclusivamente dagli ultimissimi eventi geopolitici, che tratteremo in un paragrafo specifico. Il prezzo del WTI, infatti, era in discesa dal maggio del 2022: dai circa 113$/barile di tre anni fa, aveva toccato i 57$ ad aprile di quest’anno, per poi ricominciare a salire leggermente a causa dei dazi di Trump e guadagnare 10$ negli ultimi tre giorni. 

Qual è il prezzo del petrolio Brent?

Il prezzo del Brent (estratto dai giacimenti nel Mare del Nord) – al momento in cui scriviamo – si attesta sui 73,7 dollari per barile. Guardando anche qui al quadro generale, la storia del prezzo del Brent è praticamente identica a quella del WTI: dopo tre anni di declino, dai 115$/barile di maggio 2022 ai 60$ di aprile 2025, il petrolio del Mare del Nord ha ripreso a crescere dopo l’annuncio dei dazi per poi schizzare verso l’alto a giugno.

Ora che abbiamo dato un’occhiata ai movimenti di prezzo, è ora di farsi la domanda delle domande: Cosa determina i movimenti verso l’alto e verso il basso? E quindi:

Da cosa dipende il prezzo del petrolio?

Il prezzo del petrolio, fondamentalmente, dipende da tre fattori decisivi: le decisioni dell’OPEC+, il valore del dollaro e la domanda globale. Analizziamoli uno per uno. 

Chi stabilisce il prezzo del petrolio? L’OPEC+ (ma non solo)

L’OPEC+ è l’organizzazione che riunisce i paesi esportatori di petrolio (Organization of the Petroleum Exporting Countries) e viene considerata, proprio in virtù della sua capacità di stabilire i prezzi, una sorta di cartello. L’OPEC+ nasce nel 2016 ed è l’estensione dell’OPEC, attiva dal 1960. La principale differenza fra le due, risiede nel numero degli stati membri: la primissima formazione dell’OPEC includeva Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait e Venezuela. Nel tempo, si sono aggiunti otto stati produttori di petrolio, tra cui Libia, Algeria ed Emirati Arabi Uniti. Infine l’OPEC+, la versione allargata dell’OPEC, include altri dieci paesi come Russia, Messico. Barhein, Brunei, Oman e Azerbaijan. 

La creazione di un “cartello del petrolio” è stata frutto della necessità dei paesi fondatori di contrastare l’egemonia delle cosiddette Sette Sorelle, vale a dire di quelle compagnie che per tutto il ‘900 hanno avuto il monopolio del mercato: le europee British Petroleum e Royal Dutch Shell insieme alle statunitensi Exxon, Texaco, Mobil, Gulf Oil e Standard Oil of California. L’estensione a OPEC+ nel 2016, invece, è stata dettata dalla necessità di contrastare l’aumento delle estrazioni di petrolio negli Stati Uniti, per ritornare ad avere in mano una quota rilevante di mercato. 

L’OPEC+ quindi, avendo il controllo di metà della produzione mondiale e dell’80% delle riserve di greggio, è in grado di influenzare il prezzo del petrolio in modo arbitrario, gestendone i livelli di produzione. In parole semplici, ciò significa che questa alleanza si accorda per aumentare o ridurre la produzione di barili al fine di mantenere i prezzi stabili: ad alta domanda, sale il prezzo per barile e l’offerta viene adeguata; a bassa domanda, il prezzo scende e l’offerta viene tagliata.

Il comportamento dell’Organizzazione negli ultimi mesi, però, è stato diverso dal solito: al calo dei prezzi del petrolio, la produzione di barili è rimasta stabile. Secondo gli analisti, l’Arabia Saudita, che può essere considerata il paese leader fra i membri, si sarebbe “stancata” di sostenere i costi maggiori di questa strategia di equilibrio dei prezzi. Questo perché è il paese che, più degli altri, rinuncia ad esportare greggio proprio nell’ottica di mantenere la quotazione a un livello profittevole per tutti. Il problema è che, allo stesso tempo, tale impegno non viene rispettato da alcuni fra i paesi membri (Kazakistan e Iraq), i quali hanno costantemente sforato il tetto accordato. Inoltre, ci sarebbe anche la volontà di “accontentare” Donald Trump, mantenendo il petrolio economico, con lo scopo di rafforzare l’alleanza strategica con gli Stati Uniti. Infine, nonostante le recenti tensioni, il mercato è stato valutato come “sano”, dal momento che nel Q1 del 2025 il consumo di petrolio è aumentato di 1,2 milioni di barili, ai massimi dal 2023.

Fuori dall’ecosistema OPEC, i maggiori estrattori di greggio sono Stati Uniti, Canada, Cina e i paesi parte dell’OECD (Organization for Economic Co-operation and Development, in Italia conosciuta come OCSE), organizzazione che conta 36 stati membri. 

Il valore del dollaro statunitense 

Negli ultimi cinquant’anni, il dollaro statunitense è stata la valuta di riferimento per la compravendita del petrolio in giro per il mondo. Non a caso, è stato coniato ad hoc il termine petrodollaro, proprio per indicare le immense riserve di valuta che i paesi produttori incassano con la vendita di questo combustibile fossile. Conseguentemente, il valore del dollaro USA influenza in modo diretto il prezzo del barile di petrolio. Facciamo un esempio pratico: quando l’Italia compra un barile di Brent, che abbiamo visto aggirarsi sui 74$ dollari per barile, deve convertire gli euro in dollari. Il prezzo del singolo barile, quindi, è influenzato dal cambio euro/dollaro e risente della forza o debolezza della valuta statunitense. Volendo riassumere con uno slogan, più il dollaro è forte nei confronti dell’euro, più il prezzo del petrolio sale, e viceversa. Naturalmente, questo discorso vale per tutte le valute. 

Gli Stati Uniti e il dollaro continuano ad avere un ruolo dominante in queste dinamiche, data la potenza economica e militare del paese a stelle e strisce. Tuttavia, qualcosa sta cambiando. Innanzitutto la Cina, di gran lunga il paese che importa più fossile, ha iniziato a comprare barili attraverso la sua valuta, lo yuan. In secondo luogo, l’Arabia Saudita non ha rinnovato l’accordo cinquantennale che nel 1974 aveva siglato con gli USA e che prevedeva la vendita del petrolio in dollari e l’investimento dei proventi in debito americano, in cambio di protezione militare e vendita di armi. Con Trump, come abbiamo anticipato, si sta verificando un riavvicinamento fra i due paesi, ma è innegabile che molte potenze nel mondo stiano cercando di attuare politiche di dedollarizzazione

Domanda globale

Naturalmente, come la legge della domanda e dell’offerta vuole, il prezzo del petrolio è determinato anche e soprattutto dalla richiesta globale. L’offerta, come detto prima, è prerogativa dell’OPEC+ e degli altri attori di mercato, ma la domanda è frutto della somma di più variabili interconnesse. Attualmente, il consumo di petrolio a livello mondiale si aggira sui 100 milioni di barili al giorno, con Cina, Stati Uniti e Unione Europea in testa.

Tra i fattori che incidono sulla domanda di petrolio, al primo posto troviamo la crescita economica globale perché più l’economia mondiale si espande, più aumenta l’energia destinata alla produzione industriale, ai trasporti e alle attività energivore, più c’è richiesta. Ciò vale anche al contrario, come nel caso del periodo del Covid: il mondo si ferma, le industrie si spengono, la domanda diminuisce drasticamente, il prezzo del petrolio crolla. 

Un altro fattore determinante è legato alle politiche energetiche e alla transizione ecologica. Questo perché, ovviamente, più ci si affranca dai combustibili fossili, più la domanda si riduce, più il prezzo dovrebbe abbassarsi. Questa correlazione non è sempre così automatica e dipende in parte dalle decisioni dell’OPEC+. 

Un terzo fattore riguarda i cosiddetti shock esogeni, vale a dire quegli eventi esterni alle leggi dell’economia come i disastri naturali e le guerre, che potrebbero danneggiare le linee di rifornimento o, in generale, minare gli equilibri di produzione. È stato così nel caso dell’invasione russa dell’Ucraina, che ha causato la cessazione dei rapporti fra Unione Europea e Russia determinando un rialzo dei prezzi di petrolio e gas naturale – e dell’inflazione – durato fino a metà 2022. 

Previsioni prezzo del petrolio: cosa prevede il biennio 2025/2026?

Fare previsioni sul prezzo del petrolio in questo periodo è estremamente difficile, a causa degli stravolgimenti di natura geopolica ed economica che, da tre anni ormai, mandano nel caos le istituzioni finanziarie di tutto il mondo. Inoltre, la recentissima escalation del conflitto fra Israele e Iran contribuisce a alimentare la forte incertezza sul futuro a breve e medio termine. 

Un’analisi indipendente della EIA (U.S. Energy Information Administration) datata 10 giugno 2025, cioè due giorni prima dell’attacco dell’aviazione israeliana nei confronti degli impianti nucleari iraniani, prevedeva i seguenti prezzi per il prossimo biennio: 

  • Previsioni prezzo del petrolio Brent: nel Q2 del 2025 le stime indicavano un prezzo di circa 65$ per barile, nel Q3 di 62$ e nel Q4 di 61$, con una media annuale stimata di 66$/barile. Nel 2026 il trend discendente sarebbe dovuto proseguire, con un prezzo di 60$/barile nel Q1 2026, di 60$ nel Q1 e nel Q2, 59$ nel Q3 e 58$ nel Q4. La media annuale: 59,2$ per barile
  • Previsioni prezzo del petrolio WTI: per il 2025 le misurazioni rilevavano un prezzo di 62$ nel Q2, 58,6$ nel Q3, 57$ nel Q4, con media annuale di 62,3$/barile. Anche qui, 2026 all’insegna del ribasso con 56$ per barile nel Q1, 56,6$ nel Q2, 55,6$ nel Q3 e 54$ nel Q4. Media annuale: 55,6$/barile

Le motivazioni dietro queste previsioni sono da ricercare nel fatto che ci si aspetta un surplus, cioè un eccedenza, di offerta rispetto alla domanda, con conseguente accumulo delle scorte globali – e, come abbiamo visto prima, fisiologico calo del prezzo del greggio. Questa argomentazione è sostenuta  anche da un report dell’AIE (Agenzia Internazionale dell’Energia), nel quale si evidenzia che, nel 2025, gli investimenti nel settore dei combustibili fossili ammonteranno a 1,1 trilioni di dollari, la metà rispetto al capitale destinato all’energia rinnovabile. A ciò, si aggiunge un crollo del 6% degli investimenti dedicati all’upstream petrolifero, cioè alla ricerca di nuovi giacimenti da sfruttare, e di quelli verso le raffinerie, in calo al livello più basso degli ultimi 10 anni – sotto i 30 miliardi. Tutto questo sembra indicare un chiaro riorientamento dell’allocazione del capitale. Ma c’è un ma.

L’andamento del petrolio nel 2025: occhio all’escalation fra Israele e Iran

I raid dell’aviazione israeliana sugli impianti nucleari iraniani di Natanz e Tabriz del 12-13 giugno, hanno cambiato tutte le carte in tavola nel giro di 24 ore. La risposta della Repubblica Islamica di Teheran è arrivata dopo qualche ora e ha contribuito ad inasprire la già delicatissima situazione. Lasciando un secondo da parte i discorsi relativi alle alleanze geopolitiche nell’ecosistema OPEC+, che potrebbero portare a un taglio netto e coordinato della produzione di petrolio, l’aggravarsi di questo conflitto avrebbe conseguenze dirette sulla circolazione degli idrocarburi e delle merci. Perchè? Perchè da quelle parti sono presenti due stretti di mare fondamentali per il commercio mondiale: lo Stretto di Bab-el-Mandeb e quello di Hormuz

Per quanto riguarda il primo dei due, abbiamo avuto modo di parlarne quando abbiamo scritto della tempesta perfetta che ha portato al boom del prezzo dell’oro. Lo Stretto di Hormuz, invece, è una novità e lo affrontiamo qui per la prima volta: come ha affermato il Ministro della Difesa Guido Crosetto, questo collo di bottiglia “sarà uno dei punti critici nelle prossime settimane e nel medio-lungo termine”. Per dare qualche informazione di natura geografica, parliamo di un passaggio marittimo strategico situato tra l’Iran (a nord) e l’Oman (a sud), che collega il Golfo Persico a ovest con il Golfo di Oman e, di conseguenza, con il Mare Arabico e l’Oceano Indiano a est. 

La sua importanza deriva dal fatto che è il punto di transito obbligato per una porzione enorme del petrolio e del gas naturale liquefatto (il GNL) mondiale esportato dai principali produttori del mondo: Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Qatar, Iraq e Iran. Per capirci, si stima che attraverso questo stretto di mare passi ogni giorno circa il 40% della produzione mondiale di petrolio. Lato scambi commerciali, lo Stretto di Hormuz vede il passaggio di oltre 3.000 navi al mese. È dunque evidente come la chiusura di questo passaggio al trasporto marittimo causerebbe un rialzo dei prezzi e danni incalcolabili per l’economia mondiale. 

Per concludere, la situazione è così incerta e complicata che perfino gli analisti di settore non vogliono sbilanciarsi e preferiscono monitorare l’evoluzione della crisi. Un articolo di lunedì 16 giugno – targato CNBC – recita letteralmente: “I colossi dell’energia Baker Hughes e Woodside evitano di fare previsioni sul petrolio mentre il conflitto Iran-Israele si intensifica”. Sulla base di ciò, il consiglio è quello di entrare nel nostro canale Telegram e restare sul pezzo, perché questa crisi ci interessa moltissimo e non tarderemo a pubblicare aggiornamenti – oppure puoi iscriverti direttamente su Young Platform qui sotto!

Diversificazione: cos’é e perché é importante

Diversificazione: cos’è e perché è importante

La diversificazione è una delle nozioni fondamentali dell’arte dell’investire, anche se in troppi la snobbano. Ma cos’è? E perché è così importante? 

La diversificazione è un principio fondamentale che dovrebbe guidare la strategia di investimento di chiunque voglia addentrarsi nel mondo crypto. È un concetto proprio della finanza tradizionale, ma che ha accompagnato l’umanità durante tutto il processo di civilizzazione. In questo articolo, cercheremo di rispondere a due domande tanto semplici quanto complete: che cos’è la diversificazione? E perché è tanto importante?

Diversificazione: che cos’è e cosa significa?

La diversificazione, in finanza, è definita come una strategia o principio fondamentale per minimizzare il rischio: concretamente, significa distribuire le risorse finanziarie su una gamma eterogenea di asset, invece di concentrare il capitale su un singolo investimento. L’esempio principe, il classico intramontabile, utilizzato da chi vuole spiegare in modo semplice questo concetto, è quello delle uova nel paniere. Più precisamente, la frase “non mettere tutte le uova nel paniere!”, accompagnata da un indice che oscilla avanti e indietro, solenne come un oracolo. 

Scherzi a parte, il paragone è calzante, diversificare significa proprio evitare di mettere tutte le uova all’interno dello stesso paniere. Il motivo è semplice: se tutte le uova sono in un unico paniere e questo, per disgrazia, dovesse scivolarti dalle mani, ti ritroveresti con una frittata immangiabile. In altre parole, avresti perso tutto. Ma se lo stesso numero di uova fosse stato sapientemente distribuito su più panieri, avresti perso il contenuto di uno di questi, preservando il resto. Allo stesso modo, come si può capire con semplice intuito, spalmare gli investimenti su più asset diversi fra loro riduce di molto il rischio di perdere tutto in una sola botta. E il portafoglio ringrazia.

Se ci pensi, come abbiamo anticipato nell’introduzione, questa regola ha attraversato i secoli insieme all’umanità, fin dai tempi dei primi insediamenti. Già nel Neolitico, le comunità allevavano contemporaneamente più tipi di bestiame – tra cui mucche, pecore e capre – in modo da avere a disposizione diverse qualità di risorse alimentari e materiali, ma anche per evitare che, per esempio, un’unica malattia fosse in grado di sterminare tutti gli animali. Anche durante il Medioevo, gli agricoltori avevano compreso l’importanza di coltivare più tipi di cereali con la rotazione triennale. I vantaggi erano evidenti: miglioramento della fertilità del suolo, aumento della produzione complessiva e riduzione del rischio di carestie, dal momento che le perdite causate da un raccolto andato male si recuperavano grazie agli altri. 

Tra le altre cose, la diversificazione determina anche la nostra dieta alimentare. È chiaro che sarebbe stupendo mangiare tutti i giorni pizza, ma è fondamentale alternare con cibi più sani e noiosi per evitare di scavarsi la fossa da soli. Insomma, se la diversificazione guida ogni aspetto della vita umana, perché non dovrebbe fare lo stesso con i nostri investimenti?

Diversificazione: perché è importante?  

La diversificazione, come precedentemente illustrato, è un criterio imprescindibile in ottica conservativa, vale a dire di riduzione del rischio. Allora qui uno potrebbe giustamente obiettare: “a me non interessa nulla del rischio, voglio puntare tutti i soldi su quella meme coin e diventare milionario in tre giorni”. Lecito, tuttavia questo non è investire ma scommettere, e le probabilità di vincere quando si gioca d’azzardo sono estremamente basse. Tornando agli investimenti, diversificare conviene anche dal punto di vista dei profitti, poiché ti permette di non farti scappare l’asset, o gli asset, del decennio. 

Facciamo un esempio concreto prendendo il megatrend di internet dei primi anni 2000, appena dopo lo scoppio della bolla delle dot-com. In quel momento, il caso d’uso principale di internet era la funzione di ricerca e Google era il Re assoluto e incontrastato. Avresti potuto pensare, legittimamente, che l’azienda californiana era il vero e unico cavallo su cui puntare, poiché dominava su una concorrenza quasi inesistente. Oggi, quella scelta ti avrebbe senz’altro dato ragione, dal momento che la quotazione di Google è cresciuta più del 6.000%, tuttavia ti saresti mangiato le mani. Perché? Perché intendendo internet come uno strumento progettato esclusivamente per la ricerca online, avresti perso altre aziende come Netflix e Amazon, che hanno messo a segno performance superiori ritagliandosi la loro personale fetta di mercato. 

Diversificare nel mondo crypto

La diversificazione nel mondo delle criptovalute segue le dinamiche dell’esempio appena descritto: dipende da come intendi la blockchain e i suoi casi d’uso. Bitcoin è, senza ombra di dubbio, l’attore dominante in questo mondo, dal momento che da solo rappresenta più del 64% del mercato. Tuttavia, la sua utilità è “limitata”” – per ora – ai pagamenti e al fatto di essere riserva di valore, anche se la BTCFi potrebbe promettere bene. Dunque, se ritieni che la blockchain non andrà oltre Bitcoin, allora ha senso investirci tutto quanto, a tuo rischio e pericolo. 

É innegabile, però, che la blockchain si stia inserendo, neanche così lentamente, in altri settori strategici e il futuro potrebbe riservare sorprese in questo senso. Il punto fondamentale è fare un passo indietro e osservare la situazione nel suo complesso: non focalizzarsi sul presente per non farsi ingannare da euristiche e bias cognitivi ma, come direbbe il filosofo Baruch Spinoza, considerare le cose sub specie aeternitatis – sotto l’aspetto dell’eternità – in senso assoluto e universale. Per diversificazione si intende proprio questo, cioè evitare di esporsi troppo su una singola crypto sia per ridurre i rischi, sia per non perdere gigantesche opportunità tipo Ethereum, che dall’1 gennaio 2020 all’1 gennaio 2025 ha messo a segno un +1.880%. 

Chiaramente, per poter investire con consapevolezza, è necessario aggiornarsi ed essere sempre sul pezzo su ciò che accade in questo mondo in costante evoluzione. Il consiglio – per niente di parte – è di iscriverti ai nostri canali Telegram e Whatsapp o direttamente qui sotto, in modo da avere tutti i giorni le notizie rilevanti già pronte e impacchettate!

Finanziamento auto: come funziona? La guida

Finanziamento auto: come funziona? La guida

Il finanziamento auto è una forma di indebitamento comune che consente di comprare una macchina a rate. Ma attenzione ai costi nascosti. Qui la guida

Il finanziamento auto è una soluzione molto utilizzata perché permette l’acquisto di una macchina nel caso in cui l’acquirente non disponesse immediatamente del capitale totale necessario: nel 2023, in Italia, questa formula ha riguardato la vendita dell’80% delle auto. Tuttavia si tratta di un prestito che, come vedremo, viene concesso da banche o altri attori finanziari e, per questo motivo, è importante avere chiaro il quadro. Qui la guida

Finanziamento auto: che cos’è?

Il finanziamento auto, come abbiamo anticipato, è un contratto attraverso cui una figura creditrice, che può essere una banca o un’istituzione finanziaria in generale, anticipa i soldi necessari all’acquisto della macchina in cambio dell’impegno – firmato e controfirmato – alla restituzione di questa somma, nel tempo. Naturalmente, chi concede il finanziamento fa questo “favore” non perché è gentile e neanche perché ha a cuore la mobilità del cittadino, ma perché guadagna, e anche abbastanza, con le rate mensili maggiorate dagli interessi. In parole semplici, il finanziamento non è altro che un prestito che andrà ripagato con gli interessi, entro un tempo prestabilito. Nello specifico, esistono tre forme di finanziamento – anche se sarebbe più corretto dire “due e mezzo”. Vediamole.

Finanziamento o prestito personale

La forma “classica”, diciamo. Questa soluzione di finanziamento prevede che il richiedente, cioè l’individuo che ha bisogno del prestito, si rivolga personalmente a una banca o a una società di credito esterna per fare la richiesta di danari. A questo punto, l’ente che ha a disposizione la grana farà tutti i controlli necessari per accertare che il soggetto richiedente in questione sia in grado di ripagare la somma, con gli interessi: immobili di proprietà, figli a carico, contratto a tempo determinato o indeterminato e via dicendo. In caso di esito positivo, si procede con l’erogazione del prestito. Ora, il nostro futuro automobilista ha a disposizione il cash per comprare la macchina dei suoi sogni e si reca col sorriso in concessionaria: firma due carte, paga e diventa subito proprietario dell’automobile (e di 36 comode rate). 

Finanziamento o prestito finalizzato

Questo secondo tipo di finanziamento differisce dal primo perché, come dice il nome, è finalizzato all’acquisto di un bene preciso, in questo caso dell’auto. Mentre nel primo caso la banca o l’istituto di credito dice semplicemente “io ti presto i soldi, tu fai quello che ti pare basta che me li ridai”, ora c’è il vincolo all’acquisto dell’automobile. Un’altra differenza importante sta nel fatto che è la concessionaria a fare da intermediario fra chi chiede e chi presta i soldi: anzi, molto spesso può capitare che la società finanziaria sia collegata direttamente alla casa automobilistica produttrice della macchina che si intende acquistare – ad esempio Stellantis Financial Services. Rispetto alla prima formula, i vantaggi di richiedere un finanziamento auto finalizzato risiedono principalmente nella competitività delle offerte, che possono includere promozioni iniziali come il famoso “tasso zero” e le “mini rate iniziali”.

Leasing 

Il leasing è il motivo per cui nel primo paragrafo abbiamo precisato “due e mezzo”: se nei precedenti due casi si parla di finanziamento vero e proprio, ora è più corretto parlare di affitto con possibilità di acquisto. Col leasing non c’è un attore terzo che anticipa i soldi, ma solamente una concessionaria, un cliente e un contratto in cui è indicato il canone mensile da pagare per poter utilizzare la macchina. Tale contratto ha una durata definita oltre la quale, se il cliente è d’accordo, è possibile comprare definitivamente la vettura saldando la celebre quanto temuta maxi-rata finale. Altrimenti, il cliente ha la facoltà di iniziare un altro leasing, magari con un’altra auto, o terminare il rapporto.

Quanto costa e quali sono i requisiti per ottenerlo

Il finanziamento auto costa, nessuno ti regala i soldi. Ti sarà capitato di vedere una pubblicità di una macchina recentemente, magari un fuoristrada: strade bellissime nella natura incontaminata, potenza del motore, vetri oscurati e sensazione di libertà. Poi la réclame arriva al termine e l’annunciatore inizia a parlare straveloce: “TanquattropuntonovantapercentoTaegseiottantunooffertavalidaconfinanziamentopressofinanziariasalvoapprovazione…” eccetera, eccetera, eccetera. Bene, ora cerchiamo di capire cosa sono questi TAN e TAEG che sentiamo in tv da quando abbiamo la facoltà di comprendere il linguaggio umano. 

TAN E TAEG: i tassi di interesse

Il TAN e il TAEG, questi strani acronimi, non sono altro che i tassi di interesse applicati alla somma richiesta: è il guadagno che la banca, l’istituto di credito o la finanziaria legata alla casa automobilistica, incassano per averti prestato i soldi. Il TAN, ovvero il Tasso Annuo Nominale, rappresenta l’interesse puro applicato alla cifra erogata. In che senso “puro”? Nel senso che è la percentuale base al netto dei costi di gestione o legati alle pratiche burocratiche. Il TAEG, cioè il Tasso Annuo Effettivo Globale, come dice il nome è proprio il TAN sommato ai costi extra non indicati nel TAN stesso. Dunque il TAN ti permette di capire l’interesse netto che andrai a pagare con le rate, mentre il TAEG ti fornisce il quadro completo del costo reale del finanziamento auto. 

Sulla base di ciò, una persona potrebbe chiedersi: “se il TAEG è più completo del TAN, perchè vengono indicati entrambi? Per ingannare il cliente?” No, o meglio, non proprio. È chiaro che, di per sé, mostrare il tasso di interesse puro – più basso rispetto al TAEG – fa un effetto migliore al momento della vendita, tuttavia ci sono delle ragioni ben precise che giustificano questa procedura. In primo luogo, il TAEG non indica il tasso di interesse ma la percentuale finale totale, il che rende più complessa la distinzione tra costo del finanziamento e spese extra. In secondo luogo, avendo più chiaro il tasso di interesse netto, il cliente è in grado di confrontare meglio le varie offerte a prescindere dai costi accessori. Infine – a causa di quanto menzionato sopra – c’è l’obbligo normativo di imporre l’indicazione di entrambi gli indici. 

I requisiti per ottenere un finanziamento

Il finanziamento auto viene concesso solamente nel caso in cui il richiedente soddisfi dei requisiti fondamentali dato che chi presta i soldi, da parte sua, vuole assicurarsi che li riavrà indietro. Tra queste condizioni, naturalmente, la maggiore età e la residenza in Italia sono imprescindibili per poter avviare la pratica. Seguono quelle relative al reddito e alla storia creditizia: occorre dimostrare di avere delle entrate fisse, attraverso buste paga o dichiarazione dei redditi, e soprattutto di essere un debitore affidabile. Quest’ultimo punto è fondamentale, dal momento che segnalazioni negative da parte di banche dati come il CRIF (Centrale Rischi Finanziari) potrebbero compromettere totalmente l’operazione finanziaria. In merito a questi ultimi punti, cerchiamo di rispondere a due domande che potresti esserti posto: 

  • Posso ottenere un finanziamento auto senza busta paga? È molto molto difficile. Come abbiamo appena precisato, chi concede il prestito vuole avere la certezza che i suoi soldi non vengano persi nell’etere. Presteresti mai dei soldi – tanti soldi – a uno sconosciuto incontrato per strada? 
  • Cosa succede se non riesco a pagare le rate del prestito auto? Potresti andare incontro a conseguenze non proprio leggere. Il primo step, solitamente, è l’applicazione dei cosiddetti interessi di mora, cioè di tassi extra rispetto al TAN, calcolati su base giornaliera o mensile, che il creditore impone come risarcimento. Il secondo, spesso in concomitanza col primo, è la segnalazione presso enti come il CRIF, che sporcherebbe in modo significativo la tua fedina penale di debitore. Infine, se, nonostante le sollecitazioni, le rate sono ancora scoperte, l’istituzione creditizia del caso può procedere al recupero dei crediti attraverso strumenti come il prelievo forzoso e il pignoramento dei beni. 

Insomma, aprire un finanziamento auto, così come aprire un mutuo, è una decisione che va presa con estrema cura perché cambierà la tua vita: è fondamentale fare un’analisi costi/benefici completa e precisa, per evitare di ritrovarti al verde da un mese all’altro. Per questo, iscriviti ai nostri canali Telegram e Whatsapp o direttamente al sito di Young Platform cliccando qui sotto, potrebbe esserti utile per il futuro.

Pensione anticipata: cos’è la regola del 4%?

Pensione anticipata: cos’è la regola del 4%?

La pensione anticipata è un desiderio di molti: la regola del 4% può esserci d’aiuto anche se presenta delle criticità. Vediamo di cosa si tratta

La pensione anticipata è un sogno per moltissime persone impegnate nel mondo del lavoro, dato che ti consente di godere del patrimonio accumulato avendo a disposizione l’energia necessaria per farlo. Spesso invece, con la soglia di età pensionabile che si alza quasi di anno in anno, questo momento arriva in una fase della vita prossima alla vecchiaia. La regola del 4% è un modo che potrebbe fornire strumenti utili alla realizzazione di questo desiderio. Qui vedremo insieme di cosa si tratta, i pro e i contro. 

Pensione anticipata e la regola del 4%: le origini 

Dove nasce la regola del 4%? Ovviamente negli Stati Uniti, un Paese in cui il proverbio latino homo faber fortunae suae – l’uomo è artefice del proprio destino – guida il comportamento dei cittadini, abituati a contare sulle proprie forze e a non fare eccessivo affidamento nello stato. Dal punto di vista della finanza personale, questa mentalità fa sì che gli americani siano super familiarizzati col mondo degli investimenti sin da giovani, proprio perché convinti che il futuro dipenda quasi esclusivamente dalle loro azioni. Nascono così le varie teorie legate al mondo del risparmio e del retirement (pensione), come la sfida delle 52 settimane o come quella di cui parleremo oggi, la regola del 4%

L’inventore di questo principio è William Bengen, un ingegnere aerospaziale nato nel 1947 a Brooklyn, New York, che nel 1993 ottiene un master in pianificazione finanziaria. Un anno dopo, sul Journal of Financial Planning, pubblica un articolo dal titolo “Calcolare i tassi di prelievo utilizzando i dati storici”: Bengen aveva analizzato anni e anni di dati relativi al mercato americano e aveva scoperto che era possibile vivere coi propri risparmi per 30 anni. Come? Prelevando ogni anno il 4% del proprio portafoglio di investimenti e adeguando, dal secondo anno in poi, questa percentuale al tasso di inflazione corrente.

Anche qui, occorre precisare che il sistema pensionistico americano è molto diverso dai sistemi europei e si basa su tre pilastri: la previdenza sociale, i fondi pensione privati e gli investimenti personali, come l’IRA (Individual Retirement Account) o il 401k. Il punto fondamentale, che ci aiuta a comprendere la strategia di Bengen, è che la regola del 4% si fonda sul fatto che la pensione è “dinamica” e non statica. Ciò significa che, quando risparmiano per il futuro, gli americani investono i loro soldi in Borsa: azioni, obbligazioni, ETF e fondi comuni di investimento. Quindi la pensione, nel tempo, tende a crescere e il 4% rappresenterebbe la quantità di denaro sufficiente a vivere in tranquillità per circa 30 anni – la percentuale è calcolata per difetto, in ottica conservativa.

Ma facciamo un esempio concreto.

Come funziona la regola del 4%?

Innanzitutto, occorre fare un calcolo della media delle spese sostenute annualmente per poi dividere questa cifra per la percentuale che si intende prelevare (il 4%, cioè 0,04 nel nostro caso). Dunque, immaginando 15.000€ annuali di spesa (1250€ al mese per 12 mesi), e dividendo questa cifra per il 4% (15.000€ diviso 0,04), dovresti avere a disposizione un capitale di 375.000€. Questi soldi, seguendo la prospettiva di Bengen, sono investiti in Borsa e, conseguentemente, sono soggetti a un rendimento annuo 

Perfetto, smetti di lavorare e ti godi il tempo libero. Il primo anno prelevi il 4% e dal secondo in poi il 4% aggiustato all’inflazione: si parte da 15.000€ per poi moltiplicare questa cifra per 1,02 (ipotizzando l’inflazione al 2%) e ritirare 15.300€ e così via. In tutto ciò, il capitale investito genera un profitto che, in media, è sufficiente a compensare i prelievi, permettendo al portafoglio di sopravvivere anche durante gli anni di crisi in cui il mercato non performa come ci aspetteremmo. Però ci sono dei però.

La pensione anticipata di Bengen non coglie alcune criticità

In primo luogo, è una regola totalmente teorica che non riflette la vita quotidiana delle persone. Va bene calcolare la spesa media annua, ma se volessi farti un viaggio a El Salvador? O se dovessi far fronte a spese impreviste, come la riparazione della macchina? Dovresti certamente rivalutare la cifra che intendi prelevare per sopperire a queste spese impreviste, a meno che tu non abbia già pronto un fondo di emergenza apposito. 

In secondo luogo, ignora completamente l’impatto di costi e commissioni a cui andresti incontro nella gestione del capitale investito: il TER (Total Expense Ratio) include tutte le spese operative di un fondo – come i fondi comuni o ETF che abbiamo menzionato prima – e può incidere significativamente sul rendimento netto del tuo investimento. Senza citare le parcelle dei consulenti finanziari, qualora ne volessi usare uno. Giusto per fare un esempio, un rendimento lordo del 7% potrebbe trasformarsi in un 5.5% netto dopo aver sottratto questi costi. Ogni euro speso in commissioni è un euro che non lavora per il tuo futuro. 

Per concludere, se volessi farti un viaggio a El Salvador e vedere come si vive in un Paese che ha adottato Bitcoin come valuta legale, fatti un giro nei nostri Club che abbiamo degli sconti con WeRoad. In alternativa, iscriviti a Young Platform e resta aggiornata/o su guide e notizie rilevanti!