Questa sezione analizza gli scenari economici presenti e futuri, evidenziando il loro impatto sulle politiche globali e sulle decisioni aziendali. Attraverso analisi macroeconomiche e studi di caso, indaghiamo le forze che muovono le economie. Esaminiamo inoltre come le aziende possano adattarsi e prosperare, con un’attenzione speciale al settore delle criptovalute.
La legge di bilancio per il 2026 vede alcuni importanti cambiamenti a livello di tassazione sulle criptovalute e non solo. Quali sono le novità?
La legge di bilancio del 2026 introduce diverse novità fiscali in vari settori, dalle criptovalute alle agevolazioni alle imprese. Occorre precisare che, per ora, abbiamo a disposizione solo una bozza (o disegno) ufficiale approvata dal governo: la versione definitiva arriverà entro il 31 dicembre. In ogni caso, abbiamo dato un’occhiata al testo per cercare di capire che aria tira, concentrandoci – ovviamente – sulla sezione delle crypto. Ma ci sarà spazio anche per altro.
Tasse e criptovalute nel 2026: cosa c’è di nuovo?
Partiamo, come è logico, dalle criptovalute e dalle modifiche che riguardano questo ambito.
Aliquota fissa al 33% o al 26%?
È la prima – e unica – grande questione: a partire dal 1° gennaio 2026, sulle plusvalenze realizzate verrà applicata un’imposta sostitutiva con aliquota fissadel 33%.
In parole più semplici, ciò significa che i profitti realizzati a seguito di vendita o scambio di “cripto-attività” verranno tassati al 33%, a prescindere dal soggetto che ottiene il guadagno. L’imposta sostitutiva, infatti, non prende in considerazione il reddito o altri parametri che, nella maggior parte dei casi, vengono inclusi nel calcolo delle “imposte ordinarie”. Si tratta, quindi, di un prelievo fiscale del 33% uguale per tutti.
Inoltre, è stata eliminata la famosa franchigia dei 2.000€, che escludeva dalla tassazione qualsiasi plusvalenza al di sotto di questa cifra e considerava tassabile solo la parte che superava tale soglia. Cerchiamo di capire meglio quanto appena detto, coi numeri.
Con la dichiarazione di quest’anno, valida per i redditi del 2024, una plusvalenza di 1.800€ non è soggetta ad alcun tipo di imposta, proprio perché non oltrepassa la soglia dei 2.000€. Allo stesso modo, su un profitto di 2.300€, la parte tassata è solamente quella che supera i 2.000€, dunque i 300€. Per la prossima dichiarazione, verrà tassato ogni euro guadagnato.
Questo aggiornamento, in realtà, non è totalmente nuovo: dalla legge di bilancio del 2024 – valida per il 2025 – già si poteva sapere dell’aumento dell’aliquota e della soppressione della soglia, a partire da gennaio 2026.
Il documento di quest’anno, invece, come è scritto nell’Articolo 13 “Disposizioni in materia di criptovalute”, si limita ad aggiungere un pezzo molto interessante alle ultime disposizioni.
Nel testo, appunto, leggiamo che “all’Articolo 1 della legge 30 dicembre 2024, n. 207”, ovvero quella di cui abbiamo parlato qui sopra, “sono apportate le seguenti modificazioni”. Ora, dopo la parola “modificazioni”, l’articolo elenca una serie di lunghi comma che evitiamo volentieri di riportare. Andiamo diretti alla sostanza.
L’aliquota fissa al 33% non vale per tutte le operazioni, c’è un’eccezione: alle plusvalenze “derivanti da operazioni di detenzione, cessione o impiego di token di moneta elettronica denominati in euro”, verrà applicata un’aliquota fissa più bassa, al 26%. In pratica, le operazioni effettuate utilizzando le stablecoin ancorate all’euro saranno sottoposte a una tassazione ridotta al 26%.
Facciamo un esempio. Immagina di voler vendere Bitcoin perché sei in profitto: scambiando BTC con USDC, la plusvalenza sarebbe sottoposta a una tassazione del 33%. Se, invece, scegliessi EURC – la stablecoin ancorata all’euro, emessa da Circle – al posto di USDC, allora l’aliquota si abbasserebbe al 26%. Lo stesso procedimento sarebbe valido per Ethereum e per tutte le altre criptovalute.
Infine, questo paragrafo precisa che “non costituisce realizzo di plusvalenza o minusvalenzala conversione tra Euro etoken di moneta elettronica denominati in euro, né il rimborso in euro del relativo valore nominale”. Anche qui, mille parole per dire che, fondamentalmente, scambiare 1€ in 1 EURC, e viceversa, non è un evento tassabile.
Bel casino eh? Tra aliquote fisse, imposte ordinarie e franchigie c’è il rischio di impazzire. Sarebbe veramente bello avere a disposizione un servizio specializzato gestito da esperti in materia.
E se ti dicessi che è possibile? SuYoung Platform hai la possibilità di chiedere aiuto a Okipo, la soluzione leader in Italia per la fiscalità crypto. Con questa collaborazione, hai l’opportunità di delegare tutte le noie fiscali e non pensarci più. In aggiunta, ti consigliamo di visitare la nostra sezione dedicata “Tasse C’rypto”.
Istituzione del Tavolo permanente
La seconda parte dell’Articolo 13 parla dell’istituzione di un “Tavolo permanente di controllo e vigilanza sulle criptoattività e la finanza innovativavolto a favorire lo sviluppo ordinato e legale del settore”.
Questo tavolo sarà composto da rappresentanti del MEF (Ministero dell’economia e delle Finanze), della Guardia di Finanza, della CONSOB (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa), della Banca d’Italia, dell’Unità di InformazioneFinanziaria e da accademici.
Un gruppo di esperti e addetti ai lavori che, come dice il testo ufficiale, avrà il compito di affiancare le istituzioni di controllo, di monitorare i rischi, di prevenire le frodi, di contrastare attività connesse al riciclaggio e al terrorismo, di seguire l’evoluzione tecnologica del settore e di promuovere l’educazione finanziaria.
E il resto?
L’Articolo 13, che abbiamo appena analizzato, è solamente uno dei 154 articoli contenuti nella bozza della legge di bilancio. In breve, nel documento è elencato un insieme di interventi in vari ambiti, per 18 miliardi di euro: famiglia, imprese, banche e così via. Vediamo rapidamente i più importanti.
Misure fiscali e sostegno al reddito
La seconda aliquota sull’IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) viene ridotta dal35% al 33% – per “seconda aliquota”, si intende il secondo scaglione che comprende i redditi annui compresi tra i 28.000€ e i 50.000€. Sempre in riferimento ai redditi da lavoro, sono state prese delle misure con lo scopo di agevolarela tassazione sui rinnovi contrattuali, sui premi di produttività e su altri trattamenti. Infine, l’esenzione per i buoni pasto è stata elevata da 8€ a 10€.
C’è poi tutta una parte relativa ai bonus edilizi, che vengono riconfermati: a grandi linee, parliamo di detrazioni del 50% nel 2026 e del 36% dal 2027 per il superbonus e per il bonus ristrutturazioni, e del 36% nel 2026 e del 30% nel 2027 per l’ecobonus – con una serie di eccezioni che modificano gli sgravi fiscali a seconda dei singoli casi.
Famiglie, lavoro e politiche sociali
Viene confermata la carta “Dedicata a te”, cioè il contributo mensile di 500€ per i nuclei familiari in difficoltà economica, con lo stanziamento di 500 milioni di euro all’anno. Inoltre, è stata confermata in bozza una serie di provvedimenti finalizzati ad aiutare le famiglie.
Tra questi, l’aumento del bonus per le lavoratrici con due o più figli – bonus mamme – che passa da 40€ a 60€, e il rafforzamento dei fondi per sostenere l’assistenza familiare: Fondo Caregiver, Fondo Minori, Fondo per i genitori lavoratori (Congedo parentale) o divorziati/separati, oltre a modifiche mirate ad alleggerireil calcolo dell’ISEE sulla prima casa. È stato anche rifinanziato il fondo per le donne vittime di violenza, detto reddito di libertà.
Sanità
Oltre ai rifinanziamenti già previsti dalla legge di bilancio del 2024, sono stati aggiunti altri fondi per sostenere la sanità pubblica. L’anno scorso, infatti, il governo aveva già previsto di stanziare 5 miliardi per il 2026, 5,7 miliardi per il 2027 e quasi 7 miliardi per il 2028: nella bozza di quest’anno, il Consiglio dei Ministri conferma altri 2,4 miliardi per il 2026 e 2,65 miliardi per il 2027.
L’obiettivo è migliorare le condizioni contrattuali del personale e assumere nuovi dipendenti, al fine di ridurre le liste di attesa e, in generale, rendere più efficienti le prestazioni sanitarie.
Imprese
La bozza prevede lo stanziamento di alcuni milioni per aiutare le imprese nell’acquisto di nuovi macchinari. Quando un’azienda acquista o prende locazione finanziaria – un leasing con acquisto finale – un bene strumentale come un macchinario, ha la facoltà di dedurre il costo delle tasse di anno in anno. Questo processo si chiama ammortamento.
Il governo, per rilanciare il settore industriale e imprenditoriale, ha previsto un super-ammortamento per i macchinari acquistati nel 2026: l’impresa, quindi, anziché scaricare dalle tasse il costo reale della strumentazione, avrà la possibilità di “fingere” che questa sia costata di più, per avere uno sgravio fiscale maggiore.
Nello specifico, si potrà beneficiare della maggiorazione – cioè dell’aumento del costo – del 180% per gli investimenti fino a 2,5 milioni di euro, del 100% per gli investimenti oltre 2,5 milioni e fino a 10 milioni di euro e del 50% per gli investimenti oltre10 milioni e fino a 20 milioni di euro.
Inoltre, nel caso di investimenti green, la maggiorazione sale al 220% per gli investimenti fino a 2,5 milioni di euro, al 140% per gli investimenti oltre 2,5 milioni e fino a 10 milioni di euro e al 90% per gli investimenti oltre 10 milioni e fino a 20 milioni di euro.
Verranno aiutate anche le piccole e medie imprese (PMI), col finanziamento della “Nuova Sabatini”: 200 milioni per il 2026 e 450 milioni per il 2027 per comprare macchinari nuovi.
Infine, le aziende che investono in zone speciali del Sud, dette ZES (Zone Economiche Speciali) e vicine a porti e interporti, o ZLS (Zone Logistiche Speciali), continueranno a ricevere, rispettivamente, uno sconto sulle tasse e 100 milioni per i prossimi tre anni.
Banche e assicurazioni
Per il triennio 2026, 2027 e 2028, aumenta l’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) per banche e assicurazioni del 2%: nell’ordine, dal 4,65% al 6,65% e dal 5,90% al 7,90%.
Secondo le previsioni, grazie a questo provvedimento lo Stato italiano dovrebbe incassare 1,15 miliardi di euro in più nel 2026, 1,34 miliardi di euro in più nel 2027 e 1,33 miliardi di euro in più nel 2028.
Lo ricordiamo: è solo la bozza ufficiale
Vale la pena sottolinearlo: tutto ciò che abbiamo letto e scritto sarà oggetto di revisione e negoziazione nei prossimi due mesi. Il documento che circola è un prodotto delle volontà di chi governa e non tiene conto, per ora, delle richieste dell’opposizione. Anzi, alcuni articoli presenti nel documento hanno già provocato attriti persino tra i partiti della maggioranza.
Prima di vedere la versione definitiva, il disegno di legge dovrà superare almeno altre 8 fasi, tra esame e approvazione del Parlamento (Camera e Senato), verifica da parte della Commissione di Bilancio e altro ancora. Noi, sicuramente, continueremo a monitorare gli sviluppi: iscriviti al nostro canale Telegram e a Young Platform per evitare di perderti gli aggiornamenti fondamentali!
Giappone, si è dimesso il primo ministro Shigeru Ishiba. Al suo posto è stata nominata Sanae Takaichi. La questione merita un focus. Perchè?
Il Giappone, in questo momento, merita un approfondimento. Qui ci occuperemo di una figura nuova della politica giapponese, Sanae Takaichi, possibile futura prima ministra, soprattutto a causa delle sue idee in materia di politica economica. Non dimentichiamoci, infatti, che il Giappone è la quarta economia del mondo, con un peso importante a livello globale.
Giappone: diamo rapidamente un po’ di contesto
Agli inizi di settembre, il Giappone ha vissuto un momento delicato per quanto riguarda la politica nazionale: il primo ministro Shigeru Ishiba, leader del Partito Liberal Democratico (PLD), harassegnato le dimissioni.
I membri del PLD hanno scelto al suo posto Sanae Takaichi, la quale potrebbe essere la prima donna in Giappone a ricoprire il ruolo di primo ministro. Prima, però, il PLD deve trovare uno o più partner con cui formare la coalizione che governerà il paese. Questo perché il Komeito, letteralmente il “partito del governo pulito”, che da più di vent’anni era alleato di governo col PLD, ha dichiarato di voler rompere l’intesa. Tutto ciò renderà leggermente più complessa la nomina di Takaichi a primo ministro.
Vediamo ora, più nel dettaglio, chi è Sanae Takaichi e perché queste dinamiche politiche dovrebbero interessarci.
Chi è Sanae Takaichi?
Figlia di un impiegato e una poliziotta, Sanae Takaichi nasce nella prefettura di Nara nel 1961. Prima di entrare in politica, Takaichi è stata batterista heavy metal, esperta subacquea e conduttrice televisiva.
Matura l’interesse per la politica intorno agli anni ‘80 e entra nel gioco politico nel 1992, quando prova a candidarsi in parlamento come indipendente. L’impresa fallisce, ma lei non demorde: quattro anni dopo si ricandida col PLD e viene eletta. Da quel momento è considerata una delle figure più conservatrici del partito liberal democratico.
Passando alle sue posizioni in materia di politica economica, Takaichi è una fan assoluta di Margaret Thatcher. Il suo obiettivo, come lei stessa ha dichiarato, è diventare l’Iron Lady – soprannome dato alla Thatcher ai tempi in cui governava – del Giappone. Inoltre, è stata una pupilla dell’ex premier giapponese Shinzo Abe, una figura molto influente nella sua formazione.
Quest’ultimo punto è molto importante: Shinzo Abe, infatti, è stato autore e forte sostenitore di una politica economica basata su una forte iniezione di denaro attraverso stimoli fiscali e aumento della spesa pubblica. Lo scopo era rivitalizzare l’economia giapponese, in quel momento in una crisi profonda causata anche dallo shock della crisi finanziaria del 2008.
Nello specifico, l’Abenomics – crasi tra Abe e Economics – si fondava su tre direttrici: politica monetaria espansiva per aumentare l’inflazione (il giappone era in uno stato deflattivo cronico) e deprezzare lo yen giapponese, favorendo l’export nazionale; tassi di interesse negativi per incentivare la circolazione del denaro nell’economia e riforme strutturali per accrescere la competitività del Giappone. Sanae Takaichi ha promesso di rilanciare la sua visione dell’Abenomics.
Veniamo dunque al nucleo centrale dell’articolo.
Con Sanae Takaichi il Giappone potrebbe entrare nel club degli stimoli fiscali
L’Iron Lady giapponese sembra avere le idee chiare: “Non ho mai negato la necessità di un risanamento fiscale, che naturalmente è importante. Ma la cosa più importante è la crescita. Renderò il Giappone di nuovo una terra vigorosa del Sol Levante”. In altre parole, la crescita economica viene prima dell’equilibrio dei conti pubblici.
Sanae Takaichi, infatti, ha promesso ingentifinanziamenti pubblici per iniziative guidate dal governo in settori come intelligenza artificiale, semiconduttori e batterie. Ha poi dichiarato di voler aumentare la spesa per la difesa e ha annunciato nuovi crediti d’imposta – cioè bonus fiscali – per incrementare il reddito netto dei lavoratori, detrazioni per i servizi domestici e altre agevolazioni fiscali per le aziende che offrono servizi di assistenza all’infanzia interni. Infine, il suo programma prevede forti investimenti pubblici nelle infrastrutture.
Ai mercati finanziari, naturalmente, tutto questo piace moltissimo: stimoli fiscali e politica espansiva sono una manna dal cielo per le imprese, le quali possono accedere più facilmente al credito, investire, innovare e, in ultima istanza, accrescere gli utili, con conseguenze più che positive per il valore delle azioni. E gli effetti si sono già fatti sentire.
Le reazioni dei mercati: il “Takaichi trade”
Il Nikkei, il principale indice azionario giapponese, si è dimostrato particolarmente sensibile agli sviluppi relativi alla nomina di Takaichi a primo ministro. Ripercorrendo la sequenza di eventi, si nota palesemente come il Japan 225 – altro nome per il Nikkei – desideri fortemente l’Iron Lady al governo del Paese del Sol Levante.
Per esempio, Sanae Takaichi è stata scelta dal PLD come erede del primo ministro dimissionario Ishiba nel weekend del 4 e 5 ottobre, a borse chiuse. Lunedì 6, il Nikkei ha guadagnato più del 5,5% in una sola seduta – arrivando fino all’8% se contiamo anche venerdì 3, quando i rumors iniziavano già a circolare. Il “Takaichi trade”, in questo senso, ha portato il principale indice giapponese a toccare nuovi massimi.
In modo uguale ma contrario, quando il Komeito si è staccato dalla coalizione, minando la nomina di Takaichi, il mercato ha reagito in modo molto negativo: il 10 ottobre, il Nikkei ha perso più del 5,6% in borsa.
Dalla rinuncia del Komeito, Sanae Takaichi si è mossa per cercare altri partiti che potessero sostenere l’alleanza di governo, ottenendo buoni risultati. Man mano che uscivano notizie favorevoli, il Nikkei reagiva coerentemente: +5,4% nella settimana compresa fra lunedì 13 e venerdì 17 ottobre.
Infine, nella giornata di lunedì 20 ottobre, il leader del partito di destra Nippon Ishin – il Partito dell’Innovazione – ha annunciato che ufficializzerà l’accordo per supportare la scelta di Takaichi a primo ministro. Ancora una volta, l’indice giapponese dimostra di gradire: +2% in una seduta e All Time High aggiornato.
Qual è la morale della storia?
Dunque, anche la quarta economia del mondo potrebbe cominciare a spendere, e tanto. Con la nuova leader, il Giappone potrebbe passare a un regime di grande spesa pubblica, grandi deficit e politica monetaria espansiva, aumentando enormemente il debito pubblico. L’obiettivo: fare in modo che la crescita economica superi la crescita del debito.
Siamo in un momento storico in cui le prime tre economie mondiali, con la quarta in coda, hanno avviato delle politiche di stimoli fiscali fondate su un massiccio aumento del debito pubblico.
La morale, pertanto, è una sola e molto semplice: se il pensiero principale è “spendere”, il metodo per realizzarlo è stampare moneta. La conseguenza necessaria è la svalutazione del denaro – o, in altre parole, l’inflazione. In scenari simili, gli strumenti di protezione principali, i cosiddetti debasement hedge, storicamente hanno rappresentato una via di uscita valida per la salvaguardia del capitale.
E quando si parla di debasement hedge, la mente corre immediatamente verso due asset: oro e Bitcoin. Tutto ciò vale ancora di più se ripensiamo alle recentissime dichiarazioni di Larry Fink, CEO di BlackRock, rilasciate durante un’intervista all’emittente CBS: “i mercati ti insegnano che devi sempre rimettere in discussione le tue convinzioni. Bitcoin e le criptovalute hanno un ruolo, proprio come l’oro: rappresentano un’alternativa”.
Cosa ci attenderà nel futuro prossimo? Se non sai come rispondere, non ti preoccupare, non lo sa nessuno. Però, per non perderti gli aggiornamenti, potresti iscriverti al nostro canale Telegram e a Young Platform, dato che ci occupiamo spesso e molto volentieri di queste tematiche.
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Pensione e pensionamento, due degli argomenti preferiti dagli italiani: qual è la situazione attuale? Il sistema è sostenibile?
La pensione e il pensionamento sono due temi su cui gli italiani adorano lamentarsi: “La pensione la vedremo con il binocolo!” o anche “di questo passo lavoreremo fino a 100 anni!” per esempio. Ma questi luoghi comuni hanno un fondo di verità? Il nostro sistema pensionistico è sostenibile? Vediamo cosa ci dicono i dati.
Pensione: chi la eroga e come? Cos’è il sistema pensionistico?
La pensione viene erogata dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), l’ente pubblico che gestisce la previdenza sociale e l’assistenza per i lavoratori – dipendenti e autonomi – e per i pensionati. Infatti, oltre alle pensioni, l’INPS si occupa delle indennità di disoccupazione, dell’assistenza sociale e di altre forme di sostegno al reddito.
Il sistema pensionistico, nello specifico, nasce più di un secolo fa con lo scopo di garantire un sostegno economico ai lavoratori al momento in cui questi terminano l’attività lavorativa, per cause legate all’età o per motivi di salute.
Il principio alla base di questo sistema è detto “principio della solidarietà intergenerazionale” e si fonda soprattutto sulla ripartizione: in parole semplici, ciò vuol dire che i contributi versati dai lavoratori di oggi servono a pagare le pensioni dei lavoratori di ieri, cioè gli attuali pensionati. Si crea, quindi, una sorta di legame finanziario che unisce le varie generazioni.
E qui dovrebbe già scattare il primo campanello di allarme: dato che il sistema si regge sull’equilibrio demografico tra chi lavora – e paga i contributi – e chi è in pensione, cosa succede se i secondi eguagliano o superano i primi? Lo vedremo a breve, perché è il nucleo di questo articolo.
I pilastri
La Banca Mondiale, nei primi anni duemila, ha pubblicato un articolo dal nome “The World Bank Pension Conceptual Framework” in cui suggeriva le linee guida per la creazione di un sistema pensionistico ottimale, fondato su sei criterie cinque pilastri.
I pilastri vanno dal pilastro zero al pilastro quattro e definiscono una struttura pensionistica che combina strumenti pubblici, privati e informali per garantire sicurezza economica, sostenibilità e protezione.
I criteri, detti anche di valutazione primaria, sono utilizzati per giudicare le progettazioni dei sistemi pensionistici: adeguatezza, accessibilità economica, sostenibilità, equità, prevedibilità e robustezza.
Secondo questa classificazione, il sistema italiano possiede il pilastro zero, il primo, il terzo e il quarto, mentre è assente il secondo.
Il pilastro zero corrisponde a una prestazione di base, che ha lo scopo di sostenere con un importo minimo chi si ritrova in una condizione di povertà in età avanzata, a prescindere dai contributi versati. In Italia, tutto ciò si concretizza nell’Assegno Sociale, che dal 1996 ha sostituito la vecchia pensione sociale. Il primo pilastro fa riferimento alla previdenza pubblica obbligatoria, cioè al sistema pensionistico pubblico gestito dall’INPS e responsabile dell’erogazione delle pensioni. Il terzo, invece, è relativo alla previdenza complementare o integrativa, ovvero alla possibilità di un individuo di versare in un conto personale – dunque in forma privata e volontaria – dei contributi che verranno poi investiti e riscattati dopo un certo periodo. Un po’ come costruirsi la pensione da soli. Il quarto pilastro, infine, spesso non rientra nemmeno nelle classificazioni perché viene considerato “informale” e include, ad esempio, il supporto familiare, l’assistenza sanitaria e i beni individuali.
Il secondopilastro, che non è presente, corrisponde a una versione obbligatoria della previdenza complementare, che abbiamo menzionato poco fa.
Pensione: quali sono i tipi e come vi si accede?
I tipi principali sono lapensione di vecchiaia, la pensione anticipata, la pensione di inabilità e la pensione ai superstiti. Esistono anche altre categorie di pensionamento, soprattutto anticipato, come Opzione Donna e Quota 103 che, spesso, sono soggette alla volontà politica: i governi in carica decidono di anno in anno – con la Legge di Bilancio – se riconfermare o revocare queste misure particolari.
In ogni caso, la pensione di vecchiaia è il tipo di pensione più comune e vi si accede, attualmente, una volta raggiunti i 67 anni di età e un’anzianità contributiva di almeno 20 anni – per anzianità contributiva si intende la somma degli anni di iscrizione ad un ente previdenziale obbligatorio come l’INPS. Questo requisito, tuttavia, non è fisso ma dovrebbe variare nel tempo in modo automatico, all’aumentare della speranza di vita. Perché il condizionale “dovrebbe”? Perché i governi in carica, spesso per fini di natura elettorale, mettono in campo iniziative finalizzate al blocco del procedimento.
La pensione anticipata, come suggerisce il nome stesso, consente di accedere alla pensione prima del tempo (indipendentemente dall’età), una volta soddisfatte determinate condizioni: nel 2025, la legge prevede il pensionamento anticipato col raggiungimento di 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.
Come abbiamo anticipato, ci sono poi le forme di pensionamento legate alle condizioni di salute, come la pensione di inabilità e l’assegno di invalidità, erogate nel caso in cui il contribuente non sia in grado di lavorare per il resto della sua vita.
Infine, la pensione ai superstiti è diretta ai familiari di lavoratori o pensionati deceduti e prende il nome di pensione indiretta nel primo caso e di pensione di reversibilità nel secondo.
Pensione: come si calcola?
Domanda delle domande: nell’arco della storia della Repubblica Italiana – ma in modo particolare negli ultimi trentacinque anni – sono state varate una serie infinita di riforme con l’obiettivo di preservare la sostenibilità del sistema pensionistico. Questo perché, nel tempo, abbiamo assistito al cambiamento di alcune variabili strutturali, in primo luogo l’aumento della speranza di vita e il rallentamento della crescita economica.
La prima ha implicazioni di natura temporale, nel senso che, banalmente, se le persone vivono di più, hanno bisogno della pensione per più tempo. La seconda ha ripercussioni sulla finanza pubblica: semplificando all’estremo, quando l’economia si contrae, gli stipendi seguono e, di conseguenza, le entrate contributive – cioè le tasse, che servono anche a pagare le pensioni – si riducono.
In ogni caso, le riforme più importanti della storia del sistema pensionistico italiano sono tre: la riforma Amato, la riforma Dini e la riforma Fornero. Queste tre meritano un breve approfondimento, dal momento che hanno condotto a cambiamenti radicali nelle modalità con cui, tuttora, viene calcolato l’importo della pensione: in una frase, le riforme di cui parleremo hanno sancito il passaggio dal sistema retributivo all’attuale sistema contributivo. Diamo al volo un po’ di contesto.
Il sistema retributivo si basava su una media calcolata prendendo a riferimento sia gli stipendi percepiti negli ultimi anni di carriera, spesso molto più alti delle retribuzioni all’ingresso nel mondo del lavoro, sia l’anzianità contributiva. Nel concreto, più erano alti salario e anzianità nell’ultima fase della vita lavorativa, più era alta la pensione: il tasso di sostituzione, cioè il rapporto tra l’ultima busta paga e la prima pensione, era molto elevato, spesso quasi 1 a 1. Il retributivo stato abolito con la Riforma Dini nel 1 gennaio 1996.
Il sistema contributivo, invece, si fonda esclusivamente sui contributi versati durante la carriera lavorativa, rivalutati di anno in anno in base a un tasso detto “di capitalizzazione”, stimato in base alla media quinquennale dell’andamento del PIL italiano. In pratica, è come se lo Stato “ringraziasse” i lavoratori per aver contribuito alla crescita economica del paese. Nel caso di recessione, questo tasso si azzera – non diventa mai negativo.
Inoltre, il totale dei contributi versati – detto montante contributivo – viene ricalcolato secondo il coefficiente di trasformazione, che varia in base all’età del lavoratore al momento dell’ingresso nel mondo dei pensionati: più questa è alta, più alto sarà il coefficiente. La logica è semplice e si basa sul fatto che più un lavoratore è anziano, meno anni di vita avrà a disposizione, più l’importo mensile dovrà essere alto. Il contributivo è entrato in vigore con la Riforma Dini il 1 gennaio 1996.
Infine c’è il sistema misto, che riguarda un numero di persone sempre minore. Questo meccanismo, infatti, vale per coloro che hanno vissuto una parte importante della propria vita lavorativa prima della Riforma Dini la quale, come abbiamo appena visto, è stata un momento spartiacque fra due sistemi radicalmente diversi.
Nel dettaglio, coloro i quali, prima del 31 dicembre 1995, avevano meno di 18 anni di versamenti dei contributi, ora come ora ricevono una pensione calcolata in parte col metodo retributivo, che riflette il periodo di contribuzione pre-Riforma Dini, e in parte col metodo contributivo, per il periodo lavorativo post-Riforma Dini. Discorso differente per chi, invece, al 31 dicembre 1995, aveva un’anzianità contributiva pari o superiore a 18 anni: in questo caso, il criterio retributivo si applicafino al 31 dicembre 2011 – prima dell’entrata in vigore della Riforma Fornero – mentre quello contributivo riguarda il periodo successivo a quella data.
Le riforme
La riforma Amato del 1992 rappresenta la prima grande modifica al vecchio impianto: già più di trent’anni fa, il governo italiano iniziava a rendersi conto dell’insostenibilità del sistema pensionistico e, dunque, della necessità di intervenire sulle modalità di calcolo, troppo onerose per la finanza pubblica.
Tra le principali correzioni, la riforma Amato ha innalzato l’età minima per il pensionamento, da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini; ha esteso la soglia minima degli anni di contribuzione previsti per accedere alla pensione di vecchiaia – diversa dalla pensione di anzianità – da 15 a 20; infine, ha aggiornato i criteri di rivalutazione automatica delle pensioni in erogazione, limitando l’aggiornamento dell’importo all’inflazione, escludendo dal calcolo la dinamica dei salari reali. Infatti, prima della riforma, all’aumento degli stipendi seguiva l’aumento delle pensioni.
In questo momento, tuttavia, è ancora in vigore il sistema retributivo, seppur con un lieve cambiamento: la media utilizzata per il calcolo della pensione, prendeva in esame gli ultimi dieci stipendi e non più gli ultimi cinque.
La riforma Dini del 1996 costituisce una tappa cruciale nella storia del sistema pensionistico italiano, una vera e propria rivoluzione copernicana: come abbiamo anticipato, la riforma segna il passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo, tuttora in vigore.
Questo cambio di paradigma non è retroattivo, nel senso che non riguarda tutti i lavoratori in assoluto, ma solamente coloro che sarebbero stati assunti dal 1 gennaio 1996, con l’entrata in vigore della riforma. Gli altri, che già godevano del retributivo, avrebbero mantenuto lo stesso regime previdenziale fino al 2011, con l’attuazione della riforma Fornero.
La riforma Fornero, infine, è quella di cui più o meno tutti ci ricordiamo a causa delle famose lacrime di Elsa Fornero, la ministra del governo Monti che, ai tempi, la promosse all’interno della manovra “Salva Italia”. Questo provvedimento, in effetti, fu abbastanza drastico e prese piede nel contesto della crisi economica del 2011, detta anche crisi del debito sovrano europeo, in cui l’Italia si trovò a un passo dal fallimento. La priorità, in quel momento storico, era ridurre la spesa pubblica per evitare il default finanziario.
Tra i cambiamenti principali introdotti vi è l’estensione del metodo contributivo per il calcolo delle pensioni. Prima di questa riforma – come abbiamo già spiegato nel dare la definizione di “sistema misto” e nel trattare la riforma Dini – era presente una differenza sostanziale nel calcolo della pensione tra chi aveva maturato meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 e chi, invece, ne aveva maturati18 o più: i primi avrebbero goduto del retributivo per i contributi versati fino all’introduzione della riforma Dini (1 gennaio 1996) e del contributivo per quelli maturati nel periodo successivo; i secondi, dall’altro lato, avrebbero continuato a ricevere una pensione calcolata interamente col retributivo.
La riforma Fornero mette tutti sullo stesso piano: con questo intervento normativo anche i secondi, per i contributi versati in seguito alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2012), sarebbero stati sottoposti al regime contributivo.
Un’altra novità risiede nell’aggiornamento graduale, ma netto, dei requisiti anagrafici, già proposta dal precedente governo Berlusconi. La modifica è motivata sia dalle necessità di rendere il sistema più sostenibile, sia da una sentenza della Corte di Giustizia Europea del 2008: l’Italia è stata condannata a causa della disparità, per i dipendenti pubblici, tra l’età di pensionamento degli uomini (65 anni) e delle donne (60 anni). Si decide, pertanto, di alzare la soglia anagrafica con l’obiettivo di arrivare a 66 anni e 7 mesi per tutti al 31 dicembre 2018. Dal 2019, sarebbe poi scattato l’incremento di 5 mesi: l’età pensionabile viene adeguata all’aspettativa di vita – stimata secondo i dati ISTAT.
Cambiano anche i parametri per l’accesso alla pensione di anzianità, adesso rinominata in pensione anticipata, che riflette anch’essa l’aspettativa di vita: si stabilisce che, fino al 31 dicembre 2018, uomini e donne avrebbero dovuto maturare, rispettivamente, 42 anni e 10 mesi e 41 anni e 10 mesi.
Ora che abbiamo un quadro praticamente completo della storia del sistema pensionistico italiano, vediamo cosa ci dicono i numeri dell’INPS in merito alla sua sostenibilità.
La pensione è un apostrofo rosa tra l’equilibrio demografico e la solidarietà intergenerazionale
L’abbiamo sottolineato all’inizio dell’articolo: i lavoratori di oggi versano i contributi all’INPS per pagare la pensione ai lavoratori di ieri i quali, ai loro tempi, pagavano le pensioni ai lavoratori dell’altro ieri. Dunque, affinché la solidarietà intergenerazionale funzioni, è necessaria una situazione demografica solida, che consenta il mantenimento di queste dinamiche.
Abbiamo quindi analizzato il documento “Audizione dell’INPS sugli effetti della transizione demografica” di aprile 2025, in cui l’INPS descrive il contesto italiano attuale fra demografia, mercato del lavoro, assicurati INPS e spesa pensionistica.
Qual è il quadro demografico italiano?
La prima parte, dedicata al quadro demografico, comincia con una frase non proprio incoraggiante: “le più recenti previsioni demografiche relative al futuro del Paese, aggiornate al 2023, confermano la presenza di un quadro potenzialmente critico”. Le criticità, si legge, sarebbero frutto dell’azione di due processi che agiscono in senso opposto, ovvero la “significativa riduzione della popolazione residente” e il “marcato processo di invecchiamento”.
Secondo l’INPS nei prossimi 40 anni la popolazione italiana è destinata a perdere circa 15 milioni di persone: da 59 milioni al gennaio 2023, a 58,6 milioni nel 2030, a 54,8 milioni nel 2050 fino ad arrivare a 46,1 milioni nel 2080 – ne avevamo già parlato in occasione del Rapporto ISTAT 2025.
La causa principale di questo trend è da ricercare nel saldo naturale negativo, cioè nel fatto che, ogni anno, nascono meno persone di quante ne muoiano. Naturalmente non si tratta di un fenomeno nuovo: già nella prima metà degli anni Novanta, l’Italia è stato il primo paese al mondo in cui il numero dei residenti under 15 è sceso sotto quello degli over 65 – ricordiamo che nel 1996 entra in vigore la riforma Dini. Adesso, però, il quadro è ancora più grave, dal momento che la fascia di popolazione che ha più di 65 anni sta superando gli under 25 e, nei prossimi 15 anni, sorpasserà anche gli under 35.
Il problema principale è che il saldo naturale rimarrebbe negativo sia nello scenario più favorevole che in quello mediano, cioè il più probabile: al calo deltasso di natalità, che nel 2024 si attesta a 1,18 figli per donna (il dato più basso dal 1995), si aggiunge anche la mancanza fisica di potenziali genitori. Quindi, se per assurdo in futuro dovesse verificarsi un’inversione del trend con un boom di nuove nascite, avremmo comunque un problema legato al numero ridotto di persone che possono avere figli.
Detto in un modo più complesso, queste statistiche descrivono un orizzonte in cui il rapporto fra individui in età lavorativa (fascia d’età 15-64 anni) e non (0-14 anni e 65 anni in su) è destinato a scendere: se, ora come ora, ogni tre lavoratori esistono due soggetti non attivi, nel 2050 la relazione sarà vicina a uno a uno, con la fascia più anziana a rappresentare il 34,5% circa – e la fascia “giovane” 0-14 che costituirà più o meno l’11,2%.
Un altro dato, più interessante ai fini dell’articolo, riguarda il cosiddetto indice di dipendenza degli anziani, vale a dire il rapporto fra la popolazione in età lavorativa e gli over 65: si prevede che il valore di questo indice passerà dal 40,8% del 2022 al 63,4% del 2050. Molto semplicemente, ciò significa che se, attualmente, in Italia ci sono 4 anziani ogni 10 lavoratori, fra 45 anni la proporzione salirà a circa 6 – precisamente 6,3 – ogni 10.
Anche in questo caso, l’origine del fenomeno è attribuibile all’effetto di due dinamiche contrarie. Intervengono, infatti, sia l’invecchiamento della popolazione italiana, sia la riduzione assoluta di persone in età lavorativa, conseguentemente al calo del tasso di natalità.
Buone notizie dal mercato del lavoro, o forse no
Dovrebbe essere chiaro ormai: più persone lavorano, più contributi vengono versati, più il sistema è sostenibile. Nell’ultimo biennio, grazie anche all’introduzione di ingenti pacchetti di aiuto come il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), l’occupazione ha raggiunto i livelli più alti dal 2004.
Nel 2024, infatti, gli assicurati INPS, cioè tutti i lavoratori – dipendenti e autonomi – obbligati a versare i contributi, hanno superato i 27 milioni, con un aumento di 400.000 unità rispetto al 2023 e di 1,5 milioni rispetto al 2019. La crescita maggiore si è verificata fra gli under 35 e gli over 54, mentre si registra una contrazione del 4% nella fascia di età compresa fra queste due (35-54 anni).
È interessante entrare nel dettaglio relativamente ai dati sulla crescita occupazionale, dal momento che sussiste uno squilibrio netto relativo tra i nuovi occupati under 35 e quelli over 54. Prendendo come riferimento il 2019 (periodo pre-Covid), a fronte dell’incremento del 6% che abbiamo menzionato prima (cioè +1,5 milioni), i lavoratori fino a 34 anni sono aumentati dell’11,2%. Gli over 54 invece, che l’ISTAT suddivide fascia 55-64 e 64+, sono aumentati, rispettivamente, del 20% e del 30,6%.
Spiegato coi numeri e non con le percentuali, questo significa che gli occupati under 34, che nel 2019 erano circa 6,4 milioni, oggi sono 7,1 milioni (+700.000 unità), mentre gli occupati nella fascia 55-64 e 64+, che nel 2019 erano 4,96 milioni e 1,03 milioni, oggi sono quasi 6 milioni e 1,3 milioni (+1 milione e +300.000 unità).
Cosa possiamo dedurre? Molto semplicemente che, in Italia, è in atto una dinamica potenzialmente critica coerente coi ragionamenti precedenti sul quadro demografico: la fascia 35-54, che rappresenta il cuore produttivo del paese, si sta svuotando senza che ci sia un passaggio di testimone graduale coi giovani under 34. Al contrario, come dimostrato dai dati, si sta verificando una “rinascita” della fascia over 55, più anziana e dunque meno produttiva, ma soprattutto prossima alla pensione.
Allo stato attuale delle cose, i lavoratori 55-64 e 64+ sono in maggioranza rispetto ai lavoratori under 34: 7,3 milioni contro 7,1 milioni.
La pensione in numeri: costo e proiezioni
Una volta chiariti la struttura del sistema pensionistico italiano e il quadro demografico, è ora di passare alle domande scomode: quanti sono i pensionati? Quanto ci costano le pensioni? Quali sono le proiezioni per il futuro? E, soprattutto: tutta questa gigantesca infrastruttura è sostenibile sul lungo periodo?
Per rispondere, abbiamo snocciolato il “XXIV Rapporto Annuale”dell’INPS, pubblicato nel luglio 2025, e il “Rapporto n.26” della Ragioneria Generale dello Stato, che ha il seguente titolo: “Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario” di aprile 2025. Diamo un’occhiata.
Quanto pesa la pensione?
Il sistema pensionistico, nel 2024, detiene il titolo di “principale voce di spesa del welfare nazionale”. Per dare un termine di paragone, il welfare include altre importanti aree di spesa come lasanità e l’istruzione. Queste, infatti, hanno un peso in rapporto al Prodotto Interno Lordo (PIL) che si attesta, rispettivamente, intornoal 6,3% e al 4%. La spesa per le pensioni, da sola, ha raggiunto il 15,4% del PIL.
In numeri, questo dato corrisponde a circa 355 miliardi di euro lordi, che è il totale erogato dall’INPS per il 2024. Nello specifico, l’Istituto Nazione della Previdenza Sociale ha versato le pensioni a circa 15,7 milioni di italiani – il 96% dei pensionati in Italia – per una cifra lorda media di 1.884 euro al mese. Il restante 4%, equivalente a più o meno 600.000 italiani, ha invece percepito rendite da altre entità come l’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) o Fondi pensione minori.
Infine, sempre nel 2024, l’INPS ha distribuito quasi 1,6 milioni di nuove pensioni, un dato in crescita del 4,5% rispetto all’anno scorso. Di queste, circa 862.000 (il 55%) sono di natura previdenziale – legate al termine della vita lavorativa – e 707.000 (il 45%) di tipo assistenziale, divise in prestazioni agli invalidi civili, assegni sociali. Gli importi medi mensili, nell’ordine, corrispondono a 1.302€ e 493€.
Come si finanzia il sistema?
L’INPS, come abbiamo appena visto, ci dice che nel 2024 il costo totale per le pensioni ammonta a circa 355 miliardi di euro lordi pari al 15,4% del PIL. Ma da dove arrivano questi soldi?
Sul Rapporto Annuale si legge chiaramente che le entrate contributive per il 2024, ovvero i contributi versati da lavoratori e aziende, corrispondono a 284 miliardi di euro. Il dato è superiore del 2,6% alle attese, che stimavano ingressi per 276 miliardi di euro, e del 5,5% all’importo registrato l’anno scorso, pari a 269 miliardi di euro.
Questa espansione – chi ha letto attentamente dovrebbe aver già capito – è legata in gran parte al miglioramento del quadro occupazionale e alla crescita degli stipendi: come abbiamo spiegato finora, il numero di persone occupate è direttamente proporzionale alla quantità di contributi pagati all’INPS il quale dipende da questi per liquidare le pensioni in modo sostenibile. Cosa si intende per “sostenibile”?
La sostenibilità di un sistema coincide con la sua capacità di mantenersi autonomamente, senza dipendere da risorse esterne. Quindi, ora come ora, l’INPS è sostenibile?No. Perché? È presto detto.
Se, infatti, le entrate per il 2024 ammontano a 284 miliardi di euro, le uscite per le sole prestazioni pensionistiche, per lo stesso periodo, equivalgono a 320,6 miliardi di euro. Secondo quanto scritto nel Rapporto Annuale, l’INPS ci dice che questa spesa pensionistica è in linea col “trend strutturale di aumento annuale per effetto combinato della composizione demografica della popolazione e di aumento degli importi medi delle pensioni anche per l’effetto della perequazione”.
La tendenza di cui si parla, quindi, avrebbe le sue radici sia nel consolidato ampliamento della popolazione anziana a cui, per una banale questione quantitativa, devono essere destinate sempre più pensioni, sia al rialzo degli importi medi “anche per effetto della perequazione”.
Per “perequazione”, in due parole, si intende il meccanismo di adattamento automatico con cui le pensioni vengono rivalutate ogni anno in base all’inflazione. Un fatto curioso? In Italia, questa dinamica non è prevista per gli stipendi: se il reddito non subisce modifiche al rialzo mentre l’inflazione sale ma il fisco preleva la stessa quota, di fatto, si riduce il potere d’acquisto dei lavoratori – questo fenomeno, in gergo, è dettofiscal drag o drenaggio fiscale.
In ogni caso, il bilancio netto tra entrate e uscite, come è facilmente intuibile, è negativo di ben 36,6 miliardi di euro. Questa cifra viene coperta attraverso i trasferimenti correnti dallo Stato, definibili come somme di denaro erogate senza obbligo di controprestazione – cioè senza che sia restituito qualcosa in cambio. I trasferimenti correnti servono a coprire, appunto, le spese correnti, legate quindi al funzionamento ordinario e alla gestione quotidiana della macchina statale. Non finanziano, invece,l’acquisto di beni durevoli o gliinvestimenti. Per cui, per riassumere quanto detto sopra, i contributi dei lavoratori finanziano la spesa pensionistica per l’87,5% circa, ma il break even – il punto di equilibrio fra entrate e uscite – è raggiunto solamente grazie all’importante intervento dello Stato.
La pensione nel futuro: proiezioni
Dunque, abbiamo capito che, nel 2024, la spesa pensionistica pesa sul PIL per il 15,4%. La Ragioneria dello Stato, nel suo Rapporto n.26, presenta una serie di proiezioni che descrivono l’evoluzione del quadro finanziario da qui al 2070.
Nel 2040, si legge, “il rapporto tra spesa per pensioni e PIL accelera fino a raggiungere il valore del 17,1%”. In questo scenario, avremmo 9 pensioni ogni 10 lavoratori (rapporto pensioni/occupati all’88,5%) e una spesa pensionistica superiore ai 350 miliardi di euro. Il motivo di questa salita sarebbe legato principalmente “all’aumento del numero di pensioni rispetto a quello degli occupati, indotto dalla transizione demografica collegata all’ingresso in quiescenza delle generazioni del baby boom”, cioè al pensionamento dei lavoratori nati fra gli anni ‘50 e gli anni 60’, che attualmente hanno fra i 60 e i 70 anni.
Dopo il 2040, questo rapporto dovrebbe scendere progressivamente, arrivando al 15,9% nel 2050 e al 14% nel 2070. La riduzione, spiega la Ragioneria di Stato, sarebbe legata sia all’applicazione generalizzata del sistema contributivo, essendo tuttora presente una fetta importante di pensioni calcolate col metodo retributivo, sia alla stabilizzazione prima e all’inversione di tendenza poi, della proporzione pensione/occupati.
Tutto ciò a causa, principalmente, dell’uscita delle generazioni del baby boom e dell’adeguamento automatico dei criteri minimi di pensionamento in funzione della speranza di vita.
La sostenibilità dipende dai meccanismi endogeni di adeguamento
I Direttori centrali dell’INPS, nell’audizione di aprile 2025 in Commissione parlamentare, hanno dichiarato che “è possibile concludere che il sistema pensionistico va comunque monitorato nei prossimi trent’anni”.
La sostenibilità a lungo termine della macchina pubblica delle pensioni, come sottolineato nel Rapporto n.26, cammina sul filo del rasoio poiché si basa quasi esclusivamente sui “meccanismi endogeni di adeguamento”, introdotti con le riforme passate.
Tra i meccanismi principali, figurano la revisione periodica dei coefficienti di trasformazione – definiti nel paragrafo sul sistema contributivo – in base al cambiamento del quadro demografico ed economico, l’uso sistematico del calcolo basato sul metodo contributivo e, soprattutto, l’aggiornamento automatico dei requisiti di pensionamento all’aumento della speranza di vita.
La rimozionepermanente di questi meccanismi endogeni di adeguamento, ribadisce a gran voce la Ragioneria di Stato, “comporterebbe un incremento del rapporto debito/PIL di circa 20 punti percentuali al 2045 e di circa 60 punti percentuali al 2070”.
Detto in un altro modo, questo vuol dire che, qualora queste tutele venissero eliminate, le conseguenze finanziarie sarebbero devastanti: il debito pubblico aumenterebbe del 20% in relazione al PIL nel 2045 e del 60% nel 2070. Anche la sola soppressione dell’adeguamento dei limiti di età basato sulla speranza di vita, provocherebbe un incremento del 15% sul rapporto debito/PIL al 2045 e del 30% al 2070. A proposito, nel 2027 dovrebbe scattare proprio l’innalzamento automatico di tre mesi dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva necessarie per accedere alla pensione: il governo Meloni, tramite il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, ha promesso di bloccarne l’aggiornamento automatico.
Conosciamo il problema: quali potrebbero essere le soluzioni?
Abbiamo visto i numeri: il sistema pensionistico nazionale si trova oggi ad affrontare sfide strutturali profonde che ne minacciano la sostenibilità nel medio/lungo periodo.
L’invecchiamento della popolazione, la contrazione del rapporto tra lavoratori attivi e pensionati e l’instabilità economico-politica rendono sempre più incerta la capacità del sistema pubblico di garantire prestazioni adeguate alle future generazioni.
Alla luce di questi dati e a questo crescente clima di sfiducia verso gli enti preposti alla gestione del sistema pensionistico, un numero sempre maggiore di persone ha iniziato a chiedersi quali potrebbero essere le soluzioni alternative al sistema pensionistico italiano.
Sebbene la domanda offra un ampio ventaglio di possibili risposte, il punto di partenza resta indiscutibilmente uno: la consapevolezza e la pianificazione finanziaria attiva da parte di ogni singolo individuo.
In un contesto storico in cui lo Stato fatica sempre più ad assolvere al proprio ruolo di tutela previdenziale, diventa inevitabile che sia il singolo a farsi carico in prima persona della costruzione del proprio futuro finanziario. Vediamo dunque quali azioni concrete potremmo intraprendere per cercare di garantirci un futuro finanziario più stabile e sereno.
La teoria del ciclo di vita del risparmio di Modigliani
Dopo aver compreso come l’attuale contesto economico e demografico imponga ai cittadini di iniziare fin da subito a costruire un fondo di previdenza individuale, indipendente dal sistema pensionistico pubblico, il passo successivo consiste nel capire come distribuire le risorse nel tempo per raggiungere questo obiettivo.
A fornire una risposta pratica ed efficace è la “teoria del ciclo di vita del risparmio”, elaborata dall’economista e premio Nobel Franco Modigliani.
Secondo questa teoria, gli individui dovrebbero pianificare consumo e risparmio lungo tutto l’arco della vita, con l’obiettivo di mantenere un tenore di vita stabile, indipendentemente dalle variazioni del reddito.
Per raggiungere questo obiettivo, la teoria individua due fasi principali nella gestione delle risorse:
Fase di accumulo: durante gli anni lavorativi, quando il reddito è generalmente più elevato, le persone dovrebbero risparmiare e accumulare capitale. Questo processo consente di costruire un patrimonio che sarà essenziale per sostenere il tenore di vita nella vecchiaia.
Fase di decumulo: coincide con il ritiro dal lavoro, periodo in cui il reddito da pensione sostituisce solo in parte quello da lavoro. In questa fase, l’individuo attinge ai risparmi accumulati, utilizzandoli in modo strategico per mantenere costante il livello dei consumi e garantire stabilità economica, in linea con l’obiettivo della teoria.
Seguendo tali indicazioni, l’individuo potrebbe così facilmente creare una strategia finanziaria sostenibile e autonoma, che riduce la dipendenza dal sistema previdenziale pubblico e permette di affrontare le diverse fasi della vita di una persona con maggiore sicurezza economica e stabilità.
La gestione del patrimonio risparmiato
Ora che abbiamo compreso l’importanza del risparmio come risposta alla possibile insufficienza — parziale o totale — del sistema pensionistico pubblico, e abbiamo visto come costruire un fondo di previdenza individuale, non ci rimane solo che capire come gestire al meglio questo patrimonio per garantire sicurezza e stabilità a tale patrimonio nel lungo periodo.
A questo punto, è naturale che qualcuno si chieda: “Se ho già creato un fondo di riserva, non basta semplicemente lasciarlo fermo finché non mi servirà in futuro?”
Purtroppo la risposta è no, o quantomeno non del tutto. Lasciare il denaro inattivo non rappresenta infatti la soluzione più efficiente. Scopriamo insieme perché.
Il nostro nemico n 1: l’inflazione.
Nonostante il valore nominale del denaro accantonato rimanga indiscutibilmente invariato nel tempo, il suo valore reale tende a ridursi progressivamente a causa dell’inflazione. Quest’ultima agisce come una sorta di tassa “invisibile”, erodendo anno dopo anno il potere d’acquisto dei nostri risparmi.In condizioni economiche stabili le banche centrali si sono date l’obiettivo di mantenere tale valore intorno al 2%, ma in particolari fasi di mercato tale numero può crescere ben oltre — come accaduto in Italia tra il 2022 e il 2023, quando ha superato il 10%.
Un’inflazione al 10% riduce il potere d’acquisto del denaro di pari misura nell’arco di un anno. Questo significa che, per acquistare gli stessi beni che oggi costano 1.000 euro, l’anno prossimo ne serviranno 1.100.
Di conseguenza, il fenomeno erode progressivamente il valore reale del capitale: ciò che oggi è sufficiente a coprire determinate spese, in futuro non lo sarà più.
Per questo motivo è fondamentale proteggere i propri risparmi dall’inflazione, adottando strategie di investimento che possano contribuire a preservare il valore reale nel tempo.
Gli investimenti come strumento di protezione
Per difendere i risparmi dall’erosione del potere d’acquisto, gli investimenti rappresentano uno degli strumenti storicamente più efficaci. Agendo come un vero e proprio “scudo” contro l’inflazione, nel lungo termine potrebbero consentire al capitale di preservare il proprio valore reale e, in certi casi, anche di accrescerlo.
Le forme di investimento possono assumere una moltitudine di forme molto diverse tra loro, ma le principali si riconducono a strumenti finanziari come azioni, obbligazioni, immobili, fondi indicizzati o beni fisici come materie prime, opere d’arte e collezionabili.
La scelta di tali strumenti dipende da vari fattori, tra cui l’orizzonte temporale, il profilo di rischio e gli obiettivi finanziari di ciascun individuo.
Per semplificare questo processo, negli ultimi decenni si sono diffusi sempre di più i fondi pensionistici individuali preimpostati, progettati per facilitare la pianificazione del risparmio a lungo termine.
Questi strumenti offrono un mix di soluzioni finanziarie per costruire un portafoglio diversificato, e tra tutti il più famoso rimane senza dubbio il 401(k) statunitense.
I piani pensionistici: 401(k) statunitense
Introdotto negli Stati Uniti nel 1978, il 401(k) è un piano pensionistico a contribuzione definita offerto dal datore di lavoro ai propri dipendenti. In pratica, il lavoratore può destinare una parte del proprio stipendio lordo a questo fondo, che viene poi investito in strumenti finanziari come fondi comuni di investimento, ETF, obbligazioni o azioni, a seconda delle preferenze individuali o delle opzioni messe a disposizione dal datore di lavoro.
Nel corso degli anni, il 401(k) è diventato un pilastro del sistema pensionistico americano, promuovendo una cultura di responsabilità individuale e di pianificazione finanziaria a lungo termine, dimostrandosi per molti risparmiatori uno strumento efficace nel favorire la costruzione di una sicurezza economica personale indipendente dal sistema pensionistico nazionale.Visti i risultati positivi degli ultimi anni e il crescente dubbio da parte dei cittadini americani sulla sostenibilità del sistema pensionistico — proprio come accade in Italia — sempre più persone hanno deciso di destinare una parte del proprio stipendio a fondi pensione privati, come il 401(k), arrivando così circa a 10 miliardi di fondi gestiti.
Alla luce di questi dati risulta interessante osservare come, negli ultimi mesi , questo piano pensionistico abbia introdotto , tramite un emendamento firmato dal presidente degli Stati Uniti in carica Donald Trump, la possibilità di aggiungere una nuova asset class a quelle storicamente presenti all’interno del fondo: le criptovalute, e più in particolare Bitcoin.
Bitcoin: un nuovo possibile alleato per proteggersi dal problema pensionistico
Grazie alla sua offerta limitata a 21 milioni di unità, alla facilità di trasferimento e all’accessibilità globale, Bitcoin viene considerato da alcuni operatori come un asset estremamente interessante in ottica previdenziale.
Oltre a queste caratteristiche uniche, Bitcoin offre un ulteriore punto di potenziale rilevanza nella costruzione di un piano pensionistico: la diversificazione.
Grazie alla sua natura di assetche può risultare decorrelato dai mercati finanziari tradizionali, Bitcoin — come ha già dimostrato in passato — potrebbe, in alcune fasi di mercato, fungere da salvagente in caso di forti scossoni del mercato. In questo modo, agirebbe da possibile contrappeso equilibratore all’interno del portafoglio d’investimento.
Integrando gli strumenti tradizionali con questa nuova classe di investimento digitale, alcuni investitori valutano l’ipotesi di perseguire una maggiore sicurezza finanziaria nel tempo, combinando stabilità e innovazione all’interno dello stesso portafoglio.
In un mondo in rapida trasformazione, anche il concetto di previdenza sociale deve evolversi e Bitcoin potrebbe rappresentare, per alcuni soggetti, uno degli strumenti più promettenti per affrontare questa evoluzione.
Le informazioni sopra riportate hanno finalità esclusivamente informative e divulgative. Non costituiscono in alcun modo consulenza finanziaria, sollecitazione all’investimento o raccomandazione personalizzata ai sensi della normativa vigente. Prima di assumere qualsiasi decisione d’investimento o allocazione patrimoniale, è raccomandabile rivolgersi a un consulente abilitato.
Weekend di terrore: la paura di una nuova guerra commerciale tra USA e Cina porta a più di 19 miliardi di dollari liquidati solo nel mercato crypto. L’analisi
È stato un fine settimana particolarmente pesante quello del 10, 11 e 12 ottobre: gli Stati Uniti hanno minacciato dazi fino al 100% sull’import cinese a partire dal 1 novembre. Naturalmente, una notizia del genere ha generato il panico fra gli investitori di tutto il mondo e i principali mercati finanziari, tradizionali e non, hanno subito forti perdite. In particolare, il mondo delle crypto ha assistito alla liquidazione più ingente della sua storia: 19,16 miliardi di dollari. Cosa ha provocato questo shock? Qui l’analisi
La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina
La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, si sa, va avanti da tempo immemore: le due economie commerciali più potenti del mondo si scontrano su questo tema da anni, intervallando dichiarazioni ostili ad “armistizi” ragionati. Tuttavia, negli ultimi mesi, la trattativa ha toccato toni a dir poco aspri.
In particolare, dal quel fatidico 2 aprile, conosciuto anche come Liberation Day, le due parti in causa hanno intensificato lo scontro, tra tariffe reciproche altissime – fino al 145% – e tregue con date di scadenza via via rimandate. Nell’ultimo periodo, però, la situazione sembrava tendere verso la normalità, con Stati Uniti e Cina che, in apparenza, davano l’impressione di voler proseguire la trattativa con uno spirito più collaborativo. Ma Pechino, durante la seconda settimana di ottobre, ha riacceso le tensioni.
La causa scatenante
La Repubblica Popolare, giovedì 10 ottobre, ha dichiarato l’intenzione di imporre una stretta all’esportazione delle terre rare, di cui detiene praticamente il monopolio a livello mondiale: secondo il CSIS (Center for Strategic and International Studies), la Cina controlla il 60% della produzione e il 90% della lavorazionedi questi minerali, estremamente strategici in quanto fondamentali per il settore tecnologico (intelligenza artificiale in primis), energetico e della difesa.
Per essere più precisi, il punto di rottura è attribuibile alla decisione del governo di Pechino di concedere le licenze su determinati tipi di chip “caso per caso”. Cosa significa? Per capirlo, occorre fare un – breve – passo indietro e avere chiare le dinamiche relative all’export dei materiali a base di terre rare.
Come abbiamo scritto poche righe fa, questi beni sono preziosi poiché sono componenti insostituibili per la realizzazione di chip e semiconduttori, elementi alla base dello sviluppo tecnologico ed energetico di una nazione. Sono, pertanto, merci soggette a restrizioni in quanto strettamente legate alla sicurezza nazionale: privandosene, la Cina di fatto permetterebbe ai suoi rivali, Stati Uniti in testa, di acquisire vantaggio competitivo in questi settori nei suoi confronti.
Con queste limitazioni, che in teoria dovrebbero entrare in vigore dal 1° dicembre, il Celeste Impero intendetrasformare una risorsa naturale in strumento geopolitico. In questo modo, il Ministero del Commercio cinese (MOFCOM) potrà decidere, di volta in volta, se rilasciare o meno le licenze di esportazione, in base a una serie di fattori discrezionali tra cui: chi è l’azienda o l’ente che riceve i materiali? A quale scopo? L’esportazione rappresenta un potenziale rischio per la sicurezza nazionale cinese? E così via.
La reazione degli Stati Uniti: la goccia che ha fatto traboccare il vaso
Alla notizia, Donald Trump non ha perso tempo e ha subito pubblicato un lungo e infuocato post su Truth in cui afferma, sostanzialmente, di non gradire questo comportamento. Il testo, infine, termina con laminaccia neanche troppo velata di ritorsioni altrettanto dure da parte degli Stati Uniti. E così è stato.
Il giorno successivo, venerdì 10 ottobre, il Presidente degli Stati Uniti scrive sul suo social Truth che “gli Stati Uniti d’America imporranno un dazio del 100% sulle importazioni dalla Cina, in aggiunta ai dazi già in vigore” e che “dal 1° novembre imporremo controlli alle esportazioni su qualsiasi software critico, senza eccezioni”.
Per completezza informativa precisiamo che, al momento della scrittura, Trump ha dimostrato la volontà di riappacificarsi col Supremo Leader cinese Xi Jinping. Quest’ultimo, scrive il POTUS, “stava solo attraversando unmomento difficile”, aggiungendo poi: “non preoccupatevi della Cina, andrà tutto bene” perché gli “Stati Uniti vogliono aiutare la Cina, non danneggiarla”.
Ora che abbiamo ben chiaro il contesto di partenza, è ora di andare a dare un’occhiata ai numeri e ai grafici, per cercare di avere un’idea di cosa possa essere accaduto: come siamo arrivati dalle tariffe ai 19,16 miliardi di dollari liquidati? Vediamolo insieme.
Come hanno reagito i mercati?
La risposta al quesito presente nel titolo di questo sottocapitolo la forniremo nella parte finale dell’articolo, analizzando le ripercussioni pratiche di questo “flash crash” e il recupero dei vari crypto asset nella giornata di oggi, lunedì 13 ottobre.
Prima di fare ciò, analizziamo nello specifico l’andamento del mercato tradizionale e dei principali crypto asset durante questo flash crash.
Reazione del mercato tradizionale (S&P 500)
L’influenza degli attriti tra Stati Uniti e Cina sul mercato tradizionale è risultata marginale, principalmente per ragioni temporali.
Il mercato ha infatti intercettato solo l’annuncio iniziale: la notifica da parte della Cina di restrizioni sulle esportazioni di terre rare, interpretata come una potenziale ripresa delle ostilità commerciali con gli USA. Tale dichiarazione ha generato una reazione negativa immediata, causando un calo di poco inferiore al 3% rispetto alle quotazioni precedenti.
La fortuna (o forse no) ha voluto che il mercato tradizionale chiudesse i battenti proprio pochi istanti prima dell’annuncio di Trump sull’aumento dei dazi al 100% verso la Cina. Questo ha di fatto eliminato la seconda, e più violenta, gamba ribassista che, come vedremo nella sezione sulle criptovalute, ha colpito duramente gli asset digitali.
Reazione del mercato delle criptovalute (BTC)
Il crescente ottimismo di inizio ottobre, unito alla chiusura del mercato tradizionale che ha concentrato l’attenzione e la liquidità sui digital asset, ha creato il contesto ideale per una violenta correzione. L’eccesso di posizioni in leva aperte negli ultimi giorni è stato l’elemento catalizzatore che ha innescato uno dei più significativi flash crash nella storia del mercato crypto.
L’entità di tale correzione è stata misurata in termini di liquidazioni. Nella sola giornata di venerdì, come abbiamo anticipato, l’ammontare delle posizioni liquidate è stato stimato intorno ai 19 miliardi di dollari.
Per quanto riguarda Bitcoin (BTC), il crollo si è manifestato in due fasi distinte, seguendo l’escalation geopolitica:
Primo Impatto (Cina): Al momento dell’annuncio delle restrizioni sulle terre rare da parte della Cina, BTC ha subito una perdita iniziale di circa il 5%, scendendo momentaneamente a quota $116.000.
Secondo Impatto (Trump): Nella fase più acuta dello scontro, Bitcoin ha ceduto un ulteriore 11% in seguito all’annuncio dei dazi del 100% da parte di Trump, toccando il minimo di $103.084.
Questo crash ha comportato una perdita complessiva per Bitcoin superiore al 15%, amplificata principalmente dalle massicce liquidazioni registrate sugli exchange come Hyperliquid e Binance.
Reazione del mercato delle criptovalute (ETH)
Spostandoci su Ethereum (ETH), osserviamo che, come spesso accade durante momenti di estrema volatilità, la sua dinamica haseguito quella di Bitcoin, ma con una leva leggermente superiore in termini percentuali.
Anche per ETH, il crash si è sviluppato in due distinte fasi ribassiste, che hanno registrato rispettivamente:
Primo impatto (Cina): Un calo di circa il 7%, portando ETH ad interagire col supporto a quota 4000
Secondo impatto (Trump): L’ulteriore escalation dello scontro ha causato la rottura decisiva del supporto a $4.000, innescando un’ulteriore discesa del 15% che ha spinto il prezzo fino al minimo di $3.439.
Con una perdita complessiva superiore al 21%, Ethereum ha dimostrato una sensibilità maggiore durante il flash crash, riflettendo la sua caratteristica di asset con una volatilità intrinseca più elevata rispetto a Bitcoin.
Il rimbalzo del mercato (V-shape recovery)
Nonostante il colossale numero di liquidazioni e le performance negative registrate venerdì, il mercato ha mostrato una rapida e vigorosa ripresa già pochi minuti dopo la conclusione dell’ondata di liquidazioni, confermando un classico “rimbalzo a V”.
Bitcoin (BTC): Dopo aver toccato il minimo a $103.084, BTC è stato scambiato nelle ore successive a un prezzo di circa $115.019, realizzando un recupero superiore all’11% nell’arco di poche ore.
Ethereum (ETH): Dopo aver perso oltre il 21% nel flash crash, ETH è tornato a essere negoziato nuovamente sopra la soglia psicologica dei $4.000. Più nello specifico, il prezzo ha raggiunto $4.157, segnando un recupero di circa il 20% rispetto ai minimi di venerdì.
Questi rapidi e significativi recuperi ci confermano che, sebbene il mercato delle criptovalute stia attraversando un processo di crescente istituzionalizzazione, la sua natura di mercato libero da alcune regolamentazioni e caratterizzato da un altissimo livello di leva finanziaria lo rende ancora estremamente vulnerabile a grandi movimenti e potenziali manipolazioni di mercato.
Per concludere, una riflessione: come dimostrato dal rimbalzo eccezionale delle ultime ore, tali shock non sembrano alterare i solidi fondamentali a lungo termine di questo settore, che continua a mostrare una notevole resilienza strutturale.
Questo discorso, poi, vale in particolar modo per Bitcoin. Per capirne il motivo, basta confrontare questo evento con l’ultimo shock degno di nota, il Covid Crash: il 12 marzo 2020, Bitcoin è crollato del 40% in un solo giorno. L’analisi a freddo è terminata, speriamo di aver risolto i dubbi relativi alle cause e alle modalità che hanno caratterizzato un avvenimento del genere. Per altre informazioni simili e, in generale, per non perderti le notizie più rilevanti, iscriviti al nostro canale Telegram e/o a Young Platform, cliccando qua sotto.
Mercosur e Unione Europea sono sempre più vicini a stipulare un partenariato strategico dopo 25 anni di trattative. Cosa significa tutto ciò?
Mercosur e Unione Europea potrebbero essere a un passo dal firmare un accordo commerciale definito dalla stessa Commissione europea come “la maggiore intesa di libero commercio mai siglata”. L’accordo UE-Mercosur, infatti, coinvolge paesi che rappresentano circa 20 trilioni di dollari di PIL e 700 milioni di consumatori. Di cosa si tratta?
Mercosur: cos’é?
Il Mercosur – Mercado Común del Sur – è un’organizzazione istituita nel 1991 col Trattato di Asunciòn, che ha lo scopo di “promuovere uno spazio comune che generi opportunità di business e investimento attraverso l’integrazione competitiva delle economie nazionali nel mercato internazionale”. I membri a pieno titolo sono ilBrasile, l’Argentina, il Paraguay, l’Uruguay e il Venezuela – quest’ultimo sospeso nel 2016 per pratiche antidemocratiche – mentre la Bolivia è in fase di adesione come quinto membro a pieno titolo. Ci sono poi i membri associati, privilegiati ma esterni al blocco, come il Cile, la Colombia, l’Ecuador e il Perù.
Il Mercosur è quindi un mercato comune che ha l’obiettivo di aumentare gli scambicommerciali di beni e servizi e il libero movimento delle persone sia a livello regionale, cioè fra i vari paesi del Sud America, sia a livello internazionale, attraverso accordi con altri blocchi – come quello con l’Unione Europea. Affinché ciò si realizzi, col Mercosur i paesi membri lavorano per ridurre reciprocamente le barriere doganali favorendo, in questo modo, l’integrazione economica.
Per dare un paio di dati al volo, il blocco del Mercosur, nel 2023, ha generato un volume di 447 miliardi di dollari per l’export e di 357 miliardi per l’import, equivalente al 10,9% del commercio internazionale – con questi numeri si fa riferimento sia agli scambi interni, quindi tra membri del blocco, sia esteri.
Accordo UE-Mercosur: cosa prevede?
I negoziati tra UE e Mercosur vanno avanti da circa 25 anni, con un susseguirsi di momenti di tensione e distensione. Finalmente, il 6 dicembre 2024 a Montevideo, in Uruguay, i vertici dell’Unione Europea riescono a trovare un’intesa coi paesi del blocco sudamericano: questo mercoledì la Commissione europea ha presentato i trattati che definiranno l’accordo commerciale raggiunto, compiendo un ulteriore passo avanti verso l’ufficializzazione.
L’accordo è frutto della volontà di abbattere gli ostacoli commerciali, assicurare un accesso responsabile ed eco-compatibile a materie prime – con un occhio di riguardo alla deforestazione dell’Amazzonia – e lanciare un chiaro messaggio a favore del commercio internazionale regolamentato e contro ogni forma di protezionismo.
Nello specifico, l’intesa si basa su un principio di reciprocità: l’industria europea con auto, macchinari, alcolici in primis, guadagnerà un maggiore accesso al mercato del Mercosur, che a sua volta potrà esportare più facilmente in Europa i suoi prodotti agroalimentari, tra cui carne, zucchero, caffè e soia. Quest’ultimo punto, in particolare, ha causato qualche malumore tra le imprese della filiera agroalimentare francesi, polacche e, in parte, anche italiane.
Il timore principale, infatti, è relativo alla concorrenza sleale: i paesi sudamericani dispongono di normative ambientali e alimentari più permissive rispetto a quelle previste dall’UE, che permettono l’uso di antibiotici, pesticidi e ormoni vietati nel Vecchio Continente.
In ogni caso, si parla di un graduale allentamento delle tariffe doganali sul 90% dei beni scambiati tra i due blocchi, di canali preferenziali per le imprese europee e sudamericane, le quali avrebbero un maggiore accesso agli appalti e alla possibilità di investire. Il risultato finale, in base a quanto dichiarato dalla Commissione Europea, determinerà un incremento dell’export dell’Unione Europea verso il Mercosurpari al 39% con un aumento occupazionale stimato di 440.000 posti di lavoro.
Ma non c’è ancora nulla di ufficiale
L’accordo UE-Mercosur, come anticipato, non è ancora ufficiale ma rappresenta una fase fondamentale nel processo di avvicinamento tra i due blocchi commerciali, che devono tutelarsi dai costosi dazi trumpiani.
Si tratta di un accordo commerciale ad interim, cioè provvisorio, che non necessita dell’approvazione dei 27 stati membri ma solamente della ratifica della maggioranza qualificata del Consiglio UE – quindi di almeno 15 paesi su 27 (il 55%) i quali devono rappresentare almeno il 65% della popolazione.
È l’inizio di una fruttuosa collaborazione fra due continenti? Oppure questo accordo si tradurrà in un nulla di fatto? Noi, naturalmente, seguiremo l’evoluzione della situazione. Tu, nel mentre, iscriviti al nostro canale Telegram per non perdere gli aggiornamenti o a Young Platform cliccando qui sotto!
Questa settimana nel Wyoming, USA, avrà luogo una delle conferenze più Perché il discorso del Presidente della FED è stato interpretato positivamente dai mercati? Che significa che ha “aperto a un taglio dei tassi”?
Il discorso di venerdì 22 del Presidente della FED Jerome Powell ha riportato euforia tra gli investitori, generando forti rialzi un po’ ovunque. In questo articolo vedremo brevemente il perché di questo entusiasmo e daremo un’occhiata alle reazioni dei mercati.
Il discorso di Powell in breve
Al Jackson Hole Economic Symposium, tenutosi dal 21 al 23 agosto nello stato del Wyoming, USA, il Presidente della FED Jerome Powell, nel suo intervento di circa venti minuti, ha toccato tre temi principali.
In primo luogo, ha descritto lo stato attuale dell’economia americana, definendolaresiliente nonostante il rallentamento di PIL e occupazione, con un’inflazione elevata ma in progressivo calo. Ha, inoltre, evidenziato una dinamica “curiosa” che sta caratterizzando il mercato del lavoro: questo rimarrebbe stabile nonostante i recenti dati, con una disoccupazione al 4,2%, perché sarebbe in atto un rallentamento tanto dell’offerta quanto della domanda. In parole semplici, ci sarebbero meno assunzioni sia perché le imprese offrono meno posti, sia perché diminuisce il numero di persone in cerca di lavoro – a causa, soprattutto, di un brusco calo dell’immigrazione.
In secondo luogo, ha illustrato le modifiche al quadro di politica monetaria della Fed, pensate per renderlo più flessibile e adatto a diversi scenari economici. Ciò ha segnato un distacco dall’impostazione precedente, centrata soprattutto sui rischi legati ai tassi prossimi allo zero. Questo significa che, secondo Powell, è necessario un cambio netto rispetto al paradigma vigente dal periodo successivo alla crisi del 2008: se prima la preoccupazione era relativa ai tassi di interesse troppo bassi – ai tempi della crisi, negli USA, l’inflazione era molto bassa e i tassi di interesse vicini allo zero – adesso il mondo è cambiato. È quindi fondamentale essere reattivi e adattarsi agli eventi che, come ha dimostrato la pandemia del 2020, possono causare cambiamenti repentini.
Terzo, ha ribadito che la banca centrale manterrà un approccio equilibrato nel perseguire il duplice obiettivo di piena occupazione e stabilità dei prezzi, in particolare quando questi due traguardi risultano in tensione. In chiusura, Powell ha sottolineato che la politica monetaria non seguirà un percorso prestabilito, ma sarà guidata dai dati e dalla valutazione complessiva dei rischi – il classico wait and see.
Il passaggio chiave
Un punto in particolare del discorso ha catturato l’attenzione degli analisti e degli investitori: “nel breve termine”, dice Powell, “i rischi per l’inflazione sono orientati al rialzo e i rischi per l’occupazione al ribasso: una situazione difficile. Quando i nostri obiettivi sono in tensione come in questo caso, il nostro quadro di riferimento ci chiede di bilanciare entrambi i lati del nostro doppio mandato”.
Il numero uno della FED ha poi riferito che “il nostro tasso di riferimento è ora 100 punti base più vicino al livello neutro – il tasso d’interesse teorico che non stimola né rallenta l’economia – rispetto a un anno fae la stabilità del tasso di disoccupazione e di altre misure del mercato del lavoro ci consente di procedere con cautela mentre consideriamo i cambiamenti alla nostra posizione di politicamonetaria”.
Poi la frase cruciale: “Ciononostante, con una politica in territorio restrittivo, le prospettive di base e ilmutato equilibrio dei rischi potrebbero giustificare un aggiustamento della nostra posizione di politica”.
Cosa vogliono dire, nel concreto, queste dichiarazioni? Molto semplicemente che, attualmente, l’inflazione potrebbe aumentare e, al contrario, l’occupazione diminuire. Il punto fondamentale, stando alle parole di Powell, risiede nell’espressione “mutato equilibrio dei rischi”: se, un anno fa, la preoccupazione principale era un’inflazione fuori controllo, oggi mantenere un tasso di disoccupazione a livelli bassi diventa la priorità.
Dunque, potrebbe essere necessario concentrarsi sul mercato del lavoro piuttosto che sul rialzo dei prezzi: mantenere i tassi ai livelli odierni, infatti, potrebbe soffocare ancora di più un’economia già in forte rallentamento. È, perciò, di vitale importanza scongiurare i rischi di una recessione. Come? Abbassando i tassi di interesse. Boom, mercati in estasi.
Le reazioni dei mercati
Come anticipato, i mercati hanno reagito in modo marcatamente positivo alle parole di Powell: per quanto già ci si aspettasse almeno un taglio nell’ultimo trimestre del 2025, le dichiarazioni al Jackson Hole Economic Symposium hanno dato qualche sicurezza in più.
Vediamo nel dettaglio come ha reagito la Borsa nella giornata di venerdì 22 agosto: il Dow Jones e il Nasdaq hanno guadagnato l’1,7%, mentre l’S&P500 è cresciuto dell’1,5%. Altra storia se parliamo del Russell 2000 – indice che raggruppa le 2.000 aziende statunitensi a minore capitalizzazione — che ha registrato un aumento di quasi il 3,5%. Se invece guardiamo le singole azioni, Tesla ha messo a segno un interessante +5,8%, Nvidiail 3% e Amazon il 2,7%.
Per concludere, il dollaro USA: a causa delle future pressioni inflazionistiche, la valuta statunitense ha perso terreno contro le principali valute mondiali. Il DXY, che misura il valore del dollaro statunitense rispetto a un paniere di sei valute principali (euro, yen, sterlina, dollaro canadese, corona svedese e franco svizzero), ha perso lo 0,9% in una sola seduta.
Mercato Crypto
Dopo le dichiarazioni di Jackson Hole, Bitcoin ha guadagnato il 4% arrivando a toccare i 117.000$– anche se ad oggi è tornato sui 111.000$. Ethereum, invece, continua a macinare record: dopo aver guadagnato più del 15% in un solo giorno, ETH ha sfruttato la spinta per attaccare la resistenza dei 5.000$ e mettere a segno l’All Time High a 4.950$ nella giornata di domenica, per poi ritracciare leggermente – al momento in cui scriviamo viaggia sui 4.620$. Grandi performance anche per Solana, che da venerdì a domenica passa dai 180$ ai 212$, registrando un +17,7%.
What’s next?
Moltissimi esperti ritengono iper probabile almeno un taglio dei tassi prima della fine del 2025, proprio perché l’interpretazione che abbiamo dato qui sopra è quella più accreditata. Anche gli utenti di Polymarket sembrano condividere: il 78% degli scommettitori ha puntato sul taglio di 25 punti base a settembre, contro il 17% che ha votato “no change”. Aspettiamo la prossima riunione prevista per il 16-17 settembre prossimi. Nel frattempo, entra nel nostro canale Telegram per restare sempre aggiornata/o sulle notizie rilevanti: analisi tecniche, mercati, trattative di pace e qualsiasi cosa possa influenzare il prezzo delle nostre crypto preferite!
Il prezzo del pane è lievitato negli ultimi anni: un chilo, in Italia, costa mediamente il 33% in più rispetto al 2021. Per quale motivo?
Il pane comune, essendo un bene di prima necessità, in Italia è sottoposto a una tassazione super-ridotta, con l’IVA al 4%. Nonostante ciò, negli ultimi anni abbiamo assistito a un rialzo sul prezzo euro/chilo che ha avuto effetti netti sulla spesa media delle famiglie italiane. Quali sono le ragioni dietro questo aumento?
Il prezzo del pane in Italia: la differenza fra Nord, Centro, Sud e Isole
Il prezzo del pane, come quello di molti beni di consumo, cambia di in base alla parte della Penisola in cui ci troviamo, a causa delle differenze relative al costo della vita: nel Nord Italia vivere costa mediamente di più rispetto al Sud, anche se poi esistono variazioni di carattere regionale e persino cittadino.
Per capire quanto effettivamente sia cresciuto il prezzo di un chilo di pane, abbiamo analizzato i cambiamenti dal 2021 al 2025 – forniti dall’Osservatorio Prezzi del Ministero delle Imprese e del Made in Italy – prendendo in considerazione le due città più rilevanti dell’area geografica in questione: Milano e Torino per il Nord, Roma e Firenze per il Centro, Napoli e Bari per il Sud e Palermo e Cagliari per le Isole.
Nord Italia
Nel giugno del 2021, a Torino e a Milano un chilo di pane costava rispettivamente 3,03€ e 4,20€, mentre nel giugno del 2025 erano necessari 3,98€ e 4,93€. Ciò equivale a un aumento del prezzo medio del 31,35% a Torino e del 17,38% a Milano. Nel complesso, se volessimo utilizzare queste due città per fotografare i cambiamenti nel Nord Italia, il prezzo del pane in questa areaè salito del 23,24%.
Centro Italia
Per il Centro, come anticipato, abbiamo preso in considerazione le città di Firenze e Roma: nel giugno del 2021, un chilo di pane costava 2,22€ nel capoluogo toscano e 2,65€ nella Capitale. Cinque anni dopo, la stessa quantità viene esposta, nell’ordine, al prezzo di 3,33€ e 3,41€. La città di Dante ha visto un rialzo mostruoso, pari al 50%, mentre l’Urbe se l’è cavata un po’ meglio, con aumenti del 28,68%. Complessivamente, nel Centro Italia un chilo di pane costa il 38,40% in più rispetto al 2021.
Sud Italia
Nel Sud il costo della vita è tendenzialmente più basso: un’indagine del 2024 del Codacons ha classificato Napoli come la città più economica d’Italia (e Bari la più costosa del Sud). In ogni caso, nel giugno del 2021 a Napoli il pane costava 1,88€/kg contro i 2,90€ di Bari. Nel 2025, invece, si parla di 2,42€ e 4€. Siamo dunque di fronte ad aumenti pari al 28,72% nel primo caso e 37,93% nel secondo, mentre a livello globale il rincaro ammonta al 34,31%.
Isole
Nonostante finora abbiamo utilizzato le due città più popolose dell’area geografica in questione per descrivere i cambiamenti di prezzo, per le Isole abbiamo fatto un’eccezione: Cagliari infatti possiede meno abitanti di altre città siciliane, come Catania o Messina, ma era necessario rappresentare la Sardegna. Ma andiamo avanti.
A Palermo nel 2021 un chilo di pane veniva venduto a un prezzo medio di 2,96€, mentre a Cagliari la cifra si attestava sui 3,12€. Nel giugno del 2025, per la stessa quantità i siciliani dovevano spendere 4,4€ e i sardi 4,11€. Si tratta di rialzi del 48,65% e del 31,73%. In generale, nelle Isole si spende il 39,97% in più rispetto a quattro anni fa.
Quali sono le cause?
Come è ovvio, non esiste un’unica causa dietro a un rincaro così importante. Si tratta di una serie di fattori interconnessi che vanno a impattare, in modo diretto e indiretto, la produzione del grano duro, fondamentale per la panificazione.
Cambiamento climatico tra siccità e alluvioni
Per esempio, il cambiamento climatico agisce direttamente sulla produzione del cereale, dal momento che i raccolti dipendono soprattutto dalla qualità del clima: siccità o, al contrario, alluvioni più frequenti e devastanti, hanno un impatto notevole sulla quantità di grano che la terra può produrre. Meno grano a disposizione si traduce in un rialzo dei prezzi, come vuole la legge della domanda e dell’offerta.
Guerra in Ucraina: impatto diretto e indiretto
Anche la guerra in Ucraina, iniziata nel 2022 in seguito all’invasione russa, ha un ruolo di primo piano nell’aumento dei prezzi, per motivi diretti e indiretti.
L’Ucraina, infatti, è chiamata il “granaio d’Europa” proprio grazie al suo ruolo storico di esportatrice di prodotti agricoli, in particolare cereali. Allo stesso modo, la Russia produce grandissime quantità di cereali, che poi vende al resto del mondo. È chiaro, perciò, come un conflitto così totalizzante e prolungato nel tempo abbia una responsabilità diretta sulla riduzione delle tonnellate di grano raccolto.
Questa guerra, però, ha influenzato il costo del grano anche in modo indiretto, colpendo il settore energetico, elemento chiave nella produzione agricola. Con l’inizio degli scontri e l’affrancamento dell’Unione Europea dal gas russo, il prezzo dell’energia è salito in modo quasi incontrollato. Quando l’energia costa di più, crescono di conseguenza i costi di trasporto, marittimo e su gomma, e di produzione, fra macchine agricole e forni. Chi paga questi incrementi di prezzo? Il consumatore finale.
Ma alla fine si parla sempre di inflazione
Eh si, si torna sempre alla nemica numero uno dei nostri risparmi: se il consumatore spende di più per comprare la stessa quantità di un bene, significa che il denaro vale di meno rispetto al passato – nel caso che abbiamo appena analizzato, il 33% in meno.
Purtroppo non finisce qui, perché l’inflazione, oltre ad agire in modo diretto sui prezzi, presenta anche degli effetti collaterali. Cosa significa? Molto semplicemente potremmo parafrasare il famoso detto “vincere aiuta a vincere” con la nostra originale versione “l’inflazione aiuta l’inflazione”: se il costo di un bene aumenta a causa di fattori come quelli precedentemente descritti, è molto probabile che produca delle conseguenze anche su beni che, in realtà, non avrebbero ragione di crescere di prezzo.
Banalmente, quanto detto vuol dire che, da una parte c’è un fornaio obbligato ad alzare il prezzo del pane, poiché a monte paga di più il grano stesso e l’energia per mandare avanti l’azienda. Ma dall’altra, potrebbe esserci un dentista – esempio casuale, amiamo i dentisti – che aumenta di un tot% la fattura perché ha bisogno di più soldi per vivere (tutto costa di più) o perché… tanto lo fanno tutti. Si instaura un circolo vizioso che, nel tempo, è destinato a diventare la normalità: una tazzina di caffè al bar, che prima costava 1€, adesso vale 1,20€. Pensi che torneremo al prezzo di qualche anno fa? No, non ci torneremo mai. Anzi, l’obiettivo sarà evitare che arrivi a 1,50€ troppo in fretta.
Una soluzione necessaria
Dobbiamo proteggerci e trovare una soluzione per impedire che l’inflazione eroda lentamente e inesorabilmente il nostro denaro. Come? A noi, per esempio, piace molto Bitcoin. Siamo talmente convinti di questa scelta che ci abbiamo costruito sopra una campagna dal titolo “Bitcoin Protegge”. Magari ci hai visto nelle principali spiagge italiane, dalla costiera amalfitana alla riviera romagnola. Siamo arrivati alla fine di questo mini viaggio alla scoperta dell’economia del pane: ti eri accorta/o di questa situazione? O hai preso consapevolezza della realtà leggendoci? In ogni caso, seguici sul nostro canale Telegram per restare aggiornata/o sulle notizie che contano, dall’economia alla geopolitica, con un occhio sempre attento sui mercati.
Weekend intenso per Donald Trump, che in pochi giorni incontra Putin, Zelensky, i leader europei e della NATO. Cos’è successo? Le reazioni dei mercati
Un weekend decisamente caldo quello appena trascorso: uno scatenato Donald Trump ha accolto negli Stati Uniti, in quattro giorni, il Presidente russo Putin, quello ucraino Zelensky, sei leader europei tra cui Giorgia Meloni e il Segretario della NATO Mark Rutte. L’obiettivo? Trovare una soluzione che possa mettere fine alla guerra cominciata più di tre anni fa con l’invasione russa dell’Ucraina. Qui un breve recap di ciò che è successo, con un focus finale sul comportamento dei mercati.
Trump e Putin: meeting in Alaska a Ferragosto
Il 15 agosto, in una base americana nei pressi di Anchorage, in Alaska, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e quello della Federazione russa Vladimir Putin hanno avuto un faccia a faccia per discutere della guerra russo-ucraina. Le scene che hanno preceduto il meeting sono state oggetto di grande dibattito, a causa di una quasi inaspettata cordialità di Trump nei confronti di Putin: tappeti rossi, calorose strette di mano, pacche sulla spalla e amichevoli sorrisoni.
Ma è un dettaglio particolare a incuriosire i media di tutto il mondo: il Presidente USA, in modo volontario e non previsto, haofferto un passaggio all’omonimo russo sull’epica e indistruttibile limousine presidenziale – chiamata appunto “The Beast” – al riparo da occhi e orecchie indiscreti. Cosa si siano detti in quei dieci minuti di macchina, nessuno potrà mai saperlo. I due, però, sono stati visti ridere serenamente, come amici di vecchia data.
In ogni caso, dalla “conferenza stampa” successiva all’incontro non è trapelato nulla di significativo. Le virgolette non sono casuali: i duenon hanno risposto a praticamente nessuna domanda, ma si sono limitati a fare le solite, vaghe dichiarazioni.
Ha iniziato Putin, lodando l’atmosfera “di rispetto reciproco” e raccontando come, in realtà, l’Alaska fosse in passato una regione russa. È poi passato al tema centrale del summit, cioè la guerra che sta conducendo contro l’Ucraina. Ancora una volta, lo Zar ha rimarcato la necessità di “eliminare le cause profonde” del conflitto come requisito imprescindibile per parlare di pace: riconoscimento della sovranità russa sulle regioni attualmente contese, smilitarizzazione e neutralità di Kyiv, assenza di coinvolgimento militare straniero e nuove elezioni ucraine.
Arriva, quindi, il momento di The Donald. Come riportano numerosi analisti, il POTUS, che ci ha abituato a lunghe dichiarazioni, è stato stranamente di poche parole: “ci sono stati moltissimi punti su cui siamo stati d’accordo”, “grandi progressi“, “incontro estremamente produttivo“. Insomma, qualche minuto di fumo con poco arrosto, per poi ammettere che nessun accordo era stato raggiunto ma che, comunque, “abbiamo una grandissima possibilità di arrivarci“.
Trump, Zelensky, Europa e NATO a Washington D.C.
Tra domenica e lunedì, Donald Trump ha discusso della situazione attuale e futura col Presidente ucraino Zelensky, per poi allargare l’invito a sei leader europei – il francese Macron, il tedesco Mertz, l’italiana Meloni, il britannico Starmer, il finlandese Stubb e la Presidente della Commissione U.E. von der Leyen – e al Segretario generale della NATO Rutte.
Il tema centrale del summit è stato chiaramente la sicurezza e l’integrità territoriale dell’Ucraina. Infatti, tanto il Presidente Zelensky quanto i rappresentanti europei e della NATO, da mesi stanno esercitando forti pressioni sul Presidente Trump al fine di ottenerele cosiddettegaranzie: la pace fra le due parti deve essere raggiunta senza compromettere la sovranità dell’Ucraina e, in prospettiva futura, deve servire a dissuadere la Russia dal ripetere simili invasioni militari. Come? Permettendo a Kyiv di dotarsi di un esercito competitivo, al passo coi tempi e fortemente specializzato, che funga da deterrente. Il problema è che Putin, come abbiamo visto, non ne vuole sapere e chiede tutt’altro.
What’s next?
Difficile a dirsi, data la natura criptica di Vladimir Putin e l’atteggiamento incostante di Donald Trump. Tuttavia, nella giornata del 19 agosto, lo stesso Trump ha dichiarato che il Presidente russo avrebbe accettato di partecipare a un faccia a faccia con Volodymyr Zelensky, a cui dovrebbe seguire un trilaterale USA-Russia-Ucraina.
Come si legge da un suo post sul social Truth, “al termine degli incontri, ho chiamato il presidente Putin e ho iniziato a organizzare un incontro, in una sede da definire, tra il presidente Putin e il presidente Zelensky. Dopo che questo incontro avrà luogo, avremo un trilaterale, che comprenderà i due presidenti e me stesso”. La notizia sarebbe stata confermata anche dal Primo Ministro britannico Starmer e dal Cancelliere tedesco Mertz.
Come hanno reagito i mercati?
Per quanto riguarda i mercati finanziari tradizionali, la risposta è stata tutto sommato positiva. I tre principali indici americani – Nasdaq, Dow Jones, S&P500 – hanno accolto con entusiasmo la notizia dell’incontro Trump-Putin in Alaska, salvo poi perdere un po’ di terreno: molto probabilmente, gli investitori si aspettavano risultati più concreti e informazioni meno vaghe dal summit di Anchorage. Stesso discorso per i tre principali indici europei – Parigi, Francoforte e Londra – che, con diverse intensità, stanno mettendo a segno buone performance dalla prima settimana di agosto.
Situazione diversa lato crypto. Bitcoin, fra il 13 e il 14 agosto, ha toccato un nuovo All Time High superando quota 124.000$, per poi ritracciare e tornare sui 115.600$ dopo aver fallito, per la seconda volta, l’attacco alla resistenza compresa nel range fra i 121.000$ e i 123.000$.
Anche Ethereum ha tentato l’assalto all’ATH, arrivando a meno di 100$ dal record toccato nel 2021. Attualmente, si aggira intorno ai 4.300$: potrebbe essere molto probabile un secondo attacco ai massimi, dal momento che – facciamo tutti gli scongiuri del caso – la resistenza situata a quota 4.100$ sembra essersi trasformata in supporto.
Per quanto riguarda la Total Market Cap, dal momento dell’annuncio – giovedì 7 agosto – siamo passati dai 3,7 trilioni di dollari agli attuali 3,85 con un aumento del 3,8% circa (più o meno 150 miliardi di dollari). Infine, Bitcoin continua a perdere terreno nei confronti delle altcoin: negli ultimi 12 giorni,la dominance di BTC è calata di più di 3 punti percentuali, arrivando al 59,7% – al momento in cui scriviamo.
Non solo geopolitica
Occorre anche specificare un dato molto importante: il 12 e il 14 agosto, il BLS (Bureau of Labour Statistics) ha pubblicato i dati relativi all’inflazione negli Stati Uniti, comunicando il CPI e il PPI, ovvero il Consumer Price Index e il Producer Price Index. Il primo valore riflette i prezzi all’acquisto, dalla prospettiva dei consumatori, mentre il secondo mostra le variazioni dei prezzi di vendita, dunque dalla prospettiva dei produttori.
Il PPI è importante perché è considerato un indicatore anticipatore dell’inflazione: se chi produce vende a prezzi più alti, chi acquista compra a prezzi più alti, il potere d’acquisto cala e l’inflazione cresce. Questo mese, il PPI è aumentato dello 0.9% rispetto a luglio, contro le previsioni che stimavano “solo” un +0,2%. Queste rilevazioni hanno sicuramente influenzato il comportamento degli investitori, dal momento che un’inflazione più alta riduce le probabilità di tagli ai tassi futuri da parte della FED.
Si intravede uno spiraglio di luce?
Per concludere, Donald Trump riuscirà a far sedere Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky allo stesso tavolo? Siamo sempre più vicini alla pace o è solamente un’illusione? Che ruolo avrà l’Europa in tutto ciò?
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Donald Trump torna al centro della scena con una lettera alla presidente UE von der Leyen. Il tema? I dazi, come sempre. I mercati tengono, BTC vola!
Donald Trump ha spedito una lettera intestata personalmente alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, arrivata nella giornata di sabato 12 luglio. L’oggetto, naturalmente, i dazi: a partire dall’1 agosto, si legge, gli USA applicheranno una tariffa del 30% sui prodotti UE. Come hanno reagito i mercati? E Bitcoin? Scendiamo nel dettaglio.
La lettera di Donald Trump: UE c’è posta per te
Come nel famoso programma condotto dall’eterna Maria de Filippi, Donald Trump bussa alla porta dell’Unione Europea con un “toc-toc, cara Ursula c’è posta per te”. In effetti, la lettera è intestata proprio alla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, “Her Excellency”. Almeno sulla forma ci siamo. Ma concentriamoci sul contenuto.
Il tono non è proprio quello trumpiano da social, deciso e aggressivo, ma sembra più accomodante e allo stesso tempo passivo-aggressivo, nel senso che si percepisce la solita tecnica del “noi stiamo bene con voi enon volevamo farlo eh, ma ci avete costretto e quindi vi beccate i dazi”.
Infatti, la lettera inizia con un invito, quasi gentile, a collaborare insieme sui temi commerciali, seguito però da un secco “dobbiamo allontanarci da questi deficit commerciali di lungo termine”. Poi la botta: “a partire dal 1° agosto 2025, applicheremo all’Unione Europea un dazio del solo 30% sui prodotti europei esportati negli Stati Uniti, separato da tutti i dazi settoriali”.
La storia non finisce qua, perchè qualche riga dopo Trump specifica che, nel caso di ritorsioni, contromisure e controdazi, qualsiasi percentuale decisa “verrà sommata al 30% già applicato”. Occhio per occhio, dente per dente.
Il testo si conclude, infine, con una sorta di richiesta condita da lacrime di coccodrillo: “per favore”, si legge, “vi preghiamo di comprendere che questi dazi sono necessari” a causa di anni e anni di tariffe e politiche commerciali che l’UE avrebbe imposto alle merci USA in entrata. “Non vediamo l’ora di collaborare con voi come partner commerciali!”. Sarà vero?
La reazione dell’Unione Europea
Ursula von der Leyen ha risposto con unatteggiamento alla Mario Brega in “Bianco, Rosso e Verdone” – sta mano po’ esse ferro e po’ esse piuma. Per i non avvezzi alla commedia italiana, ciò significa che la Presidente della Commissione UE ha proposto una sorta di approccio a doppio binario: l’Unione Europea predilige la soluzione diplomatica e dunque si prenderà tutto il tempo necessario, fino al primo agosto, per giungere ad un accordo – la piuma. Nel caso in cui questa strategia dovesse fallire, si passerà alle maniere “forti”, dunque a delle contromisure adeguate – il ferro.
In ogni caso, in virtù della preferenza per il primo metodo, l’Unione Europea ha posticipato al 1° agosto l’entrata in vigore dei controdazi per 21 miliardi di euro sui beni statunitensi – in risposta alle tariffe del Liberation Day – prevista per la mezzanotte di lunedì 14 luglio. Intanto, il Commissario europeo per il commercio Maroš Šefčovič ha espresso la volontà di organizzare un incontro con gli omologhi americani, per cominciare le negoziazioni.
Come hanno reagito i mercati finanziari?
Diciamo subito che poteva andare molto peggio. I motivi, apparentemente, sono semplici. In primo luogo, Donald Trump ha dato prova in più occasioni di non essere una persona così fedele alla parola data. Non a caso, è stato soprannominato il TACO President – Trump Always Chickens Out, “Trump si tira sempre indietro”. Coerentemente, in pochi credono che The Donald arriverà a mantenere l’impegno.
Poi, anche se strettamente legata al primo motivo, c’è la convinzione diffusa che si giungerà a un accordo prima della deadline: i due mercati, europeo e statunitense, sono troppo intrecciati e vedono il coinvolgimento di numerosi interessi particolari, che faranno una forte pressione. Basti pensare che il commercio fra le due sponde dell’Atlantico, stando alle parole dello stesso Šefčovič, vale circa 4,4 miliardi di dollari al giorno.
Partendo dai listini europei – al momento in cui scriviamo – in ultima posizione troviamo Francoforte, col DAX che perde lo 0,30%. Leggermente meglio il CAC 40 di Parigi, con un -0,24%. In positivo Milano (FTSE Mib) dello 0,27%, mentre la prima posizione se la prende Londra, col FTSE 100 che guadagna lo 0,66%.
Diamo ora uno sguardo rapido all’altro attore coinvolto, gli Stati Uniti. Reazione più contenuta ma tutta in territorio positivo per i principali indici americani: terzo posto per l’S&P500, che al momento guadagna lo +0,04%, preceduto dal Dow Jones con un +0,07%. Meglio il Nasdaq, su dello 0,20%.
In tutto ciò volano le crypto
Beh, lato crypto sembra di essere nelle Highlands scozzesi in primavera: verde ovunque. Bitcoin ha raggiunto un nuovo ATH a 123.000$ nella giornata di martedì 14 luglio e sembra fregarsene totalmente di ciò che sta succedendo: da una settimana non fa altro che toccare nuovi massimi. Nella giornata di oggi c’è stato un po’ di scarico, ma siamo comunque sul +1,2%.
Situazione rosea – o per meglio dire, verde smeraldo – anche per le altcoin. Cominciando con la regina delle alt, Ethereum oggi viaggia sui 3.026$,a +1,11% rispetto alla giornata di ieri, così come Solana, su dell’1,22%, a 164,7$.
Menzione di merito al nostro toker, Young (YNG), che sta facendo il panico: dall’annuncio della data del listing su Uniswap, il 14 luglio, YNG ha messo a segnoil 21% (!!!). Adesso si aggira sui 0,39€ (0,45$) – mentre il primo luglio era a quota 0,21€ (0,24$). Complessivamente, se guardiamo il timeframe mensile, YNG è su del 74,35%.
Quindi, gli USA e l’Unione Europea arriveranno a un accordo? O è l’inizio di una guerra commerciale fra alleati? Iscriviti al nostro canale Telegram per restare aggiornata/o sulle notizie che contano. In alternativa, puoi anche registrarti direttamente a Young Platform cliccando qui sotto!
Le energie rinnovabili sono un tema centrale dagli anni ’70. Qui capiremo insieme di cosa si parla, a che punto siamo e se ha senso investirci
Le energie rinnovabili, tema ormai all’ordine del giorno, sono entrate pesantemente nel dibattito pubblico per la prima volta intorno agli anni ‘70, in occasione delle varie crisi petrolifere. In quel momento, coi prezzi del petrolio alle stelle, l’opinione pubblica ha iniziato seriamente a domandarsi se un sistema fondato esclusivamente sul combustibile fossile potesse essere davvero sostenibile. La risposta, ovviamente negativa, ha sollevato una serie di riflessioni sulla necessità di diversificare l’approvvigionamento energetico. Da quel momento sono passati quasi cinquant’anni: a che punto siamo adesso? In che direzione ci stiamo muovendo?
Cosa sono le energie rinnovabili?
Le energie rinnovabili, molto semplicemente, sono quelle fonti di energia non soggette a esaurimento: sono considerate inesauribili perché si rigenerano allo stesso ritmo, o anche a ritmo superiore, a quello con cui vengono consumate. Alcune fonti rinnovabili, tuttavia, presentano una capacità rigenerativa limitata. Le foreste, ad esempio, necessitano di un intervallo di tempo definito prima di poter essere nuovamente sfruttate, perché banalmente occorre aspettare che gli alberi ricrescano. Questi tipi di energia, pertanto, possono essere sfruttati senza negare le stesse possibilità alle generazioni future.
Le energie rinnovabili, dal momento che dipendono direttamente dalle condizioni ambientali, non sono disponibili in modo uniforme in tutto il mondo. Come è evidente, è necessario che l’ambiente presenti determinate caratteristiche “energetiche”, come la quantità di luce solare disponibile e l’intensità del vento, ma anche spaziali dato che si tratta, spesso, di impianti molto invasivi. Tra le economie avanzate, solo Islanda e Norvegia riescono a soddisfare la totalità del fabbisogno energetico attraverso questa tipologia di energie, con Svezia e Danimarca subito dietro.
Le energie rinnovabili, ovviamente, si basano sulle risorse rinnovabili, cioè sulle risorse che hanno un tasso di rigenerazione maggiore o uguale al tasso di consumo. Possono essere materiali o energetiche e coltivate o naturali: il legno, per esempio, è una risorsa materiale coltivata, mentre il vento rientra nelle energetiche naturali.
Quali sono le energie rinnovabili?
Le principali energie rinnovabili sono sei e, ad eccezione dell’energia geotermica e marina, dipendono tutte dal Sole. Senza l’irraggiamento solare, infatti, non avremmo il vento, che è prodotto dalle differenze di pressione generate dal riscaldamento non omogeneo delle masse d’aria; non avremmo neanche l’idroelettrico perchè, logicamente, il Sole è responsabile del ciclo dell’acqua – dall’evaporazione alla pioggia; anche l’energia delle biomasse, che vedremo fra poco, deriva in parte dalla fotosintesi clorofilliana, irrealizzabile senza la luce solare. Entriamo al volo nel dettaglio:
Energia solare
L’energia solare può essere sfruttata in almeno tre modi diversi. Quello sicuramente più conosciuto fa riferimento all’energia solare fotovoltaica, cioè quella raccolta attraverso i pannelli solari. Gli impianti fotovoltaici, appunto, catturano la radiazione elettromagnetica emessa dal Sole – ovvero i raggi solari – e la convertono in energia elettrica: questa può essere impiegata sia per il riscaldamento dell’acqua, sia per l’illuminazione.
Si parla poi di energia solare termica. Qui, la luce del Sole diventa calore perché viene usata per scaldare un liquido speciale, detto “termovettore” (cioè che trasporta energia termica), che a sua volta trasferisce il calore all’acqua che utilizziamo quotidianamente.
Infine, l’energia solare termodinamica viene generata semplicemente direzionando la luce solare verso le caldaie, attraverso degli specchi montati sui tetti.
Energia eolica
L’energia eolica, come tutti sanno, si ottiene attraverso il movimento delle gigantesche turbine eoliche, tipo quelle che vediamo dall’autostrada quando andiamo in vacanza in Puglia. Queste turbine, dette anche aerogeneratori, trasformano l’energia cinetica del vento in movimento rotatorio e azionano un generatore. Per semplificare: hai presente le torce dinamo che ti porti in campeggio? Quelle che si accendono dopo aver girato la manovella? Stessa cosa.
Energia idroelettrica
L’energia idroelettrica si ottiene con lo stesso principio dell’energia eolica. Si basa sul movimento – dunque sull’energia cinetica – dell’acqua, ottenuto solitamente sfruttando il dislivello fra due punti: l’acqua, cadendo da un punto alto a uno più basso, mette in moto delle turbine che, proprio come quelle eoliche, azionano dei generatori i quali producono elettricità. Il modo più comune per produrre energia idroelettrica è con le dighe e coi bacini idrici.
Energia delle biomasse
L’energia delle biomasse deriva dalla combustione, gassificazione o fermentazione dimateria organica di origine animale o vegetale, come rifiuti urbani o scarti agricoli. Con la combustione si produce calore, con la gassificazione elettricità e con la fermentazione i biocarburanti, come il bioetanolo e il biogas, utilizzati anche per alimentare le auto.
Energia geotermica
L’energia geotermica è il calore naturale immagazzinato nel sottosuolo, prodotto dai processi geologici interni. La conversione del calore geotermico in energia elettrica si basa anch’essa sui movimenti delle turbine e sui relativi generatori.
Per esempio, si perforano dei pozzi naturali dove è presente vapore ad alta pressione, per estrarlo e convogliarlo verso una turbina, che conseguentemente mette in moto il generatore. Oppure, nel caso in cui i pozzi non fossero abbastanza caldi da generare calore in modo efficiente, si estrae l’acqua naturalmente calda per riscaldare un secondo fluido, detto fluidodilavoro, che ha temperature di ebollizione più basse. Si sfrutta poi il vapore generato da questo secondo fluido per azionare le turbine, eccetera eccetera.
Energia marina
Anche l’energia marina, o mareomotrice, sfrutta il movimento, in questo caso delle correnti, delle maree e delle onde. Come nel caso dell’eolico e dell’idroelettrico, i moti delle masse d’acqua fanno girare delle turbine che attivano i relativi generatori. L’energia meccanica viene quindi convertita in energia elettrica. Nonostante sia molto promettente, per ora trova poche applicazioni in quanto fortemente invasiva a livello ambientale.
Chi spende di più in energia rinnovabile?
Giusto per dare un’idea complessiva dei cambiamenti in atto, l’AIE (Agenzia Internazionale per l’Energia), nel suo report “World Energy Investment 2025”, ci dà una panoramica della situazione attuale: gli investimenti globali nel settore energetico alla fine del 2025 ammonteranno a 3,3 trilioni di dollari, di cui 2,2 trilioni – il 66,7% – destinati a energie rinnovabili, con le relative infrastrutture, e al nucleare, concettualmente molto più vicino alle rinnovabili che ai combustibili fossili.
Inoltre, sempre l’AIE ci dice che, se dieci anni fa le spese per la produzione di energia dalle fonti fossili era superiore del 30% rispetto a quella ottenuta dalle rinnovabili, oggi la situazione è invertita: gli investimenti nel settore elettrico dovrebbero raggiungere la cifra di 1,5 trilioni di dollari per il 2025, ovvero il 50% in più rispetto agli investimenti totali per i combustibili fossili. Questa crescita, spiega l’AIE, è stata spinta dagli ingenti aiuti che le istituzioni hanno erogato soprattutto negli ultimi 5-10 anni, ma anche riduzione del costo delle tecnologie chiave per la transizione energetica, in calo del 60% rispetto a un decennio fa.
Tra le motivazioni principali dietro questa tendenza troviamo sia la necessità di porre un freno al cambiamento climatico, sia le varie considerazioni in materia di sicurezza energetica, tornate al centro dell’attenzione in seguito all’invasione russa dell’Ucraina e ai conflitti in Medio Oriente: i governi si sono resi conto che è imprescindibile diversificare l’approvvigionamento energetico, per mitigare i rischi ed evitare un blocco delle forniture. Ora un breve recap sul comportamento delle principali economie mondiali.
Cina
Nel 2025, la Repubblica Popolare Cinese guida gli investimenti nelle energie pulite, tra cui le rinnovabili, con circa 630 miliardi di dollari – quasi il 30% del totale globale. In merito, i cinesi vantano ben tre record: il parco eolico, il parco fotovoltaico e la diga più grandi del mondo. Il primo, situato nel deserto del Gobi, è ancora in fase di completamento ma presenta più di 7.000 turbine. Il secondo, conta quasi 5,3 milioni di pannelli solari ed ha un’estensione di 133 km quadrati – per fare un paragone, il comune di Torino ha una superficie di 130,2 km quadrati. La terza, chiamata Diga delle Tre Gole, è talmente grande che il bacino d’acqua generato rallenta la rotazione della Terra – parliamo di un rallentamento totalmente impercettibile, ma comunque reale.
Stati Uniti d’America
Gli Stati Uniti, in costante competizione con la Cina, si stanno gradualmente orientando verso le fonti di energia rinnovabile, nonostante siano il più grande produttore al mondo di petrolio, con 13,2 milioni di barili al giorno nel 2024. Nello specifico, la quota di investimenti in energie pulita – termine che include, oltre alle rinnovabili, anche il nucleare e altre forme a bassa emissione – sul totale degli investimenti energetici, è passata dal 59% del 2015 al 68% nel 2025. L’AIE, inoltre, prevede che la percentuale raggiungerà l’81% entro il 2035.
Gli Stati Uniti sono anche particolarmente attenti all’efficienza energetica e sono leader nel campo dell’ottimizzazione dei processi energetici basati su intelligenza artificiale. Questo campo, in futuro, sarà cruciale soprattutto per l’enorme quantità di energia che verrà richiesta dai data center, alla base del funzionamento proprio dell’IA.
Unione Europea
Come anticipato, l’invasione russa dell’Ucraina e il successivo stop ai rifornimenti di petrolio e gas russi hanno dato uno scossone all’UE, che ha finalmente compreso l’importanza della diversificazione. Nel 2025, riporta l’AIE, gli investimenti in energia pulita raggiungeranno i 390 miliardi di dollari, subito dopo Cina e Stati Uniti, mentre nel 2024 il 50% dell’energia elettrica di tutto il Vecchio Continente è stata prodotta con fonti di energia rinnovabile.
Un’altro dato, che dimostra l’effettivo cambio di corsia, riguarda il rapporto tra investimenti in produzione di energia elettrica da rinnovabile e da combustibile fossile: nel 2015 la proporzione era 6 a 1, mentre nel 2025 è 35 a 1. Una crescita di quasi il500%.
Sarebbe interessante parlare anche di India, America Latina e Caraibi, Africa e Sud-Est Asiatico, ma quest’articolo poi diventerebbe un episodio di Noos e non abbiamo per niente voglia di rubare il lavoro al mitico Alberto Angela – è passato troppo tempo per fare la gag con Super Quark. Ti basta sapere che il trend è confermato in tutto il mondo e la spesa in tutto ciò che è relativo alle energie rinnovabili cresce con percentuali a due cifre: i leader di tutti i cinque continenti sono perfettamente consapevoli della necessità di differenziare l’approvvigionamento di energia in nome della sicurezza energetica.
Ma quindi, conviene investire nell’energia rinnovabile?
Il discorso qui è abbastanza complesso. In passato, abbiamo già trattato un tema molto simile, quando ci siamo occupati dei fondi ESG: abbiamo notato unatendenza al disinvestimento nel breve termine, motivata soprattutto dalla fine dell’infallibilità del green, simbolicamente sancita dall’elezione di Donald Trump – ricorderai il drill baby, drill. Anche se “ESG” ed “energia rinnovabile” non sono sinonimi, l’andamento di questi fondi potrebbe riflettere un sentiment negativo, o comunque di “fine del sogno”, nei confronti di tutto ciò che è relativo ai concetti di sostenibilità e, in generale, di ambientalismo.
Tuttavia, nella finanza tradizionale il tema dell’energia pulita e delle rinnovabili sembra recuperare terreno. A noi, però, piacciono molto i dati, quindi vediamo come si stanno comportando i tre principali ETF sull’energia rinnovabile.
Premessa: per semplificare, prenderemo in esame le performance degli ETF a 3 anni, 1 anno, 6 mesi, 3 mesi, 1 mese.
iShares Global Clean Energy Transition UCITS ETF (replica fisica dell’indice S&P Global Clean Energy Transition creato da S&P Global): se avessi investito in questo fondo tre annifa, ora saresti in perdita del 36%; se invece avessi iniziato un anno fa, saresti giù del 6,7%. Discorso opposto per quanto riguarda il brevissimo termine. In sei mesi, questo ETF ha messo a segno un +3,8%, in tre mesi un +11%, infine in un mese un +5,6%.
Amundi MSCI New Energy UCITS ETF (replica fisica dell’indice MSCI ACWI IMI New Energy Filtered creato da Morgan Stanley): anche qui, se avessi iniziato a investirci tre anni fa, saresti sotto del 25,6%; il trend positivo, però, parte già a un anno, poiché l’ETF ha registrato un guadagno del 3,2%. In sei mesi, il profitto è dello 0,6%, mentre a tre mesi è esploso con un +14,8%. Sul mese, infine, notiamo il +2,47%.
L&G Clean Energy UCITS ETF (replica fisica dell’indice Solactive Clean Energy creato da Solative): anticipiamo che questo ETF si è comportato molto meglio dei precedenti due e ha messo a segno ottime performance. A tre anni, anche qui siamo in negativo, ma di poco cioè dell’1,6%; a un anno, l’ETF è in positivo dell’8,16%. In sei mesi ha registrato un +7,9%, mentre in tre mesi la performance è stata incredibile: +24%. Infine, sul mese parliamo di un onestissimo +6,86%.
Due considerazioni finali rapide rapide: questi ETF, proprio come i fondi ESG di cui parlavamo prima, sono stati pesantemente condizionati dalle dichiarazioni di Donald Trump. Infatti, hanno raggiunto il bottom nel periodo tra fine marzo e inizio aprile 2025, momento in cui il Presidente USA dichiarava di voler imporre i dazi – come poi ha fatto – e di eliminare i crediti fiscali e gli incentivi federali per l’energia eolica e solare. Seconda cosa: il primo ETF, che ha registrato il rendimento peggiore, è l’unico che include sia energia rinnovabile, sia energia pulita. Gli altri due, invece, sono composti al 100% da società che lavorano esclusivamente con le rinnovabili. É chiaro che – come ripetiamo sempre – la correlazione non giustifica la causalità, però vale comunque la pena sottolineare questo aspetto.
E quindi? Cos’hai deciso? Energie rinnovabili si o energie rinnovabili no? Sulla base dei dati che abbiamo riportato, il tema dell’energia rinnovabile è molto interessante e siamo sicuri che, prima o poi, la civiltà umana sarà costretta a prendere una decisione e abbandonare il vecchio combustibile fossile.
Ultima informazione prima di salutarci: Bitcoin e le energie rinnovabili sono più connessi di quanto si possa pensare. Ce lo dice il CCAF (Cambridge Center for Alternative Finance) dell’Università di Cambridge, con un report di aprile 2025 in cui ha stimato che, attualmente, il 52,4% dell’energia utilizzata per il mining proviene da fonti sostenibili – di cui il 23,4% dall’idroelettrico, 15,4% dall’eolico e il 9,8% dal nucleare.
Sapevi queste cose? Eri a conoscenza dei miliardi di dollari che le principali economie del mondo stanno destinando al settore delle rinnovabili? Avevi idea del fatto che il mining di Bitcoin deriva per il 52,4% – per ora – da fonti energetiche sostenibili? Se la risposta è no, iscrivitial nostro canale Telegram per non perderti le notizie che contano. Se la risposta invece è sì, si vede che ti piace informarti per cui iscriviti a Young Platform cliccando qui sotto!