Energie rinnovabili: lo stato dell’arte

Investire nelle energie rinnovabili: opportunità e strategie

Le energie rinnovabili sono un tema centrale dagli anni ’70. Qui capiremo insieme di cosa si parla, a che punto siamo e se ha senso investirci

Le energie rinnovabili, tema ormai all’ordine del giorno, sono entrate pesantemente nel dibattito pubblico per la prima volta intorno agli anni ‘70, in occasione delle varie crisi petrolifere. In quel momento, coi prezzi del petrolio alle stelle, l’opinione pubblica ha iniziato seriamente a domandarsi se un sistema fondato esclusivamente sul combustibile fossile potesse essere davvero sostenibile. La risposta, ovviamente negativa, ha sollevato una serie di riflessioni sulla necessità di diversificare l’approvvigionamento energetico. Da quel momento sono passati quasi cinquant’anni: a che punto siamo adesso? In che direzione ci stiamo muovendo?

Cosa sono le energie rinnovabili?

Le energie rinnovabili, molto semplicemente, sono quelle fonti di energia non soggette a esaurimento: sono considerate inesauribili perché si rigenerano allo stesso ritmo, o anche a ritmo superiore, a quello con cui vengono consumate. Alcune fonti rinnovabili, tuttavia, presentano una capacità rigenerativa limitata. Le foreste, ad esempio, necessitano di un intervallo di tempo definito prima di poter essere nuovamente sfruttate, perché banalmente occorre aspettare che gli alberi ricrescano. Questi tipi di energia, pertanto, possono essere sfruttati senza negare le stesse possibilità alle generazioni future. 

Le energie rinnovabili, dal momento che dipendono direttamente dalle condizioni ambientali, non sono disponibili in modo uniforme in tutto il mondo. Come è evidente, è necessario che l’ambiente presenti determinate caratteristiche “energetiche”, come la quantità di luce solare disponibile e l’intensità del vento, ma anche spaziali dato che si tratta, spesso, di impianti molto invasivi. Tra le economie avanzate, solo Islanda e Norvegia riescono a soddisfare la totalità del fabbisogno energetico attraverso questa tipologia di energie, con Svezia e Danimarca subito dietro. 

Le energie rinnovabili, ovviamente, si basano sulle risorse rinnovabili, cioè sulle risorse che hanno un tasso di rigenerazione maggiore o uguale al tasso di consumo. Possono essere materiali o energetiche e coltivate o naturali: il legno, per esempio, è una risorsa materiale coltivata, mentre il vento rientra nelle energetiche naturali. 

Quali sono le energie rinnovabili?

Le principali energie rinnovabili sono sei e, ad eccezione dell’energia geotermica e marina, dipendono tutte dal Sole. Senza l’irraggiamento solare, infatti, non avremmo il vento, che è prodotto dalle differenze di pressione generate dal riscaldamento non omogeneo delle masse d’aria; non avremmo neanche l’idroelettrico perchè, logicamente, il Sole è responsabile del ciclo dell’acqua – dall’evaporazione alla pioggia; anche l’energia delle biomasse, che vedremo fra poco, deriva in parte dalla fotosintesi clorofilliana, irrealizzabile senza la luce solare. Entriamo al volo nel dettaglio:

Energia solare

L’energia solare può essere sfruttata in almeno tre modi diversi. Quello sicuramente più conosciuto fa riferimento all’energia solare fotovoltaica, cioè quella raccolta attraverso i pannelli solari. Gli impianti fotovoltaici, appunto, catturano la radiazione elettromagnetica emessa dal Sole – ovvero i raggi solari – e la convertono in energia elettrica: questa può essere impiegata sia per il riscaldamento dell’acqua, sia per l’illuminazione

Si parla poi di energia solare termica. Qui, la luce del Sole diventa calore perché viene usata per scaldare un liquido speciale, detto “termovettore” (cioè che trasporta energia termica), che a sua volta trasferisce il calore all’acqua che utilizziamo quotidianamente. 

Infine, l’energia solare termodinamica viene generata semplicemente direzionando la luce solare verso le caldaie, attraverso degli specchi montati sui tetti.  

Energia eolica

L’energia eolica, come tutti sanno, si ottiene attraverso il movimento delle gigantesche turbine eoliche, tipo quelle che vediamo dall’autostrada quando andiamo in vacanza in Puglia. Queste turbine, dette anche aerogeneratori, trasformano l’energia cinetica del vento in movimento rotatorio e azionano un generatore. Per semplificare: hai presente le torce dinamo che ti porti in campeggio? Quelle che si accendono dopo aver girato la manovella? Stessa cosa. 

Energia idroelettrica 

L’energia idroelettrica si ottiene con lo stesso principio dell’energia eolica. Si basa sul movimento – dunque sull’energia cinetica – dell’acqua, ottenuto solitamente sfruttando il dislivello fra due punti: l’acqua, cadendo da un punto alto a uno più basso, mette in moto delle turbine che, proprio come quelle eoliche, azionano dei generatori i quali producono elettricità. Il modo più comune per produrre energia idroelettrica è con le dighe e coi bacini idrici. 

Energia delle biomasse

L’energia delle biomasse deriva dalla combustione, gassificazione o fermentazione di materia organica di origine animale o vegetale, come rifiuti urbani o scarti agricoli. Con la combustione si produce calore, con la gassificazione elettricità e con la fermentazione i biocarburanti, come il bioetanolo e il biogas, utilizzati anche per alimentare le auto. 

Energia geotermica

L’energia geotermica è il calore naturale immagazzinato nel sottosuolo, prodotto dai processi geologici interni. La conversione del calore geotermico in energia elettrica si basa anch’essa sui movimenti delle turbine e sui relativi generatori

Per esempio, si perforano dei pozzi naturali dove è presente vapore ad alta pressione, per estrarlo e convogliarlo verso una turbina, che conseguentemente mette in moto il generatore. Oppure, nel caso in cui i pozzi non fossero abbastanza caldi da generare calore in modo efficiente, si estrae l’acqua naturalmente calda per riscaldare un secondo fluido, detto fluido di lavoro, che ha temperature di ebollizione più basse. Si sfrutta poi il vapore generato da questo secondo fluido per azionare le turbine, eccetera eccetera. 

Energia marina

Anche l’energia marina, o mareomotrice, sfrutta il movimento, in questo caso delle correnti, delle maree e delle onde. Come nel caso dell’eolico e dell’idroelettrico, i moti delle masse d’acqua fanno girare delle turbine che attivano i relativi generatori. L’energia meccanica viene quindi convertita in energia elettrica. Nonostante sia molto promettente, per ora trova poche applicazioni in quanto fortemente invasiva a livello ambientale.

Chi spende di più in energia rinnovabile?

Giusto per dare un’idea complessiva dei cambiamenti in atto, l’AIE (Agenzia Internazionale per l’Energia), nel suo report “World Energy Investment 2025”, ci dà una panoramica della situazione attuale: gli investimenti globali nel settore energetico alla fine del 2025 ammonteranno a 3,3 trilioni di dollari, di cui 2,2 trilioni – il 66,7% – destinati a energie rinnovabili, con le relative infrastrutture, e al nucleare, concettualmente molto più vicino alle rinnovabili che ai combustibili fossili. 

Inoltre, sempre l’AIE ci dice che, se dieci anni fa le spese per la produzione di energia dalle fonti fossili era superiore del 30% rispetto a quella ottenuta dalle rinnovabili, oggi la situazione è invertita: gli investimenti nel settore elettrico dovrebbero raggiungere la cifra di 1,5 trilioni di dollari per il 2025, ovvero il 50% in più rispetto agli investimenti totali per i combustibili fossili. Questa crescita, spiega l’AIE, è stata spinta dagli ingenti aiuti che le istituzioni hanno erogato soprattutto negli ultimi 5-10 anni, ma anche riduzione del costo delle tecnologie chiave per la transizione energetica, in calo del 60% rispetto a un decennio fa. 

Tra le motivazioni principali dietro questa tendenza troviamo sia la necessità di porre un freno al cambiamento climatico, sia le varie considerazioni in materia di sicurezza energetica, tornate al centro dell’attenzione in seguito all’invasione russa dell’Ucraina e ai conflitti in Medio Oriente: i governi si sono resi conto che è imprescindibile diversificare l’approvvigionamento energetico, per mitigare i rischi ed evitare un blocco delle forniture. Ora un breve recap sul comportamento delle principali economie mondiali. 

Cina

Nel 2025, la Repubblica Popolare Cinese guida gli investimenti nelle energie pulite, tra cui le rinnovabili, con circa 630 miliardi di dollari – quasi il 30% del totale globale. In merito, i cinesi vantano ben tre record: il parco eolico, il parco fotovoltaico e la diga più grandi del mondo. Il primo, situato nel deserto del Gobi, è ancora in fase di completamento ma presenta più di 7.000 turbine. Il secondo, conta quasi 5,3 milioni di pannelli solari ed ha un’estensione di 133 km quadrati – per fare un paragone, il comune di Torino ha una superficie di 130,2 km quadrati. La terza, chiamata Diga delle Tre Gole, è talmente grande che il bacino d’acqua generato rallenta la rotazione della Terra – parliamo di un rallentamento totalmente impercettibile, ma comunque reale.

Stati Uniti d’America

Gli Stati Uniti, in costante competizione con la Cina, si stanno gradualmente orientando verso le fonti di energia rinnovabile, nonostante siano il più grande produttore al mondo di petrolio, con 13,2 milioni di barili al giorno nel 2024. Nello specifico, la quota di investimenti in energie pulita – termine che include, oltre alle rinnovabili, anche il nucleare e altre forme a bassa emissione – sul totale degli investimenti energetici, è passata dal 59% del 2015 al 68% nel 2025. L’AIE, inoltre, prevede che la percentuale raggiungerà l’81% entro il 2035

Gli Stati Uniti sono anche particolarmente attenti all’efficienza energetica e sono leader nel campo dell’ottimizzazione dei processi energetici basati su intelligenza artificiale. Questo campo, in futuro, sarà cruciale soprattutto per l’enorme quantità di energia che verrà richiesta dai data center, alla base del funzionamento proprio dell’IA.

Unione Europea

Come anticipato, l’invasione russa dell’Ucraina e il successivo stop ai rifornimenti di petrolio e gas russi hanno dato uno scossone all’UE, che ha finalmente compreso l’importanza della diversificazione. Nel 2025, riporta l’AIE, gli investimenti in energia pulita raggiungeranno i 390 miliardi di dollari, subito dopo Cina e Stati Uniti, mentre nel 2024 il 50% dell’energia elettrica di tutto il Vecchio Continente è stata prodotta con fonti di energia rinnovabile.

Un’altro dato, che dimostra l’effettivo cambio di corsia, riguarda il rapporto tra investimenti in produzione di energia elettrica da rinnovabile e da combustibile fossile: nel 2015 la proporzione era 6 a 1, mentre nel 2025 è 35 a 1. Una crescita di quasi il 500%.

Sarebbe interessante parlare anche di India, America Latina e Caraibi, Africa e Sud-Est Asiatico, ma quest’articolo poi diventerebbe un episodio di Noos e non abbiamo per niente voglia di rubare il lavoro al mitico Alberto Angela – è passato troppo tempo per fare la gag con Super Quark. Ti basta sapere che il trend è confermato in tutto il mondo e la spesa in tutto ciò che è relativo alle energie rinnovabili cresce con percentuali a due cifre: i leader di tutti i cinque continenti sono perfettamente consapevoli della necessità di differenziare l’approvvigionamento di energia in nome della sicurezza energetica. 

Ma quindi, conviene investire nell’energia rinnovabile?

Il discorso qui è abbastanza complesso. In passato, abbiamo già trattato un tema molto simile, quando ci siamo occupati dei fondi ESG: abbiamo notato una tendenza al disinvestimento nel breve termine, motivata soprattutto dalla fine dell’infallibilità del green, simbolicamente sancita dall’elezione di Donald Trump – ricorderai il drill baby, drill. Anche se “ESG” ed “energia rinnovabile” non sono sinonimi, l’andamento di questi fondi potrebbe riflettere un sentiment negativo, o comunque di “fine del sogno”, nei confronti di tutto ciò che è relativo ai concetti di sostenibilità e, in generale, di ambientalismo

Tuttavia, nella finanza tradizionale il tema dell’energia pulita e delle rinnovabili sembra recuperare terreno. A noi, però, piacciono molto i dati, quindi vediamo come si stanno comportando i tre principali ETF sull’energia rinnovabile.

Premessa: per semplificare, prenderemo in esame le performance degli ETF a 3 anni, 1 anno, 6 mesi, 3 mesi, 1 mese. 

  • iShares Global Clean Energy Transition UCITS ETF (replica fisica dell’indice S&P Global Clean Energy Transition creato da S&P Global): se avessi investito in questo fondo tre anni fa, ora saresti in perdita del 36%; se invece avessi iniziato un anno fa, saresti giù del 6,7%. Discorso opposto per quanto riguarda il brevissimo termine. In sei mesi, questo ETF ha messo a segno un +3,8%, in tre mesi un +11%, infine in un mese un +5,6%.
  • Amundi MSCI New Energy UCITS ETF (replica fisica dell’indice MSCI ACWI IMI New Energy Filtered creato da Morgan Stanley): anche qui, se avessi iniziato a investirci tre anni fa, saresti sotto del 25,6%; il trend positivo, però, parte già a un anno, poiché l’ETF ha registrato un guadagno del 3,2%. In sei mesi, il profitto è dello 0,6%, mentre a tre mesi è esploso con un +14,8%. Sul mese, infine, notiamo il +2,47%.
  • L&G Clean Energy UCITS ETF (replica fisica dell’indice Solactive Clean Energy creato da Solative): anticipiamo che questo ETF si è comportato molto meglio dei precedenti due e ha messo a segno ottime performance. A tre anni, anche qui siamo in negativo, ma di poco cioè dell’1,6%; a un anno, l’ETF è in positivo dell’8,16%. In sei mesi ha registrato un +7,9%, mentre in tre mesi la performance è stata incredibile: +24%. Infine, sul mese parliamo di un onestissimo +6,86%.

Due considerazioni finali rapide rapide: questi ETF, proprio come i fondi ESG di cui parlavamo prima, sono stati pesantemente condizionati dalle dichiarazioni di Donald Trump. Infatti, hanno raggiunto il bottom nel periodo tra fine marzo e inizio aprile 2025, momento in cui il Presidente USA dichiarava di voler imporre i dazi – come poi ha fatto –  e di eliminare i crediti fiscali e gli incentivi federali per l’energia eolica e solare. Seconda cosa: il primo ETF, che ha registrato il rendimento peggiore, è l’unico che include sia energia rinnovabile, sia energia pulita. Gli altri due, invece, sono composti al 100% da società che lavorano esclusivamente con le rinnovabili. É chiaro che – come ripetiamo sempre – la correlazione non giustifica la causalità, però vale comunque la pena sottolineare questo aspetto. 

E quindi? Cos’hai deciso? Energie rinnovabili si o energie rinnovabili no? Sulla base dei dati che abbiamo riportato, il tema dell’energia rinnovabile è molto interessante e siamo sicuri che, prima o poi, la civiltà umana sarà costretta a prendere una decisione e abbandonare il vecchio combustibile fossile. 

Ultima informazione prima di salutarci: Bitcoin e le energie rinnovabili sono più connessi di quanto si possa pensare. Ce lo dice il CCAF (Cambridge Center for Alternative Finance) dell’Università di Cambridge, con un report di aprile 2025 in cui ha stimato che, attualmente, il 52,4% dell’energia utilizzata per il mining proviene da fonti sostenibili – di cui il 23,4% dall’idroelettrico, 15,4% dall’eolico e il 9,8% dal nucleare. 

Sapevi queste cose? Eri a conoscenza dei miliardi di dollari che le principali economie del mondo stanno destinando al settore delle rinnovabili? Avevi idea del fatto che il mining di Bitcoin deriva per il 52,4% – per ora – da fonti energetiche sostenibili? Se la risposta è no, iscriviti al nostro canale Telegram per non perderti le notizie che contano. Se la risposta invece è sì, si vede che ti piace informarti per cui iscriviti a Young Platform cliccando qui sotto!

USA-Iran: la guerra si allarga? Occhio ai mercati

USA-Iran: la guerra si allarga? Occhio ai mercati

Gli USA attaccano l’Iran bombardando i siti nucleari: cos’è successo? Cosa ne pensano i mercati? Occhio al comportamento di Bitcoin! Qui il focus

Gli Stati Uniti hanno bombardato i siti nucleari iraniani nella notte italiana tra sabato 21 e domenica 22 giugno, entrando nel conflitto a fianco di Israele. In questo articolo cercheremo di capire cosa è successo, quali potrebbero essere le conseguenze e, soprattutto, come hanno reagito i mercati finanziari. E attenzione a Bitcoin! 

Gli Stati Uniti sono entrati in guerra contro l’Iran? 

Nella notte italiana tra sabato 21 e domenica 22 giugno, gli Stati Uniti hanno portato a termine la missione segreta “Martello di Mezzanotte” (Midnight Hammer), bombardando i siti nucleari iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan. L’attacco ha visto l’azione coordinata dell’aviazione e della marina militare americane ed è stato eseguito in circa 18 ore, in modo estremamente chirurgico. Se non hai la minima idea di cosa stiamo parlando, innanzitutto iscriviti al nostro canale Telegram, perché su certe cose occorre essere sul pezzo. Poi, mettiti comoda/o che ora ripercorriamo al volo gli ultimi avvenimenti.   

Perché gli Stati Uniti hanno bombardato l’Iran? 

La risposta è molto semplice: per neutralizzare le strutture in cui la Repubblica islamica dell’Iran, da anni, sta arricchendo l’uranio. Ora, arricchire l’uranio non significa necessariamente costruire un ordigno atomico, dal momento che l’energia nucleare, come sappiamo, viene utilizzata principalmente per scopi civili. 

Per esempio, l’uranio a basso arricchimento (LEU, Low Enriched Uranium), arricchito al 3-5%, è largamente impiegato come combustibile per le centrali nucleari, mentre già l’uranio ad alto arricchimento (HEU, Highly Enriched Uranium), arricchito oltre per oltre il 20%, è considerato weapon-usable”, cioè utilizzabile per le armi o, in generale, per il settore militare. Infatti, i reattori che alimentano la propulsione di sottomarini e portaerei nucleari, spesso fanno uso di uranio arricchito dal 50% al 90%. La Repubblica islamica, secondo l’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), aveva raggiunto un livello di arricchimento superiore al 60% – lo standard attuale per le armi nucleari statunitensi è al 93,75% –  soprattutto nella struttura di Fordow, considerata la più importante. Questo impianto, però, era già stato preso di mira dall’IAF (Israeli Air Force) nella notte tra il 12 e il 13 giugno. Allora passiamo alla seconda domanda.

Perché è stato necessario l’intervento degli Stati Uniti?

La risposta qui è un po’ più complessa: a causa dell’architettura della centrale di Fordow. Questo impianto, infatti, è unico nel suo genere e totalmente diverso dagli altri che abbiamo menzionato. Lasciando da parte le specifiche tecniche relative ai processi di arricchimento, la struttura di Fordow differisce dalle altre perché è stata costruita dentro una montagna. Questo dettaglio è cruciale perché, insieme alla contraerea iraniana, protegge gli scienziati nucleari e i costosissimi strumenti dai potenziali raid israeliani. È qui che subentrano gli USA.

L’esercito degli Stati Uniti è l’unico al mondo a possedere delle bombe progettate per penetrare fino a 60 metri di profondità ed esplodere una volta entrate nella struttura sotterranea: pesano circa 30.000 pound – 13.600 kg – e si chiamano GBU-57 MOP “bunker buster” (anti-bunker). Inoltre, la USAF (United States Air Force) è anche l’unica in grado di trasportare questi ordigni, grazie ai celebri bombardieri stealth B-2 Spiritstealth perché sono invisibili ai radar. 

Arriviamo al momento dell’operazione Midnight Hammer. Sette bombardieri B-2 Spirit si alzano in volo verso l’Oceano Pacifico, in quello che poi è stato definito un depistaggio: l’obiettivo era far credere agli iraniani che le destinazioni fossero Guam e Diego Garcia, basi militari americane situate rispettivamente nell’Oceano Pacifico e Indiano. Arriva il cambio di rotta, i B-2 adesso viaggiano verso Est, attraversano l’Oceano Atlantico e giungono sopra l’Iran dopo quasi 18 ore di volo ininterrotto, scortati dai caccia dell’aeronautica americana. Una volta vicini a Fordow e Natanz, i B-2 sganciano 14 di queste letali bombe e, nel mentre, un sottomarino della marina USA appostato nel Golfo Persico lancia 20 missili Tomahawk contro la centrale nucleare di Isfahan. Da quanto si legge, la contraerea iraniana non ha sparato neanche un colpo per difendersi. 

L’esito dell’operazione è ancora incerto. Donald Trump e la sua amministrazione, ovviamente, hanno parlato di successo totale e danni “monumentali”, mentre la controparte iraniana ha dichiarato che gli strumenti per l’arricchimento dell’uranio erano già stati spostati in un altro luogo segreto, sconosciuto a USA, Israele e AIEA. I primi report dell’intelligence americana, però, mostrano come l’attacco non abbia distrutto gli impianti come sperato, ma abbia solamente provocato danni tali da ritardare le operazioni nucleari di qualche mese .  

Cosa è successo dopo i bombardamenti USA?

Gli iraniani, naturalmente, hanno promesso una vendetta eterna e il Ministro degli Esteri ha parlato di “superamento della linea rossa”: le forze militari dell’Ayatollah Khamenei – guida suprema della Repubblica Islamica dell’Iran – hanno reagito con un attacco missilistico alla base americana in Qatar. La cosa curiosa è che prima dell’offensiva, il Qatar è stato avvertito proprio dagli ufficiali iraniani. Gli americani hanno quindi avuto tutto il tempo di evacuare il personale militare e preparare al meglio le difese. La risposta iraniana, infatti, è stata facilmente neutralizzata. 

Lato Stati Uniti, le dichiarazioni di queste ore sembrano indicare la volontà di non essere coinvolti in questa guerra. A quanto sembra, gli USA intendevano eseguire l’operazione Martello di Mezzanotte e ritornare nella loro posizione, senza intraprendere ulteriori azioni militari. Tuttavia, nella giornata di domenica, Donald Trump sul suo social Truth ha parlato di cambio di regime – il rovesciamento della dittatura islamica in Iran – scrivendo che “Non è politicamente corretto usare il termine “cambio di regime”, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di RENDERE L’IRAN DI NUOVO GRANDE, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime??? MIGA!!!”. Il giorno dopo, sempre su Truth, il POTUS ha dichiarato al mondo che il cessate il fuoco era in vigore, “ordinando” alle parti in causa di rispettarlo. 

Qualche ora dopo, Israele e Iran hanno ripreso a scambiarsi missili, ignorando totalmente quanto detto dal Presidente degli Stati Uniti, che ha reagito in modo visibilmente arrabbiato: “Sono due nazioni che si combattono da talmente tanto tempo, che non sanno più che c***o stanno facendo!”. Cinema totale. Adesso, però, sembra che effettivamente i due paesi abbiano messo la parola fine agli scontri. 

Il resto del mondo, ovviamente, ha condannato quanto accaduto e sta a guardare nell’attesa di capire come si comporteranno gli attori coinvolti in questa guerra, già ribattezzata la “guerra dei 12 giorni”. 

Come hanno reagito i mercati?

In primo luogo, diamo uno sguardo al petrolio, materia prima che più di tutte subisce gli effetti di quanto accade in Medio Oriente. Il prezzo del Brent e del WTI – per chiarimenti rimandiamo all’articolo sulle previsioni del prezzo del petrolio – all’inizio della giornata di lunedì 23 giugno, subito dopo l’attacco USA, hanno raggiunto i massimi da gennaio 2025, toccando rispettivamente 81,40$ e 78,40$, per poi ritracciare e oscillare fra territorio positivo e negativo.

La cosa incredibile, è che dal 23 al 25 giugno – momento in cui scriviamo — Brent e WTI hanno perso rispettivamente il 17,6% e il 16,6%, attestandosi sui 67$ e i 65,3$ dollari per barile. Movimenti così repentini verso il basso stanno a indicare che gli attori finanziari sono molto ottimisti e non pronosticano un’interruzione forzata delle forniture mondiali di petrolio e gas naturale liquido. Tutto dipenderà dai prossimi avvenimenti. 

Vediamo ora i principali listini in giro per il mondo. 

Le borse asiatiche

Partendo dal Giappone, Tokyo chiude in positivo, mettendo a segno un +0,39%. Stesso discorso per la Cina, con Shanghai e Hong Kong che aprono e terminano la sessione in positivo, chiudendo rispettivamente a +1,04% e +1,23%.

Le borse europee

Un po’ di calma piatta per le borse del Vecchio Continente, che si oscillano fra rosso e verde, rimanendo comunque vicine alla parità. Al momento in cui scriviamo, la peggiore è Francoforte, che nella giornata di oggi viaggia in territorio negativo perdendo lo 0,20%. Seguono Parigi con un +0,03%, Londra con un +0,05% e Milano, che mette a segno un +0,17%.  

Le borse americane

Per quanto riguarda Wall Street, essendo in questo momento ancora chiusa, faremo riferimento alla chiusura di ieri, martedì 24 giugno: l’S&P500 ha guadagnato l’1,11%, il Dow Jones l’1,19% e il Nasdaq, che ha chiuso meglio degli altri, un +1,43%. Anche qui, l’attacco degli Stati Uniti alle strutture nucleari iraniane non sembra aver generato troppa preoccupazione, anzi. 

Come si sta comportando Bitcoin?

Incredibilmente bene, anche se, stando allo storico, dovremmo smettere di utilizzare la parola “incredibile” e, al contrario, iniziare ad abituarci. Bitcoin sta dimostrando, evento dopo evento, di essere un asset che resiste e reagisce alle crisi e agli shock esterni in modo eccezionale. Questa resilienza potrebbe essere la conseguenza di una sempre più diffusa presa di consapevolezza tra singoli individui, aziende e investitori istituzionali, che Bitcoin rappresenti un rifugio – o, per dirla in modo coerente, un ₿unker – contro questo tipo di situazioni.

Volendo prendere giusto un paio di esempi, come il Covid Crash e l’invasione russa dell’Ucraina – trovi più informazioni sul nostro account Instagram – dopo sessanta giorni, Bitcoin aveva rispettivamente guadagnato il 21% e il 15%. Se prendiamo invece S&P500 e oro, a parità di situazioni, in occasione del primo evento, l’uno aveva messo a segno un +2% e l’altro un +3%, mentre nel secondo caso si parla, nell’ordine, di +3% e addirittura -9%

Questo comportamento si sta verificando anche nel caso dell’intervento USA in Iran: un’azione militare di questa portata, in teoria, avrebbe potuto generare il panico nei mercati finanziari, a causa del suo carattere improvviso e fortemente aggressivo. Il grafico, però, parla chiaro. Bitcoin, dopo aver perso circa il 5% nella notte fra domenica 22 e lunedì 23 giugno, arrivando a toccare i 98.000$, adesso si aggira intorno ai 106.000$. Ciò significa che dal bottom di lunedì, BTC ha rimbalzato recuperando la perdita e guadagnando l’8,8%. 

È chiaro che la correlazione non indica necessariamente causalità, dato che è possibile che siano intervenuti altri fattori contestuali. Tuttavia, ha senso iniziare a ragionare in questi termini: Bitcoin si starebbe affermando come un “coltellino svizzero” dell’economia globale, cioè come uno strumento utile per ogni imprevisto, economico o geopolitico. Ci stai facendo un pensiero? Dai un’occhiata a Bitcoin e alle criptovalute cliccando qui sotto.

Non fartelo raccontare, i “te l’avevo detto!!!” non piacciono a nessuno.

Italia e Germania: insieme, nel bene e nel male

Italia e Germania: insieme, nel bene e nel male

Italia e Germania. Quante volte ci siamo scontrati? Tra calcio, cibo e stile di vita, tante. Se prendiamo l’economia, però, siamo molto vicini. Come?

Italia e Germania, due nazioni, due popoli, due sistemi di pensiero apparentemente inconciliabili, le cui rivalità si notano in ogni settore della vita quotidiana: nelle partite di calcio, nella cucina, nella teutonica organizzazione contrapposta all’italica dolce vita, nel vestirsi, nel sandalo col calzino. Quando parliamo delle due economie, però, tutto cambia e l’interconnessione è evidente. In questo articolo, snoccioleremo un report della Banca d’Italia e vedremo in che modo e come questo stretto legame condiziona le relative economie. Partiamo!

Italia e Germania: quanto sono interdipendenti le due economie? 

Italia e Germania, stando al report della Banca d’Italia “Sincronizzazione e trasmissione: L’effetto del rallentamento tedesco sul ciclo economico italiano”, sono due economie fortemente e profondamente interconnesse e, di conseguenza, sincronizzate. Questa stretta interdipendenza si osserverebbe soprattutto nelle correlazioni tra due dei principali indicatori dell’attività economica: Produzione Industriale (PI) e Prodotto Interno Lordo (PIL). Il report, poi, ci spiega che nel periodo della “doppia recessione” – o duble-dip, una fase in cui due momenti di contrazione sono intervallati da uno di ripresa – degli anni 2008-2013, le correlazioni tra le due PI e quelle tra i due PIL sono state “eccezionalmente elevate”. Entrando nel dettaglio, ma non troppo: 

Italia e Germania a confronto: la Produzione Industriale

La Produzione Industriale, in macroeconomia, fa riferimento a tutte quelle attività che trasformano materie prime, energie e informazioni in beni di consumo. In altre parole, è il processo attraverso cui diversi elementi, ovvero l’input, vengono combinati insieme al fine di generare prodotti finiti, cioè l’output. I dati (Eurostat) relativi a questo indicatore per le economie italiana e tedesca, ci indicano che la sincronizzazione è rimasta notevolmente forte nel tempo. Ma quanto? Tanto, quasi il massimo: a partire dal 2009, la correlazione della Produzione Industriale è rimasta stabile su livelli elevati, vale a dire su valori superiori a 0,8, arrivando anche a toccare 0.9.

Per chi non fosse avvezzo ai numeri o alla statistica, la correlazione si misura con un coefficiente numerico, detto appunto coefficiente di correlazione, che va da -1 a +1. Per cui, se il valore del coefficiente è molto vicino a -1, significa che c’è un rapporto di correlazione negativa quasi perfetta, ovvero che i due fenomeni si muovono in direzioni opposte. Se, invece, il valore si aggira intorno allo 0, allora il rapporto è molto debole, quasi inesistente, Se, infine, il valore è prossimo a +1, allora i due fenomeni si muovono nella stessa direzione con forza simile.

Il fatto che, nel caso della Produzione Industriale, il valore del coefficiente abbia costantemente superato 0.8 arrivando nei pressi di 0.9, indica che i movimenti di crescita o contrazione dell’industria italiana dipendono, o comunque seguono con la stessa entità, quelli dell’industria tedesca. 

Italia e Germania a confronto: il Prodotto Interno Lordo

Anche qui, il report ci mostra come la correlazione fra il PIL tedesco e quello italiano sia stata abbastanza forte, sebbene con un andamento più variabile rispetto a quello misurato con la PI. Se diamo un’occhiata ai dati, il valore del coefficiente di correlazione è stato intorno a 0.8 nel periodo della doppia recessione – 2008-2013 – come un po’ in tutta l’Eurozona, per poi diminuire fino al 2018. In quest’anno, infatti, si è toccato il minimo storico a 0.25, che ha rappresentato il bottom del trend discendente.

Da quel momento la correlazione fra i due PIL è tornata a crescere col picco massimo registrato durante la recessione globale causata dalla pandemia da COVID-19. Ricordiamo, sempre a chi litiga coi numeri, che quando il valore cresce non significa che il PIL cresce, o viceversa: la correlazione misura l’intensità e la direzione dei movimenti, a prescindere dalla dimensione presa in considerazione. Sarebbe come dire “quando c’è bel tempo ci sono più persone al parco” e dedurre che, effettivamente, se c’è il sole la gente va al parco. A noi interessa capire se una relazione tra i due fenomeni esiste, non se chi va al parco si legge un libro, gioca a scacchi o pianifica l’invasione dello stato del Burmini – +10 punti se hai beccato la reference. 

In ogni caso, dalla Banca d’Italia ci comunicano che questa correlazione sui PIL non è casuale ma frutto dell’interconnessione fra i due sistemi economici, anche in ragione degli intensi scambi commerciali. Conseguentemente, è lecito affermare che i cicli economici di Italia e Germania mostrano dinamiche fortemente analoghe

Quali sono i settori più strettamente interconnessi?

Italia e Germania, come è stato dimostrato, sono due economie che viaggiano insieme, nel bene e nel male. Ma, volendo andare più in profondità, quali sono i settori più fortemente interdipendenti? Senza alcun dubbio, la risposta è: i settori manifatturieri. Infatti, i comparti e le filiere legate alla manifattura hanno un ruolo di grande rilievo nell’architettura delle due economie: in Germania rappresentano circa il 20% del PIL, in Italia il 17%. Se entrambe le nazioni, così interconnesse, condividono una presenza della manifattura pari quasi a un quinto della produzione economica totale, è logico supporre che le fortune di una faranno le fortune dell’altra e viceversa. 

Riguardo a quest’ultimo punto, è di stretta attualità il caso del forte rallentamento del settore dell’automotive. Il report, come vedremo anche in seguito, si occupa soprattutto del biennio 2018-2019 e ci spiega come gli “ostacoli” – tra virgolette, perchè si parla di nuove procedure di test delle emissioni – che hanno intralciato l’espansione dell’industria automobilistica tedesca, abbiano avuto ricadute pesanti anche in Italia. Questo, come sappiamo, non è un caso.

Un dato interessante, che dimostra quanto Italia e Germania siano in sinergia, è che lo Stato tedesco è il primo mercato di vendita per le imprese italiane, col 13% delle esportazioni – nel 2019. Inoltre, una “quantità considerevole” di produttori italiani di componenti automobilistiche – che nel Belpaese rappresentano quasi il 3% dell’indice della Produzione Industriale – esportano lì i loro prodotti. Il report, infine, conclude questa sezione avvertendoci sul fatto che, sebbene l’automotive sia un “traino significativo e un canale primario di trasmissione”, il rallentamento dell’economia tedesca ha effetti a livello sistemico, vale a dire intersettoriale, e non è limitato a quell’ambito in particolare. Tradotto, significa che una contrazione dell’economia di Berlino, per quanto concentrata sulle auto, ha implicazioni negative sull’economia di Roma nel suo complesso, a testimonianza dello stretto legame fra le due. 

La connessione fra Italia e Germania all’opera: il caso studio del 2018-2019

Come abbiamo anticipato, il report della Banca d’Italia prende in esame il rallentamento dell’economia tedesca nel 2018-2019 e studia le conseguenze di questo stop sull’economia dell’Italia, proprio per evidenziare le correlazioni di cui abbiamo parlato. Il dato politico che emerge, per spoilerare, è che questa frenata del settore manifatturiero tedesco ha avuto un impatto negativo e simultaneo sul PIL italiano, calcolato in circa l’1% del Prodotto Interno Lordo – nel 2019, il PIL italiano ammontava a quasi 2 trilioni di euro, dunque la perdita (o il mancato guadagno) si attesta sui 20 miliardi. Andiamo a dare un’occhiata a qualche dato.  

Effetti sull’economia tedesca

Il famoso rallentamento, ci dice il report, è iniziato nel Q1 – cioè nel primo trimestre – del 2018, per assumere proporzioni significative a partire dal Q3 dello stesso anno. In questo periodo, naturalmente, il settore manifatturiero ha visto una crescita modesta – ma non quello dei servizi, che si è dimostrato più solido. Questa flessione, secondo gli analisti, sarebbe dovuta a shock interni alla Germania, piuttosto che da eventi destabilizzanti a livello europeo. 

Nello specifico, si parla di “fattori temporanei” che hanno ostacolato la crescita tra cui: alti livelli di assenze per malattia, condizioni climatiche molto rigide che hanno inciso sul trasporto fluviale, scioperi e, forse il più rilevante, l’introduzione di una nuova procedura per il controllo delle emissioni, detta WLTP, implementata in seguito allo scandalo Dieselgate – ne abbiamo parlato brevemente nell’articolo sui fondi ESG. La procedura WLTP ha avuto un impatto non proprio leggero sulla filiera di produzione delle auto: i ritardi nell’ottenere tutte le certificazioni di conformità hanno creato un effetto a catena tale da sospendere l’assemblaggio di molti modelli, posticipando consegne e vendite. È facile immaginare gli effetti devastanti sull’indotto, dato che parliamo di un settore industriale che rappresenta un quinto del PIL: fabbriche di pneumatici, produttori di sedili, aziende che realizzano sistemi elettronici, fornitori di acciaio e plastica, aziende di logistica per il trasporto dei componenti, officine meccaniche e così via. 

Nel caso in cui avessi una creatività e un’immaginazione non troppo sviluppate, l’Unione Europea ha quantificato che, senza questo calo tanto improvviso quanto persistente, il PIL tedesco nel 2018 sarebbe stato di 0,6 punti percentuali più alto – circa 24 miliardi di euro. Il dato è ancora più incredibile se si va a isolare il mancato apporto del settore manifatturiero: se in media questo era di circa lo 0,8% (sul PIL), nel 2018 si aggirava intorno allo 0,2% e nel 2019 era addirittura negativo (-0,8%)

Ricadute sull’economia italiana

Per calcolare il contraccolpo del rallentamento tedesco sull’economia italiana, oltre alle misurazioni di natura macroeconomica, gli autori del report hanno diviso le imprese italiane in gruppo sperimentale e gruppo di controllo: nel primo gruppo, naturalmente, rientravano le imprese esposte al mercato tedesco, nel secondo quelle che esportavano in altri paesi o che non esportavano proprio. 

Poi, hanno ulteriormente suddiviso la misurazione in indicatori di sentiment e indicatori di valutazione. Il primo tipo col compito di valutare le percezioni delle imprese sull’economia italiana e sulle condizioni commerciali dell’impresa stessa, a tre mesi e a tre anni. Il secondo tipo con lo scopo di chiedere a queste aziende delle valutazioni sul futuro a livello di decisioni economiche concrete: domanda attuale e prevista, piani di investimento, eventuali assunzioni di dipendenti e via dicendo. 

Ça va sans dire, nel 2019 entrambi gli indicatori sono risultati peggiori per le imprese che rientravano nel gruppo di controllo, ovvero quelle che erano fortemente legate al tessuto economico tedesco. Queste aziende, in particolare, si attendevano una domanda più bassa, proprio a causa della contrazione tedesca, che, con un po’ di ritardo, si è tradotta in un atteggiamento conservativo di riduzione degli investimenti e delle assunzioni

Per concludere, come abbiamo spoilerato all’inizio, la crisi del settore automobilistico tedesco ha comportato per l’economia italiana una perdita stimata in un punto percentuale di PIL, principalmente nel 2019. Anche gli investimenti delle imprese esportatrici in Germania sono calati del 2,5%, mentre non sono state registrate ripercussioni sull’occupazione. 

Qual è la situazione attuale?

Italia e Germania, come è logico che sia, restano due sistemi economici estremamente intrecciati. Stando ai dati che ci comunica l’ISTAT, nel 2022, il valore complessivo degli scambi commerciali tra Germania e Italia ha raggiunto circa 168,5 miliardi di euro, con esportazioni italiane per 77,5 miliardi e importazioni dalla Germania pari a 91 miliardi. Nel 2023, l’interscambio ha toccato i 164 miliardi di euro, suddivisi in 75 miliardi di esportazioni italiane e 89 miliardi di importazioni tedesche. Nel 2024, la somma ammontava a circa 155 miliardi di euro, ripartiti in 70 miliardi di export e 85 miliardi di import. Infine, il Q1 del 2025 ha registrato un valore totale di 40 miliardi di dollari – 19 miliardi in entrata contro 21 miliardi in uscita. Insomma, dal punto di vista economico, la Germania rappresenta il principale partner commerciale dell’Italia, sia come destinazione principale delle esportazioni italiane, sia come principale fonte delle importazioni nel nostro Paese.

Siamo arrivati al termine di questo viaggio alla scoperta delle connessioni e delle interazioni che caratterizzano il rapporto economico tra Italia e Germania, nel bene e nel male. Anche lo “scontro sociale” tra italiani e tedeschi è destinato a durare a lungo e magari su qualche cosa hanno pure ragione loro. Ma… 

via al contropiede con Totti, dentro il pallone per Gilardino… Gilardino la può tenere anche vicino alla bandierina, cerca l’uno contro uno, Gilardino, dentro Del Piero, Del Piero… Goooool! Aleeex Deeel Piero! Chiudete le valigie! Andiamo a Berlino! 

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I dazi di Trump bloccati: la reazione dei mercati

I dazi di Trump bloccati: la reazione dei mercati

I dazi imposti da Donald Trump nel Liberation Day sono stati bloccati dalla Corte federale del commercio americano: come hanno reagito i mercati?

I dazi annunciati da Donald Trump nel Liberation Day del 2 aprile sono stati dichiarati illegali nella notte italiana tra mercoledì 28 e giovedì 29 maggio. A emettere la sentenza, la Corte federale del commercio americano. Dall’altro lato, l’amministrazione Trump ha già dichiarato il ricorso in appello. Nell’attesa di capire cosa succederà, come hanno reagito i mercati alla notizia?    

I dazi di Donald Trump dichiarati illegali: la sentenza

La U.S Court of International Trade (USCIT), un tribunale federale che si occupa di gestire le cause civili legate all’importazione e al commercio internazionale, ha bloccato i dazi introdotti dal Presidente degli Stati Uniti. Le motivazioni risiedono principalmente nel fatto che Donald Trump non avrebbe l’autorità per imporre i dazi in modo autonomo, cioè senza passare per il Congresso: il Parlamento americano, infatti, è l’organo istituzionale che, secondo la Costituzione, ha il potere di autorizzare o meno le tariffe doganali. The Donald, invece, ha saltato questo passaggio invocando lo IEEPA (International Emergency Economics Power Act), una legge del 1977 che conferisce al Presidente il potere di regolamentare il commercio in risposta a minacce che possano costituire un’emergenza nazionale.

Il problema principale, secondo l’interpretazione della Corte, è lo IEEPA non concede automaticamente poteri illimitati al Presidente e, pertanto, ha deciso di annullare i dazi doganali del 2 aprile. Nello specifico, nella sentenza si legge che le tariffe “vanno oltre qualsiasi autorità concessa al Presidente dall’IEEPA per regolamentare le importazioni”. Inoltre, la USCIT ha giudicato illegali anche gli oneri doganali imposti nei confronti di Canada, Cina e Messico finalizzati al contrasto del fentanyl perché “non ci sarebbe connessione fra l’imposizione dei dazi e le minacce insolite e straordinarie che i provvedimenti contro il traffico di droga dichiarano di voler contrastare”. Subito dopo la sentenza, l’amministrazione Trump ha annunciato il ricorso alla Corte d’Appello

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La reazione dei mercati

La decisione della USCIT è stata accolta con favore dalla Borse europee, che aprono in verde e – al momento in cui scriviamo – sembrano decise a continuare in questo modo: il CAC 40 di Parigi guadagna lo 0,73%, il DAX di Francoforte lo 0,42% e Il FTSE MIB di Milano registra un +0,45%. In controtendenza il FTSE 100 di Londra, giù dello 0,11%. Molto bene anche i listini asiatici, che hanno chiuso tutti in rialzo: Tokyo ha messo a segno un +1,88%, Shenzhen un +1,33%, Hong Kong sale dello 0,9% così come Shanghai, in rialzo dello 0,7%. Anche le Borse USA sembrano contente della decisione della Corte, coi futures di Wall Street che salgono di oltre l’1%

Il mercato crypto si unisce al trend con Bitcoin su di circa 2000$ a 108.600$, Ethereum mette a segno un +4,3% rispetto alla giornata di ieri e viaggia intorno ai 2.730$, mentre Solana approfitta del momento per recuperare qualcosa dal crollo di ieri, toccando quota 175$ per poi scendere e – per ora – stabilizzarsi sui 172$. Il clima è comunque molto positivo, perché la sospensione “ufficiale” dei dazi potrebbe portare molta liquidità al nostro mercato preferito. 

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Rapporto ISTAT 2025: come sta l’Italia oggi?

Rapporto ISTAT 2025: come sta l’Italia oggi?

Com’è la situazione in Italia oggi? A quanto ammonta la popolazione italiana e come è organizzata? Quanti hanno un lavoro? L’economia sta crescendo? In questo articolo, troverai tutte le risposte che cerchi

Il rapporto annuale ISTAT del 2025 analizza ed elabora i dati del 2024, descrivendo la situazione dal punto di vista dei cambiamenti della popolazione italiana, dell’economia e dell’assetto sociale e sociali. Nello specifico, esamina i punti di forza e di debolezza del nostro Paese, concentrandosi sulla dimensione macroeconomica e sul profilo della popolazione italiana a livello di demografia, istruzione e redditi da lavoro. A che punto siamo? 

Popolazione italiana e società: il quadro demografico

Nel Rapporto annuale del 2025, l’ISTAT ci dice che il trend negativo di calo della popolazione in Italia prosegue. La causa principale risiede nel saldo naturale (nascite meno decessi) fortemente negativo. In particolare, le nuove nascite nel 2024 ammontavano a 370.000, circa 200.000 in meno rispetto al 2008, con un tasso di fecondità al minimo storico di 1,18 figli per donna. A questo, bisogna aggiungere i 156.000 italiani emigrati all’estero e il fenomeno della “fuga di cervelli”: in dieci anni, 97.000 giovani laureati, compresi nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni, hanno scelto di vivere all’estero. Il saldo migratorio, con 435.000 nuovi ingressi nel 2024 (+20,5% rispetto al 2023) non basta per compensare le perdite. In ogni caso, l’Italia resta uno dei paesi più longevi al mondo, con un quarto dei residenti che ha più di 65 anni (il doppio rispetto ai minori di 15 anni), 4,6 milioni di ultraottantenni e 23.500 ultracentenari. Le previsioni per il futuro confermano queste traiettorie. 

Infatti, riprendendo l’ultima rilevazione ISTAT – al 31 gennaio 2025 – relativa al bilancio demografico, in Italia la popolazione residente ammonta a 58.924.313 persone, un numero inferiore di circa 10.000 unità rispetto all’inizio dell’anno. Le nascite a gennaio 2025 si aggirano intorno alle 31.000 unità, in calo del 6% rispetto a gennaio 2024, mentre i decessi sono 66.000, una cifra inferiore dello 0,4% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. 

In sintesi, i dati aggregati del Rapporto annuale ISTAT 2025 sulla popolazione in Italia – residente, sia italiana sia straniera – mostrano la seguente composizione demografica: 

  • 0-20 anni: 17,8% 
  • 21-45 anni: 31.3%
  • 46-70 anni: 38,8%
  • 71- 100 e più: 12,1% 

Le previsioni per il futuro, come anticipato, confermano questi trend: si stima che in Italia, la popolazione residente sarà pari a

  • 58,6 milioni a gennaio 2030
  • 54,8 milioni a gennaio 2050
  • 46,1 milioni a gennaio 2080  

 Composizione delle famiglie italiane e natalità 

A quanto si legge, le tendenze descritte sono causa e conseguenza di dinamiche demografiche strutturali: le famiglie monopersonali superano il 35%, mentre le coppie con figli scendono al 28,2%. I matrimoni sono in calo da quarant’anni, dal momento che si passa dai 400.000 e oltre degli anni Settanta ai 184.207 del 2023. Ciò è dovuto sia al crollo della natalità, che banalmente riduce il numero di adulti, sia a cambi di natura sociologica, con le unioni libere sempre più diffuse anche in caso di figli. Inoltre, due terzi dei giovani tra i 18 e 34 anni vive ancora coi genitori, contro la media europea del 49,6%. 

Per quanto riguarda la natalità, il Rapporto mette a confronto la generazione delle madri (nate cioè nel 1958) con le attuali quarantenni, evidenziando come la quota delle donne senza figli sia raddoppiata, dal 13% al 26% stimato, con un picco nel Sud Italia di tre donne su dieci. Infine, il primo figlio arriva in età sempre più avanzata: dai 25,9 anni per le donne nate nel 1960 ai 29,1 anni per quelle del 1970, con ritardi ancora più marcati per le generazioni più giovani. 

Economia italiana: cosa ci dicono i dati?

Il Rapporto annuale ISTAT 2025 comincia col resoconto del quadro macroeconomico italiano, cioè con la descrizione complessiva dello stato di salute e delle prospettive dell’economia dell’Italia. Secondo quanto rilevato dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT, appunto), l’economia italiana nel 2024 ha continuato a crescere in modo lento ma graduale, nonostante la situazione europea attuale non sia delle più dinamiche: come nel 2023, il PIL (Prodotto Interno Lordo) è aumentato dello 0,7%, meno rispetto a Francia (+1,2%) e Spagna (+3,2%), ma di più rispetto alla Germania (-0,2%). 

Le stime per il primo trimestre del 2025 vedono una crescita congiunturale dello 0,3%, che corrisponde ad una crescita annua acquisita dello 0,4%. Nel caso in cui ti stessi chiedendo cosa significano queste due righe, per “crescita congiunturale” si intende la variazione percentuale del PIL rispetto al trimestre precedente, mentre la “crescita annua acquisita” ci dice quale sarebbe il risultato a fine anno se l’economia restasse immobile. Unite, queste due misure servono a tracciare un quadro economico complessivo che consideri il brevissimo periodo (trimestre) e l’anno in corso. Sempre per fare un paragone, l’andamento congiunturale italiano è stato superiore a Germania e Francia (+0,2% e +0,1%) ma inferiore alla Spagna (+0,6%). 

Il Rapporto segnala una buona spinta da parte della componente nazionale – formata da consumi nazionali e investimenti – con calo della domanda estera. Questa contrazione è dovuta alla forte incertezza causata dal contesto geopolitico attuale e dalle misure protezionistiche, imposte e poi sospese, dell’amministrazione statunitense. Per queste ragioni, ci dice l’ISTAT, le previsioni per l’Italia da parte delle varie istituzioni nazionali e internazionali vedono un rallentamento dell’espansione economica nel 2025, al pari delle altre economie avanzate. Il saldo della bilancia commerciale, cioè la differenza tra export e import, nel 2024 è salito fino a 55 miliardi di euro, rispetto ai 34 miliardi del 2023. 

In che stato è il mercato del lavoro?

Secondo l’ISTAT, nel 2024 il numero degli occupati è cresciuto di molto (+1,5%), sostenuto dai contratti a tempo indeterminato, mentre si è ridotta del 6,8% la fetta dei contratti a termine. Inoltre, nel Q1 del 2025, gli occupati sono aumentati dello 0,7% rispetto a dicembre e dell’1,9% – 450.000 nuovi contratti – rispetto a marzo 2024. In ogni caso, a fine 2024, il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni si attesta al 62,2% (23,9 milioni di persone): un buon numero, anche se di molto inferiore a quello della Germania (circa il 77%) e lievemente più ridotto rispetto a quello di Francia (69%) e Spagna (66%). 

Come abbiamo anticipato, il contratto a tempo pieno e indeterminato domina e riguarda il 63% dei lavoratori, con un aumento del 2,1% rispetto al 2023 e del 4,8% rispetto al 2019. Tuttavia, nel 2024, il Rapporto segnala che il 30% delle donne lavora in part-time e che spesso, non è una scelta. 

Finanza pubblica e bilancio dello Stato

Come si valuta lo stato della finanza pubblica? Col saldo primario, quindi calcolando la differenza fra spese dello Stato (al netto degli interessi sul debito, ovvero togliendo da questa cifra gli interessi sui titoli di stato come i BTP) ed entrate dello Stato. Il risultato può essere positivo, l’avanzo primario, o negativo, cioè il disavanzo primario. Il Rapporto annuale dell’ISTAT ci comunica che, nel 2024, la finanza pubblica è migliorata in modo significativo: il saldo primario è positivo per la prima volta dal 2019 a causa dell’aumento delle entrate, quindi delle tasse, e della minima riduzione delle uscite, dunque della spesa pubblica. Tuttavia, il rapporto fra debito pubblico e PIL sale di 0,7 punti percentuali, dal 134,6% al 135,3%.

La situazione sul versante prezzi e retribuzioni

Questa sezione inizia con una buona notizia: nel 2024 si è consolidato il processo di disinflazione. Il Rapporto indica che l’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato per i paesi europei (IPCA, una metrica che serve a standardizzare le metodologie di misurazione dell’inflazione dell’Eurozona) è passato dal 12,6% annuo dell’ottobre 2022 all’1,1% nel 2024, il valore più contenuto tra le grandi economie europee. Le proiezioni per il 2025, però, vedono un leggero incremento: i prezzi sono tornati a salire in modo moderato nei primi mesi di quest’anno. 

Il discorso non è così roseo quando si parla di retribuzioni nominali. Rispetto a gennaio 2019, a causa del boom inflazionistico causato da Covid e guerre, nel 2022 la perdita di potere d’acquisto per un lavoratore era superiore al 15%, mentre a marzo 2025 è pari al 10%. In altre parole, significa che a marzo scorso, con uno stipendio di 1500€, compravi quello che nel gennaio 2019 costava 1350€. Il Rapporto poi tratta la retribuzione lorda di fatto, in quanto indicatore migliore per calcolare realmente la perdita o il guadagno di potere d’acquisto. La differenza con la retribuzione nominale è nel considerare come parte dello stipendio anche gli extra, tra cui bonus, straordinari, tredicesima, quattordicesima e via dicendo. Considerando questo parametro, allora la perdita di potere d’acquisto dal 2019 al 2024 risulta più contenuta: 4,4% in Italia, 2,6% in Francia e 1,3% in Germania. La Spagna, in controtendenza, guadagna il 3,9%.  

Il nodo della produttività

La produttività è un fattore cruciale perché misura l’efficienza con cui si producono beni o servizi: indica quanto output si riesce ad ottenere utilizzando una certa quantità di input. Detto in parole semplici, ci spiega quante risorse umane o materiali – input – sono necessarie per la realizzazione del prodotto finale – output. La regola aurea, naturalmente, è produrre di più sprecando di meno. Per capire come l’aumento della produttività si rifletta sul miglioramento dell’economia di un paese, può essere utile il classico esempio dell’artigiano: un artigiano costruisce una sedia in 6 ore e la vende a 50€. A un certo punto decide di investire dei soldi per comprare un macchinario. Ora produce due sedie nello stesso tempo e guadagna il doppio. L’artigiano quindi spende meno in termini di ore lavorate per sedia, può abbassare i prezzi, accrescere la clientela e assumere dipendenti proprio perché vende di più. Potrà poi reinvestire i profitti in altri macchinari o in altri dipendenti, in un circolo virtuoso che, moltiplicato per il numero di aziende, contribuisce all’espansione dell’economia nazionale. 

Il Rapporto annuale dell’ISTAT, purtroppo, ci dice che il sistema produttivo italiano presenta delle criticità strutturali come la dimensione delle imprese, la specializzazione e l’innovazione delle produzioni, che hanno un effetto frenante sull’espansione economica. Nello specifico, nel 2024 la crescita dell’occupazione è stata superiore a quella del valore aggiunto. Per valore aggiunto, si intende la nuova ricchezza creata da un’attività produttiva – la nazione Italia in questo caso – in un determinato momento. Cosa succede se l’artigiano assume dipendenti ma non incrementa le vendite? Esattamente il contrario di quanto detto nell’esempio. Infatti, l’ISTAT scrive che lo squilibrio fra occupazione e valore aggiunto ha provocato una diminuzione della produttività dell’ora lavorata dell’1,4%. L’effetto a catena di questo fenomeno provoca il rallentamento dell’economia in generale. 

Sistema economico e generazioni: la panoramica

L’ultimo capitolo del Rapporto annuale ISTAT 2025 indaga i mutamenti che si sono verificati nella popolazione nel corso degli anni al cambiare del sistema economico.

Evoluzione delle categorie occupazionali negli anni

Come abbiamo già riportato, l’ISTAT ci mette in guardia sulle carenze strutturali legate alla bassa produttività e alle sue conseguenze. Negli ultimi venti anni, infatti, sono cresciute le possibilità di occupazione ma non quelle di benessere economico, perché le nuove posizioni lavorative hanno riguardato soprattutto le attività ad alta intensità di lavoro e a ridotta produttività, come il settore della ristorazione. 

Tuttavia, dal Rapporto si legge anche che l’evoluzione del sistema economico italiano ha portato risultati positivi come l’aumento dell’occupazione qualificata, seppure con minore forza rispetto alle altre grandi economie europee. Precisamente, tra il 2000 e il 2024 la quota di tecnici e professionisti è passata da un quarto a un terzo – cioè circa il 33% –  del totale degli occupati, mentre in Spagna, Francia e Germania siamo, rispettivamente, sul 37%, 43% e 44%. Inoltre, questo trend ha riguardato anche i professionisti ICT (Information and Communication Technology), specialmente a partire dagli anni della pandemia: programmatori, data analyst e ingegneri informatici rappresentano una componente strategica per la competitività e l’innovazione dell’intera infrastruttura economica. Naturalmente, anche in questo settore siamo indietro rispetto agli altri paesi UE. 

Che ruolo ha l’istruzione?

L’istruzione, ovviamente, è una leva decisiva per l’accesso a lavori più qualificati e retribuiti ed è considerata la trasformazione più rilevante nel modificare le opportunità professionali delle diverse generazioni. Tradotto, ciò significa che, negli anni, il generale innalzamento del livello di istruzione ha ampliato l’accesso a migliori opportunità lavorative per un numero sempre maggiore di persone. Nel 1980, infatti, la metà dei giovani fra i 15 e i 24 anni già lavorava, mentre nel 2024, per lo stesso range di età, due terzi sono inattivi perché studiano o si formano professionalmente. Dagli anni Novanta, poi, la percentuale di laureati fra i 25 e i 34 anni è passata dal 7% a oltre il 30%, con le donne che raggiungono anche il 37,1%. In sintesi, nel Rapporto annuale dell’ISTAT si nota come gli individui che, al momento dell’ingresso del mondo del lavoro, avevano un livello di istruzione più elevato – o lo miglioravano in corso d’opera – avevano maggiori possibilità di beneficiare di salari più alti

Attenzione al contesto familiare di partenza

L’istruzione è una variabile determinante, ma spesso è una conseguenza della situazione di partenza. In parole semplici, questo vuol dire che i figli tendono a seguire le orme dei genitori: tra i giovani provenienti da famiglie in cui nessun genitore possiede un diploma, solo il 17,6% riesce ad ottenere un titolo di studio universitario, contro il 75% dei figli di genitori laureati. Ancora più grave, nel primo gruppo di giovani più di un terzo non arriva al conseguimento del diploma di maturità. 

Il fenomeno della mobilità intergenerazionale, definito come il cambiamento nella posizione socioeconomica di un individuo rispetto a quella dei suoi genitori, è limitato ma non assente: come si legge nel Rapporto, c’è un ruolo non trascurabile delle capacità e delle scelte individuali nel determinare il proprio percorso di vita. 

Chi innova in Italia? I giovani, che sono sempre di meno

Il Rapporto annuale ISTAT 2025 termina con un paragrafo dedicato ai giovani nel mondo dell’imprenditoria. Le rilevazioni registrano una quota importante di occupati sotto i 35 anni – che rappresentano il 24% della forza occupazionale – lavorare nelle imprese più dinamiche e di nuova creazione: nel 2022, il 36% di questi aveva un impiego in società con meno di 5 anni di vita e quasi il 40% operava nel settore dei servizi ad alta tecnologia. Infine, ci viene mostrata una correlazione tra capitale umano giovane, innovazione e successo dell’impresa. Entrando nel dettaglio, ma non troppo, la dotazione di risorse umane qualificate under 35 è risultata un fattore chiave che ha permesso alle imprese di digitalizzarsi con successo, innovare e mettere a segno migliori performance a livello di crescita e occupazione. 

Rapporto annuale ISTAT 2025: le conclusioni 

Il Rapporto annuale ISTAT 2025 si conclude con le parole di Francesco Maria Chella, Presidente dell’Istituto di Statistica. Chella parla di segnali economici positivi, come il calo dell’inflazione e l’aumento dell’occupazione, a cui si affiancano debolezze strutturali che frenano la crescita e minano lo sviluppo. Si concentra molto sulle giovani generazioni le quali, nonostante siano generalmente più istruite, si ritrovano ad affrontare redditi e opportunità lavorative inferiori – quantitativamente e qualitativamente – rispetto ai coetanei nei principali paesi UE. Il Presidente parla poi delle evoluzioni che hanno interessato il sistema economico italiano, del cambiamento delle categorie occupazionali negli anni e dei divari sociali e territoriali che, tuttora, potrebbero condizionare negativamente le prospettive future. Poi, torna sulla questione giovani: il capitale umano altamente istruito è una grande opportunità per accelerare i processi di digitalizzazione e migliorare la produttività di imprese e pubbliche amministrazioni. Per questo motivo, chiude, è fondamentale sostenere questa fascia di popolazione, contrastando le disparità nell’accesso all’istruzione, soprattutto universitaria, per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro e promuovere l’innovazione.

Siamo giunti al termine di questo mega spiegone semplificato e sintetizzato del Rapporto annuale ISTAT 2025. La situazione, come è intuibile, non è delle migliori, a maggior ragione se comparata con le altre grandi economie europee, i nostri vicini. Tuttavia, come ha dichiarato lo stesso Presidente, è necessario sforzarsi per cambiare atteggiamento, favorendo la dinamicità e la determinazione delle nuove generazioni, per costruire un Paese che sia al passo coi tempi. 
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Moody’s declassa le Treasury americane: fuga dal dollaro in arrivo?

Moody’s declassa le Treasury

Moody’s ha appena declassato le treasury americane. Quale sarà l’impatto dell’accaduto? Bitcoin può essere una soluzione?

L’era in cui gli Stati Uniti sembravano possedere una sorta di carta di credito globale illimitata potrebbe davvero essere al capolinea. La notizia è di quelle che scuotono l’economia mondiale: Moody’s ha messo sotto osservazione il debito sovrano americano, declassando di fatto il suo outlook. Non è “solo” una formalità tecnica; è un faro potente acceso su una verità scomoda: i titoli di stato USA, per anni il simbolo della sicurezza finanziaria, non sono più considerati completamente privi di rischio

E questo potrebbe significare che il tempo in cui l’America poteva stampare moneta a piacimento, con il mondo pronto ad assorbirla senza troppe conseguenze, sta per finire. Viene da chiedersi: come si colloca Bitcoin in questo scenario potenzialmente rivoluzionario?

Moody’s declassa le Treasury USA

Sentire che il debito americano non è più intoccabile fa un certo effetto. Dopotutto, per decenni è stata la roccia su cui si è appoggiato l’intero sistema finanziario globale. Ma ecco che le agenzie di rating – questi enigmatici arbitri del credito sovrano come Moody’s, S&P e Fitch – tornano protagoniste, capaci come sono di aprire o chiudere le porte dei mercati a intere nazioni con un semplice cambio di “pagella”.

Dopo questa premessa, che oscilla tra il catastrofico e l’ottimista (soprattutto per chi, come forse anche voi, vede in Bitcoin un’alternativa), cerchiamo di capire cosa è successo davvero. Sostanzialmente, è cambiata una “lettera”, o meglio, la prospettiva su quella lettera. Un avvenimento all’apparenza irrilevante, ma che potrebbe aprire le porte a un cambiamento radicale della finanza come la conosciamo. Moody’s, con il suo recente cambio di outlook (pur mantenendo per ora il rating Aaa), segue le orme di Standard & Poor’s (che declassò da AAA ad AA+ nel 2011) e Fitch (declassamento simile nel 2023), segnalando che la fiducia nel “porto sicuro” per eccellenza non è più incondizionata.

Quali sono i motivi del declassamento?

Le domande sorgono spontanee: perché questo cambio di rotta? Quali saranno le ripercussioni sul dollaro e sui principali indici azionari?

La motivazione principale di questo declassamento “annunciato” la conoscete probabilmente già, se seguite con un minimo di attenzione le dinamiche economiche – e il nostro blog. Il primo, ovvio, colpevole è il debito pubblico USA, la cui crescita può essere definita senza mezzi termini “fuori controllo”. Parliamo di un deficit federale che si avvicina ai 2.000 miliardi di dollari all’anno, circa il 6% del PIL – cifre mai viste, nemmeno durante le crisi più acute degli anni ’70. E questo senza contare il fardello crescente degli interessi su tale debito.

A ciò si aggiunge quella che Moody’s definisce una palese “incapacità politica di invertire la rotta”, ovvero una paralisi decisionale che impedisce di attuare riforme fiscali sostenibili. In breve: “la traiettoria fiscale statunitense è compromessa”. Il vero problema è che la situazione che abbiamo appena descritto sembra destinata a peggiorare. Secondo le stesse proiezioni di Moody’s (e di altri enti come il CBO), il deficit potrebbe schizzare al 9% del PIL entro il 2035, e questo nello scenario più ottimista, senza considerare shock esterni come pandemie, guerre o recessioni. Queste cifre proietterebbero il debito pubblico complessivo verso un terrificante 180% del PIL.

Gli USA non sono più intoccabili?

Il CBO (Congressional Budget Office), per sottolineare la gravità, ha addirittura tracciato un parallelo con il disastroso mini-budget proposto da Liz Truss nel Regno Unito nel 2022, che gettò nel panico i mercati finanziari.

Nel frattempo, come logica conseguenza, i rendimenti dei titoli di stato americani crescono: quello del trentennale ha già toccato o superato il 5%, e il decennale si attesta su livelli simili (es. 4,517% o più). Il motivo è semplice: più uno strumento finanziario è percepito come rischioso, più alto deve essere il suo rendimento per attrarre investitori. Questo, però, significa anche che gli USA dovranno sborsare più soldi per pagare gli interessi ai propri creditori, alimentando un circolo vizioso del debito. E attenzione, perché i rendimenti potrebbero salire ancora: il mercato obbligazionario è spesso più reattivo di quello azionario, e i famosi “bond vigilantes” (grandi investitori che “puniscono” i governi con politiche fiscali allegre vendendone i titoli) agiscono in fretta.

Il CBO stima che entro il 2030, ben il 22% di tutto il gettito fiscale USA (i soldi incassati con le tasse) sarà divorato dal solo pagamento degli interessi sul debito.

La domanda sorge quindi spontanea: l’eccezionalismo del debito USA è al capolinea? Anche gli Stati Uniti dovranno affrontare lo stesso scrutinio e gli stessi problemi di bilancio che noi italiani conosciamo fin troppo bene? La famosa “spending review” busserà anche alle porte di Washington? Bisogna ammettere che il dollaro USA non è una valuta qualsiasi: è la valuta di riserva mondiale, il linguaggio universale della finanza globale, la moneta che le banche centrali di tutto il mondo accumulano. Ma il giochino per cui gli USA stampano denaro senza limiti, sicuri che gli altri Paesi glielo comprino (un concetto legato al Dilemma di Triffin), potrebbe davvero finire.

Come se non bastasse, indiscrezioni recenti suggeriscono che nelle ultime settimane la FED potrebbe aver acquistato ben 43,6 miliardi di dollari di Treasury USA, di cui 8,8 miliardi di titoli di stato con scadenza a 30 anni l’8 maggio. Ciò che preoccupa maggiormente gli analisti non è tanto l’acquisto in sé, quanto il fatto che sarebbe avvenuto in sordina, non supportato da alcun annuncio ufficiale. Un’operazione del genere, se confermata, potrebbe segnalare l’inizio di una nuova fase in cui la banca centrale americana tenta di controllare i rendimenti dei bond (una sorta di yield curve control mascherato) per evitare un cosiddetto “bear steepener” – ovvero una situazione in cui la differenza di rendimento tra obbligazioni a breve e lunga durata diventa eccessivamente marcata. Evitare tale scenario è cruciale: un’eccessiva divergenza nei rendimenti potrebbe infatti costringere la FED ad alzare ulteriormente i tassi di interesse, aggravando il costo del debito e intensificando il circolo vizioso di cui abbiamo parlato.

Bitcoin può essere la soluzione?

E qui arriviamo al nocciolo della questione per molti osservatori attenti. In uno scenario dove la fiducia nella principale valuta di riserva mondiale e nei suoi titoli di stato inizia a incrinarsi, dove il debito sembra una voragine senza fondo e la capacità di ripagarlo senza svalutare la moneta è messa in dubbio, quale ruolo può giocare Bitcoin

In questo senso risuonano quanto mai attuali le dichiarazioni che Larry Fink, il CEO di BlackRock ha inserito nella sua lettera annuale agli shareholders del più grande fondo di investimento al mondo. In quel documento Fink dichiara che “Bitcoin ha le carte in regola per rimpiazzare il dollaro americano, proprio a causa dell’irreversibile situazione legata al debito statunitense.”

Insomma, per chi sostiene Bitcoin, la risposta è quasi ovvia. Di fronte a debiti sovrani fuori controllo e a valute fiat a rischio inflazione per “monetizzare” quei debiti, Bitcoin si propone come:

  1. Una riserva di valore alternativa, un “oro digitale” con un’offerta limitata e prevedibile (massimo 21 milioni di unità), non manipolabile da decisioni politiche o da banche centrali;
  2. Un asset intrinsecamente scarso;
  3. Un sistema di pagamento globale, decentralizzato e resistente alla censura.

Certo, Bitcoin ha la sua volatilità e le sue sfide, ma in un contesto di crescente preoccupazione per la stabilità del sistema finanziario tradizionale, la sua narrativa come potenziale scudo o diversificatore di valore acquista sempre più forza.Il cambio di outlook di Moody’s non è la fine del mondo, ma è un segnale potente. E mentre i pilastri della finanza tradizionale mostrano qualche crepa, un’alternativa digitale, un tempo considerata di nicchia, si fa sempre più strada. Staremo a vedere cosa emergerà dal discorso della FED, ma una cosa è chiara: le fondamenta stanno tremando e il dibattito su cosa verrà dopo è più vivo che mai.


Risiko bancario: che cos’è e perché si innesca?

Risiko bancario: che cos’è e come si innesca?

Scopri cos’è il risiko bancario, un’attività giustificata dagli extra-profitti delle banche

Che cos’è il risiko bancario? No, non è l’ultima espansione del vostro gioco da tavolo preferito, anche se le dinamiche di conquista e strategia che lo regolano ci assomigliano parecchio. Questo termine, mutuato con arguzia dal celebre gioco da tavolo, descrive la recente e vivace tendenza degli istituti di credito, specialmente quelli con qualche “carrarmatino” in più, a lanciarsi in operazioni di fusione, acquisizione (M&A) e accorpamento. Un po’ come quando, nel gioco, hai accumulato abbastanza armate da guardare con interesse i territori del vicino.

La prima misura macroeconomica che possiamo associare al risiko bancario è la modifica dei tassi di interesse, un argomento molto frequente nei nostri articoli per via della sua influenza sui mercati, anche su quello crypto. L’innalzamento del costo del denaro, deciso dalle banche centrali per domare l’inflazione (mentre noi comuni mortali vedevamo lievitare le rate dei mutui), ha fatto la gioia dei bilanci bancari. Questi extraprofitti verranno reinvestiti per crescere ed espandersi. Preparate i pop-corn perché la stagione 2025-2026 del risiko bancario, si preannuncia scoppiettante.

Lo stato di salute delle banche italiane

Prima di approfondire il tema principale, è utile una breve analisi dello stato di salute degli istituti di credito, per comprendere il contesto in cui si sviluppa il fenomeno del risiko. Negli ultimi anni, le banche hanno beneficiato significativamente delle decisioni delle banche centrali sui tassi di interesse.

Durante il 2023, le maggiori banche italiane quotate in borsa hanno registrato utili netti aggregati per 21,9 miliardi di euro, cifra che è ulteriormente salita a 31,4 miliardi nel 2024. A livello europeo, i profitti dei venti istituti più importanti hanno raggiunto circa 100 miliardi di euro.

Il principale motore di questa crescita è stato l’incremento dei tassi di interesse operato dalla Banca Centrale Europea per contrastare l’inflazione (da luglio 2022 a ottobre 2023, i tassi di riferimento sono passati dallo 0% al 4,5%). Ciò ha provocato un aumento del margine netto di interesse, ovvero la differenza tra gli interessi attivi riscossi sui prestiti e gli interessi passivi corrisposti sulla raccolta. Semplificando, si può dire che le banche hanno adeguato più rapidamente i tassi attivi sui finanziamenti concessi ai clienti rispetto alla remunerazione offerta sui depositi.

Tuttavia, i risultati positivi non derivano soltanto da questa dinamica. Si è registrata anche una crescita delle commissioni nette, prevalentemente dalla gestione patrimoniale. Queste componenti hanno contribuito alla situazione attuale, in cui le banche, grazie ai consistenti profitti accumulati (assimilabili, nella metafora del Risiko, a territori conquistati o carte bonus), dispongono di significativa liquidità (o “armate”). Il passo successivo, in entrambi gli scenari, è l’investimento di queste risorse per l’espansione.

Il risiko bancario

La metafora del risiko bancario è particolarmente calzante poiché, in questo periodo, il settore è sempre più simile ad una arena competitiva. Tuttavia, a differenza del gioco da tavolo, la spinta al consolidamento tra banche è alimentata da una serie di motivazioni strategiche fondamentali per la loro crescita e stabilità. Ecco le principali:

  1. Ricerca di economie di scala: l’obiettivo primario è unificare le strutture operative, ottimizzare i costi attraverso la razionalizzazione dei processi interni e l’integrazione delle piattaforme tecnologiche.
  2. Diversificazione geografica e di prodotto: espandere la presenza territoriale e ampliare la gamma di servizi offerti permette alle banche di ridurre i rischi legati alla concentrazione su specifici mercati o segmenti di clientela, e al contempo di aumentare le opportunità di cross-selling e, di conseguenza, i ricavi.
  3. Aumento della competitività: banche di maggiori dimensioni dispongono generalmente di un maggior potere negoziale e di una capacità superiore di investire in nuove tecnologie, nello sviluppo delle risorse umane e in iniziative di marketing, rafforzando così la loro posizione sul mercato.
  4. Risposta strategica alle sfide del settore: le operazioni di M&A sono viste come una risposta all’accelerazione della digitalizzazione, alla necessità di conformarsi a una regolamentazione sempre più stringente (ad esempio in materia di requisiti patrimoniali e di liquidità) e all’urgenza di affrontare tematiche trasversali come la sostenibilità ambientale e sociale.
  5. Pressione degli azionisti: un fattore rilevante è la costante pressione esercitata dagli azionisti per massimizzare il valore delle azioni e dei dividendi, e per attrarre nuovi investitori.

Il risiko bancario: i casi più emblematici

Il panorama italiano ha già assistito a casi emblematici di M&A che hanno ridisegnato la mappa del credito. L’operazione Intesa Sanpaolo / UBI Banca, finalizzata nel 2021, è considerata un punto di svolta che ha effettivamente dato il via alla più recente ondata di “risiko bancario”. Questa fusione ha consolidato la leadership di Intesa Sanpaolo e ha agito da catalizzatore per ulteriori aggregazioni.

Un altro esempio significativo è stata l’acquisizione del Credito Valtellinese (CreVal) da parte di Crédit Agricole Italia (2020-2021), che testimonia l’interesse di gruppi esteri a rafforzare la propria presenza in aree strategiche del paese. Anche BPER Banca si è dimostrata un attore attivo, con l’acquisizione di Banca Carige (2022) e le ricorrenti discussioni su una potenziale integrazione con la Banca Popolare di Sondrio.

Sullo sfondo, rimangono le ipotesi che coinvolgono i principali player: si è molto discusso di un interesse di UniCredit per incrementare la sua quota nella tedesca Commerzbank, così come di passate interlocuzioni per un’aggregazione tra la stessa UniCredit e Banco BPM. Quest’ultima è attualmente impegnata nel tentativo di concludere l’offerta pubblica d’acquisto su Anima SGR, che è contemporaneamente oggetto di interesse da parte di Unicredit con un’offerta superiore ai 10 miliardi di euro. Nel frattempo, Unipol, dopo l’esclusione dall’ultima vendita di quote pubbliche di Monte dei Paschi di Siena, sembra mirare a favorire un’integrazione tra Bper e Popolare di Sondrio, di cui detiene una quota rilevante.

Banca Monte dei Paschi di Siena (MPS) continua a essere un elemento centrale nelle dinamiche di M&A, con il governo italiano alla ricerca di soluzioni di mercato per la sua definitiva stabilizzazione e privatizzazione; in questo contesto, si è nuovamente ipotizzato un possibile coinvolgimento di UniCredit.

Quali saranno i prossimi sviluppi?

Quali saranno gli esiti di questa fase del risiko bancario? È complesso fornire una risposta univoca, anche perché, non verrà incoronato un vincitore assoluto e definitivo. Il risiko bancario – e questa è una notevole differenza rispetto alle dinamiche del gioco da tavolo – è un processo continuo, che si adatta alle mutevoli stagioni dell’economia e della finanza.

Il periodo attuale è certamente cruciale. Con i tassi d’interesse in discesa, i margini di guadagno eccezionali registrati dalle banche negli ultimi anni potrebbero subire una normalizzazione. Questo scenario, naturalmente, spinge gli istituti di credito a rimescolare le carte e a studiare nuove strategie per mantenere la redditività e rafforzare la propria posizione competitiva.

Vedremo quindi, con ogni probabilità, ulteriori operazioni di consolidamento. I grandi gruppi bancari potrebbero puntare a irrobustirsi ulteriormente per competere efficacemente su scala globale, mentre gli altri istituti lavoreranno per non restare indietro, magari attraverso alleanze strategiche o fusioni mirate a creare campioni nazionali o specializzati.

E per i clienti e il sistema economico nel suo complesso? Le argomentazioni a favore di queste operazioni evidenziano spesso i benefici attesi in termini di maggiore stabilità, efficienza e capacità di investimento. Sarà importante osservare se a queste grandi manovre corrisponderanno poi benefici tangibili in termini di effettiva concorrenza, qualità dei servizi offerti e supporto all’economia reale. La partita del risiko bancario, insomma, è ancora in pieno svolgimento e le sue prossime mosse continueranno a disegnare il futuro del settore creditizio.

USA e Cina: la guerra commerciale verso la tregua?

USA e Cina: la guerra commerciale verso la tregua?

USA e Cina stabiliscono una tregua di 90 giorni alla guerra commerciale: sospesa parte dei dazi a partire dal 14 maggio. Le reazioni dei mercati

USA e Cina hanno pubblicato una dichiarazione congiunta nella mattinata di lunedì 12 maggio: nella nota, si comunica la sospensione di parte dei dazi reciproci per 90 giorni a partire dal 14 maggio. La tregua alla guerra commerciale arriva dopo due giorni di intensi colloqui a Ginevra fra Scott Bessent e Jamieson Greer, rispettivamente il segretario al Tesoro e il rappresentante per il Commercio statunitensi, e il vicepremier cinese, He Lifeng. Come hanno reagito i mercati a questa notizia?

USA e Cina mettono temporaneamente in pausa la guerra commerciale 

Ginevra, lunedì 11 maggio. USA e Cina hanno comunicato in una dichiarazione congiunta di aver raggiunto una tregua temporanea nella guerra commerciale cominciata più di un mese fa. Le due superpotenze sospenderanno parte dei dazi reciproci a partire da mercoledì 14 maggio, per un periodo di 90 giorni. Nello specifico, la Casa Bianca fa sapere che gli Stati Uniti abbasseranno le tariffe doganali sulle merci cinesi dal 145% al 30%, mentre la Cina ridurrà i dazi sulle importazioni americane dal 125% al 10%.

La decisione arriva dopo due giorni di intensi colloqui tra il segretario al Tesoro e il rappresentante per il Commercio statunitensi Scott Bessent e Jamieson Greer e il vicepremier cinese He Lifeng. Già nella serata di sabato il presidente degli USA Donald Trump aveva dichiarato sul social Truth che la trattativa stava andando nella giusta direzione e che “molte cose sono state discusse, molte concordate” per “un reset totale negoziato in modo amichevole, ma costruttivo”. 

USA e Cina fanno pace e i mercati ringraziano

La tregua, seppur temporanea, nella guerra commerciale fra le due superpotenze economiche rassicura i mercati finanziari di tutto il mondo. Per quanto gli analisti ritengono che un accordo commerciale vero e proprio sia ancora lontano, la sospensione dei dazi reciproci fra USA e Cina viene letta come un allentamento della tensione e, soprattutto, un’apertura al dialogo. Il verde domina i principali listini di tutto il mondo e il dollaro torna a crescere dopo settimane in calo: il cambio euro/dollaro, al momento in cui scriviamo, si attesta sul valore di 1.112, in ribasso dello 0,8% dal momento dell’annuncio della tregua. 

Il mercato delle criptovalute continua a dare segnali positivi e Bitcoin sembra voler proseguire la sua scalata verso l’ATH: nella mattinata, più o meno verso le ore 7 italiane, BTC è arrivato a sfiorare i 106.000$, per poi ritracciare e assestarsi sui 104.400$. Lato altcoin, all’annuncio della pausa delle tariffe Ethereum ha reagito positivamente passando da quota 2.500$ a 2.600$ per poi scendere a 2.550$. La dominance di Bitcoin giù dello 0,4% circa, a quota 62,7%. Per quanto riguarda la market cap totale del mercato crypto, siamo sui 3,31 trilioni di dollari, in crescita dello 0,5% dal momento della pubblicazione del comunicato della Casa Bianca. 

Cosa aspettarsi dal futuro?

USA e Cina sembrano indirizzati verso un accordo commerciale stabile che porti beneficio a entrambi ma Donald Trump, in questi quasi quattro mesi di presidenza, ci ha abituato all’imprevedibilità: come abbiamo più volte sottolineato, attualmente ci troviamo in una fase caratterizzata dall’estrema incertezza sugli scenari economici futuri, stando anche a quanto riferito dalla FED in occasione del FOMC di maggio. In ogni caso, questa tregua – insieme al recente accordo stipulato col Regno Unito – sembra testimoniare un sostanziale cambio di atteggiamento da parte dell’amministrazione USA, che potrebbe iniziare a muoversi con più cautela e razionalità nei confronti dei partner commerciali. 

Se ti interessa questo tipo di notizie, il consiglio è di iscriverti qui sotto: noi di Young pubblichiamo quotidianamente aggiornamenti simili, come l’indice dei prezzi al consumo USA previsto per martedì 13 maggio. Alla prossima!

La quotazione dell’oro alle stelle: cosa succede?

La quotazione dell’oro alle stelle: cosa succede?

La quotazione dell’oro prosegue il suo viaggio verso la Luna: dopo aver rotto i 3.500$/oncia, ora si aggira sui 3.300$. Cosa succede?

Nell’ultimo anno, la quotazione dell’oro è passata da circa 2.300$ ai 3.300$ per oncia di questi giorni, mettendo a segno un +42% e rompendo la soglia psicologica dei 3.500€. La pandemia e le guerre hanno contribuito a generare una situazione estremamente instabile che terrorizza gli investitori, i quali fuggono verso soluzioni più sicure. Ma nello specifico, cosa è successo? E soprattutto, il trend rialzista è destinato a continuare? 

Capire la quotazione dell’oro: una premessa che potrebbe aiutarti

I movimenti della quotazione dell’oro non possono essere compresi a pieno senza conoscere il significato storico e le caratteristiche che rendono prezioso questo metallo. L’oro è una materia prima quasi unica nel suo genere poiché è presente da millenni nella cultura umana: le prime tracce del suo utilizzo come mezzo di scambio risalgono addirittura alle antiche civiltà egizia e sumera, mentre le prime monete d’oro furono coniate già nell’ottavo secolo a.C. Una presenza così continuativa nel tempo è motivata dalle proprietà fisiche intrinseche che possiede, come la malleabilità, la durabilità, la divisibilità e la rarità, che lo rendono un materiale particolarmente richiesto e desiderato in modo trasversale. Con l’avvento dell’industria elettronica, inoltre, si sfruttano anche le sue capacità di conduzione termica ed elettrica. 

L’oro, nel corso dei secoli, è stato costantemente e universalmente riconosciuto come riserva di valore, vale a dire come un modo per mantenere intatta la propria ricchezza nel tempo. Cigni neri come crolli di monarchie e imperi, guerre, pandemie e crisi finanziarie, hanno provocato la fine di epoche storiche e sistemi economici, ma non hanno mai intaccato la percezione collettiva nei confronti di questo metallo: l’associazione dell’oro con la sicurezza, la stabilità e la conservazione della ricchezza è profondamente e storicamente radicata nella coscienza comune. Per questi motivi, gode di estrema fiducia da parte degli investitori.

L’insieme di questi elementi fa sì che l’oro, come abbiamo anticipato, sia un materiale molto richiesto. L’alta richiesta, però, deve fare i conti con una quantità limitata disponibile sul nostro pianeta. Il risultato è che il prezzo dell’oro – o anche la quotazione dell’oro – sui mercati è motivato dall’incontro tra domanda e offerta

Una volta capito come “funziona” l’oro, è il momento di analizzare le ragioni dietro questa performance spaziale. 

Cosa spinge la quotazione dell’oro verso l’alto?

Come abbiamo detto, la quotazione dell’oro è il prodotto della legge della domanda e dell’offerta sulla materia prima e di dinamiche sottostanti molto complesse e ricche di variabili da prendere in considerazione. Tuttavia, tale complessità fatta di astruse formule matematiche e interminabili file excel la lasciamo a chi fa questo di mestiere. A noi piace semplificare la questione, affermando che la quotazione dell’oro è direttamente proporzionale al grado di instabilità – o incertezza – percepita o reale: più la situazione economica, geopolitica, sanitaria e quello che vuoi, è instabile, più ci sarà richiesta e più il prezzo salirà. Al contrario, più la situazione è stabile, più la quotazione sarà uniforme e organica, non soggetta ad aumenti o cali repentini della domanda. 

Ti ricordi l’assalto ai supermercati all’annuncio del lockdown? In quell’assurdo momento di panico, la gente è corsa a comprare i legumi, perché sono i viveri perfetti per l’apocalisse: scadono dopo anni, si conservano facilmente, sono nutrienti. In situazioni di normalità, hai la scorta di fagioli borlotti in casa? Improbabile. Quindi, con le dovute proporzioni, l’oro è come i legumi – non masticarlo – ed è il bene rifugio per eccellenza nei periodi di forte stress. Ma perchè questa volta ha rotto ogni record?  

Pandemia, guerre e inflazione: la tempesta perfetta

Da marzo 2024 la quotazione dell’oro è passata dai 2.000€ ai 3.300€ l’oncia – al momento in cui scriviamo – registrando un aumento del 63% e arrivando a rompere la soglia psicologica dei 3.500€. Impressionante se pensiamo che venti anni fa il suo prezzo oscillava fra i 400$ e i 500$. Ma questo comportamento, sulla base di quanto detto finora, non dovrebbe stupire. Infatti se ci concentriamo sui singoli eventi macro negativi, possiamo trovare conferma di questa correlazione diretta tra instabilità e prezzo: con la crisi del 2008, l’oro passa da 711$ l’oncia a 1820$ in tre anni; da gennaio 2020 a luglio 2020, la pandemia e i lockdown spingono la quotazione verso l’alto del 30%; infine, dal febbraio 2022 ad oggi, l’invasione russa dell’Ucraina, la riapertura del conflitto israelo-palestinese e l’elezione di Donald Trump hanno portato l’oro a un passo dal raddoppio del prezzo (+85%). 

Nuvole nere si addensano all’orizzonte: scoppia il Covid-19

In questo lasso di tempo, specialmente negli anni del Covid-19, i governi le banche centrali di tutto il mondo sono stati obbligati a lanciare misure fiscali espansive senza precedenti per sostenere le economie, le imprese e i cittadini: per esempio in Europa, il NextGenerationEU equivale a 806 miliardi di euro – ma è parte di un pacchetto di aiuti di 2 trilioni di euro – mentre negli Stati Uniti, l’insieme degli stimoli fiscali approvati in quel periodo ammonta a circa 6,9 trilioni di dollari. In tutto ciò, i tassi di interesse erano vicini allo zero. Cosa succede quando la quantità di moneta circolante aumenta in maniera così imponente? Risposta esatta, l’inflazione cresce. E cosa fanno i grandi player quando l’inflazione cresce? Altra risposta esatta, si rifugiano nell’oro per evitare la svalutazione del proprio capitale.

Inizia a diluviare: la Russia invade l’Ucraina

Nonostante tutto, l’economia riparte, le banche centrali possono finalmente cominciare la lotta all’inflazione e nel 2022 la FED alza i tassi di interesse, seguita in scia dalla BCE e da altre banche. Ma Vladimir Putin in quel momento decide di invadere l’Ucraina: si verifica un potente shock sull’offerta dell’energia e delle materie prime, soprattutto di tipo alimentare, perché la Russia è uno dei principali esportatori di gas e petrolio, mentre l’Ucraina – il Granaio d’Europa – rifornisce il mondo di cereali. Ciò si traduce in un ulteriore shock dei prezzi che, a catena, si ripercuote sul costo della vita: ti ricordi quanto costava fare benzina nell’estate del 2022? Circa 2€ al litro. Ora, lasciando da parte il discorso sulle imprese energivore, il solo aumento delle spese legate al trasporto su strada ha provocato un rialzo dei prezzi a 360 gradi. Sappiamo che la salita dei prezzi corrisponde alla perdita di potere d’acquisto la quale, a sua volta, implica l’aumento dell’inflazione. Cosa succede quando aumenta l’inflazione? Esatto, parte la corsa all’oro neanche fossimo nel Klondike di Paperon de’ Paperoni. 

Fulmini e saette: il Medio-Oriente si infiamma

La situazione geopolitica è molto instabile, ma tutto sommato le economie reggono, anche grazie alla spinta delle politiche espansive dell’era Covid. Tuttavia, a neanche un anno dall’invasione, si apre un altro fronte di guerra: il conflitto israelo-palestinese esplode per l’ennesima volta e il Medio-Oriente si infiamma. Tra le cose che accadono, il gruppo terroristico degli Houthi inizia a lanciare missili per ritorsione sullo stretto di Bab-el-Mandeb, un collo di bottiglia tra Yemen e Corno d’Africa che conduce al Canale di Suez e da cui passava circa il 15% del commercio marittimo globale. Le navi cargo commerciali, obiettivo primario dell’attacco degli Houthi, sono tuttora costrette ad evitare Suez e circumnavigare l’Africa per raggiungere l’Europa, aggiungendo 10-15 giorni di navigazione. Ciò, naturalmente, ha prodotto un rincaro generalizzato dei prezzi. E cosa succede se i prezzi salgono? L’inflazione cresce e…sì, si corre a guardare la quotazione dell’oro per comprare qualche oncia

La tempesta ora è perfetta: Donald Trump annuncia i dazi doganali 

E quando sei li a pensare che non potrebbe andare peggio, Donald Trump vince le elezioni e decide di scatenare il panico nelle istituzioni economiche e finanziarie di tutto il mondo, pronunciando una sola parola: tariffs, dazi. In un mercato estremamente globalizzato e connesso come quello del XXI secolo, se la principale economia del pianeta impone dazi altissimi – poi sospesi fino a luglio – la situazione diventa grave. Infatti oltre al rischio inflazione, con le barriere all’ingresso che gonfiano i prezzi finali delle merci importate, in questo caso si aggiunge anche il timore della recessione perché l’economia rallenta pesantemente. Dal 9 aprile, giorno in cui Trump ha annunciato i dazi, la quotazione dell’oro ha sfondato il tetto psicologico dei 3.500$ l’oncia mettendo a segno un +15%, per poi ritracciare e lateralizzare intorno ai 3.300$. 

La quotazione dell’oro nel futuro: il trend proseguirà?

Un report di Goldman-Sachs ci fornisce un dato interessante circa l’interesse per l’oro da parte delle banche centrali mondiali: dal congelamento degli asset della banca centrale russa nel 2022 (a seguito dell’invasione dell’Ucraina), la richiesta media mensile è passata da 17 a 108 tonnellate. Goldman-Sachs stessa prevede che alla fine del 2025 la quotazione dell’oro si aggirerà nel range compreso tra i 3.650$ e i 3.950$ per oncia, mentre JP Morgan stima una crescita oltre i 4.000$ per oncia nel 2026. Insomma, secondo molti pareri autorevoli la tempesta perfetta fatta di pandemie, guerre e tariffe doganali continuerà a spingere l’oro nel suo viaggio in direzione Luna. 

Ora che conosci questo prezioso metallo, la sua storia e le sue caratteristiche di bene rifugio anti-inflattivo, ti consigliamo di informarti su quello che viene chiamato “oro digitale”, Bitcoin. Potresti cominciare dall’articolo in cui spieghiamo come proteggersi dall’inflazione proprio grazie a Bitcoin, può essere un ottimo punto di partenza. Poi, potresti iscriverti qui sotto, per non perdere il ritmo!

Crollo in Borsa: cosa sta succedendo?

Crollo in Borsa: cosa sta succedendo?

Panico nella finanza mondiale: Trump annuncia i dazi, Wall Street perde 5.000 miliardi di dollari. Cosa succede? Ecco una panoramica dei principali listini

Mercoledi 2 Aprile il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato i temuti dazi reciproci: oggi il rosso domina i grafici dei principali (e non solo) indici e listini mondiali. Il sentiment è fortemente negativo e il panic selling sta generando una cascata di vendite che sembra decisa a non arrestarsi.

Scopri le performance dei principali titoli e l’impatto di questa crisi sulle principali crypto. 

Wall Street: tempesta improvvisa senza scialuppe di salvataggio

Situazione tesa dalle parti di New York. Dal fatidico “Liberation Day”, la Borsa più famosa del mondo ha registrato perdite comparabili ai PIL di Italia e Francia sommati: dal 2 Aprile sono andati in fumo almeno 5.000 miliardi di dollari, con l’S&P500 che perde più del 10%, così come il Nasdaq (-10,3%) e il Dow Jones il 9,6%. Situazione ancora più critica se si prendono in esame le singole azioni: Apple perde il 19%, Meta l’11,5% e Nvidia il 12,6%. Trend fortemente ribassista che sembra confermarsi anche per questa settimana, dal momento che lunedì mattina i futures sull’S&P500 cedevano il 3,39%, quelli sul Nasdaq il 3,41% e quelli sul Dow Jones il 3,09%. Domenica notte il Presidente Trump ha minimizzato il panico sui mercati azionari: “A volte è necessario prendere dei farmaci per curarsi”, ha dichiarato. Intanto Goldman Sachs aumenta la probabilità di recessione, alzandola al 45%. Oggi però il sentiment sembra differente: sempre lato futures, S&P500, Nasdaq e Dow Jones guadagnano rispettivamente l’1,5%, l’1,3% e il 2%.

Per concludere, la FED ha indetto una riunione a porte chiuse per la “Revisione e determinazione da parte del Consiglio dei Governatori dei tassi di anticipo e di sconto da applicare dalle Banche della Riserva Federale” lunedì 7 Aprile alle 17:30 ora italiana. Per ora sappiamo che nella giornata di venerdì scorso il presidente Jerome Powell ha affermato che “non sembra ci sia bisogno di avere fretta” e che occorre osservare “come si evolve la situazione prima di iniziare ad apportare modifiche“. Riguardo il taglio dei tassi, l’idea condivisa fra i trader vede maggiori possibilità nel meeting di Giugno (al 70%) piuttosto che a Maggio (al 30%). Dall’altro lato Donald Trump, in un tweet di ieri sera, consiglia alla “slow moving” FED di tagliare i tassi, dal momento che non ci sarebbe inflazione. Quale sarà la prossima mossa?

Asia ed Europa: follow the leader

Sul fronte orientale la situazione è molto simile, esacerbata dalla risposta della Cina che ha imposto dei controdazi speculari al 34% sui prodotti USA: gli indici di Shanghai e Shenzhen cedono rispettivamente il 7,17% e il 10,79%, l’indice Hang Seng di Hong Kong mette a segno la peggiore seduta dalla crisi finanziaria del 1997 perdendo il 13,22%, mentre la Borsa di Taiwan aggiorna il record assoluto in negativo, arrivando a registrare cali per il 9,7%

Stesso identico discorso per i listini europei che seguono la scia le chiusure dei mercati asiatici. Le variazioni a una settimana vedono il DAX di Francoforte è giù del 10,8%, il CAC 40 di Parigi del 11,1% così come il FTSE 100 di Londra, che registra perdite per il 10,3%. In casa nostra, il FTSE MIB di Milano attualmente è in negativo del 13,7%,: a pesare, le forti perdite – fino al 12% – che hanno investito il comparto bancario. Discorso leggermente diverso per la seduta odierna, che vede i principali indici europei recuperare mediamente tra l’1% e il 2%

Il mercato crypto si allinea: liquidazioni per 1.4 miliardi

La pioggia di vendite ha investito anche il mercato delle criptovalute, che vede la Market Cap totale scendere del 6,7%, recuperando la soglia dei 2,4 trilioni di dollari, persa durante la giornata di lunedì. L’alta incertezza dettata da questa situazione è riscontrabile nel Fear and Greed Index, in Extreme Fear, oltre che dal crollo notturno di Bitcoin: nella notte fra domenica e oggi, la regina delle criptovalute sta perdendo circa il 5,2% e – al momento in cui scriviamo – viaggia intorno ai 79.000$. Come si legge su NY Times, “the man nicknamed the first Bitcoin president is presiding over a Bitcoin crash”.

Lasciando da parte le emozioni, dal punto di vista dell’analisi tecnica BTC scende per la prima volta sotto la soglia dei 75.000$ da Novembre e va a “sbattere” contro supporti che non si vedevano dal 2021: il principale, la linea dei 69.000$. A proposito, un interessante tweet da parte dell’analista noto su X (ex Twitter) con l’handle @KevinSvenson_ ribalta completamente la narrazione: secondo lui, stiamo assistendo a un retest dei massimi del 2024, localizzati appunto nella zona dei 75.000$. Il tweet continua con uno statement lapidario che recita “questa è l’ultima occasione per $BTC di mantenere la sua macrostruttura rialzista”. 

Per quanto riguarda il fronte Altcoin, Ethereum è arrivato al minimo di 1.415$ nei pressi dello storico supporto dei 1.400$, toccato l’ultima volta nel Marzo 2023. Stesso discorso per Solana, arrivata a toccare il supporto del range 85$-95$ dopo circa un anno. Reazioni decise per entrambe le coin, che per ora si aggirano rispettivamente intorno ai 1550$ e ai 105$.

Però c’è un però, anzi due. Oltre la classica scuola di pensiero che vede le opportunità migliori durante i momenti di crisi, molti analisti offrono uno spunto interessante: il comportamento di Bitcoin potrebbe essere diverso dal solito, forse più maturo. BTC infatti sembra dare segnali di autonomia contro QQQ, l’ETF che replica le 100 aziende dell’NDX, a cui nel breve termine è solitamente correlato. Questa decorrelazione, se confermata, potrebbe indicare forte indipendenza dagli eventi che generalmente turbano il mercato azionario e permettere a Bitcoin di fare un salto di qualità, come asset “diverso”. Tenere d’occhio i grafici in questo periodo può essere una mossa azzeccata e il mercato in questi giorni può regalare emozioni.
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