Ethereum compie dieci anni: buon compleanno!

Ethereum compie dieci anni: buon compleanno!

Ethereum è vicino al decimo compleanno! Ci pensi? Dieci anni dal lancio ufficiale della blockchain e del token ETH. Vediamo insieme i momenti chiave!

Il prossimo 30 luglio ricorreranno dieci anni esatti dal lancio ufficiale della blockchain di Ethereum e del suo token nativo ETH. Dieci anni di innovazione e sviluppo che hanno reso l’ecosistema un gigante da più di mille miliardi di dollari. La strada, però, è ancora lunga. In questo articolo, che vuole essere un tributo alla sua storia, ripercorreremo le 10 tappe più significative del percorso di Ethereum e della figura che più lo rappresenta, Vitalik Buterin.  

Vitalik Buterin ed Ethereum: un destino già segnato?

La passione per la crittografia non è così comune come quella per il calcio o per la musica rock. A maggior ragione nel 2013, quando l’argomento non era così popolare e gli strumenti non così diffusi.

L’ambiente, però, può condizionare notevolmente la personalità, le passioni e le esperienze di un individuo, specialmente se poi quest’ultimo è la persona giusta al momento giusto. Questo è il caso di Vitalik Buterin, un ragazzo nato a Kolomna, in Russia, nel 1994 ed emigrato in Canada con la sua famiglia solo qualche anno dopo. 

Perché Vitalik potrebbe rientrare in questa statistica? Perché il padre, Dmitry Buterin, è un ingegnere informatico che ha fondato (e venduto) tre aziende multimilionarie e che – legittimamente – si definisce un “serial tech entrepreneur”. La passione di Dmitry per la tecnologia e la Computer Science lo ha portato, nel 2011, a scoprire Bitcoin e a condividere questa “scoperta” col figlio Vitalik, ai tempi 16enne. 

Bene, come anticipato, Vitalik era la persona giusta al momento giusto: in terza elementare viene inserito in una classe speciale di bambini plusdotati (in inglese gifted) dove sviluppa la sua passione per la matematica e la programmazione. In quinta elementare ha già il titolo di “math genius”. A 16 anni è in grado di comprendere perfettamente la natura e il potenziale di Bitcoin tanto da fondare, a 17 anni, una rivista dedicata: Bitcoin Magazine, attiva ancora oggi.

A 19 anni, nel 2014, Vitalik Buterin pubblica il whitepaper di Ethereum     

Ethereum: A Next-Generation Smart Contract and Decentralized Application Platform”. Così inizia il whitepaper che Vitalik, nel 2014, rende pubblico alla Bitcoin Conference di Miami.

Ma da cosa nasce la necessità di creare Ethereum? 

Da un assunto che, col senno di poi, può sembrare molto semplice. Vitalik da una parte riconosce il valore di Bitcoin come valuta digitale peer-to-peer e come blockchain basata sul meccanismo di consenso Proof-of-Work. Dall’altra, però, è consapevole dei suoi limiti e del bisogno di ampliarne le funzioni.  

“Ciò che Ethereum intende offrire”, si legge nel whitepaper, “è una blockchain dotata di un linguaggio di programmazione integrato e Turing-completo, che può essere utilizzato per creare “contratti” in grado di codificare funzioni di transizione di stato arbitrarie. Questo consente agli utenti di realizzare qualsiasi sistema […] semplicemente scrivendone la logica in poche righe di codice”. In pochissime e semplici parole, l’idea era quella di sviluppare un mega computer globale e decentralizzato

L’interesse fra gli addetti ai lavori, che hai tempi erano ancora considerati come parte di una nicchia, è incredibile: la Thiel Fellowship, associazione creata da uno dei king della Silicon Valley nonché fondatore di PayPal e Palantir Peter Thiel, gli offre una borsa di studio da 100.000$ per portare avanti il progetto. È l’inizio di una storia epica. 

Profit or no-profit, questo è (primo) il dilemma

Siamo sempre nel 2014, le cose si fanno via via più serie. Vitalik e gli altri sette co-founder si riuniscono a Zug, in Svizzera, il 7 giugno per compiere un’importante passo: trasformare Ethereum in un’azienda for-profit e iniziare a guadagnarci sopra.

Come riferirà in un’intervista Joe Lubin, uno dei co-founder, “Io, con diverse persone del team, credevo che fosse necessario attirare le aziende, che servisse un riscontro economico e commerciale per riuscire a costruire cose migliori”. 

Ma Vitalik, il primus inter pares fra i co-founder, la mente dietro tutto quanto, non è d’accordo. Così esce in balcone, si ferma a riflettere e poi rientra. La decisione è presa: Ethereum deve essere una fondazione no-profit. Subito dopo, caccia Amir Chetrit e Charles Hoskinson – che poi fonderà Cardano – dal progetto. Nasce la Ethereum Foundation.  

La ICO e il lancio ufficiale

Verdetto emesso, riunione chiusa, è ora di iniziare a costruire qualcosa di significativo. Il primo step è ovviamente raccogliere quanto più capitale possibile. Il 22 luglio 2024 comincia la ICO di Ethereum che termina il 2 settembre dello stesso anno: in 42 giorni, la Ethereum Foundation riesce ad attrarre finanziamenti per circa 18 milioni di dollari in BTC, scambiando agli investitori 2.000 Ether per 1 Bitcoin (1 ETH = 0,31$). 

Il 30 luglio 2015, diciotto mesi dopo l’annuncio, la blockchain di Ethereum e il suo token nativo Ether vengono ufficialmente lanciati con la fase Frontier. In quel giorno, Ethereum, da che era un progetto su un documento di 36 pagine, diventa a tutti gli effetti una rete operativa e accessibile agli sviluppatori. Il grande pubblico avrebbe dovuto aspettare circa 9 mesi per la fase Homestead, che avrebbe introdotto un’interfaccia grafica più user-friendly.

L’hack di The DAO…

L’hack di The DAO è una storia talmente incredibile che meriterebbe un contenuto dedicato – magari in futuro. In ogni caso, siamo a maggio 2016, Ethereum non ha neanche un anno di vita ma nell’aria si sente già il profumo di innovazione e rivoluzione: Slock.it, un’azienda pioniera dell’esplorazione della blockchain, lancia The DAO su Ethereum con l’obiettivo di raccogliere fondi da investire in start up innovative

Per dirla brevissima – se vuoi approfondire ti rimandiamo all’articolo sulle organizzazioni autonome decentralizzate (DAO) – The DAO è stata la prima organizzazione della storia totalmente decentralizzata, non gerarchica e disponibile su scala globale. Il funzionamento era abbastanza semplice: investendo ETH in Slock.it, si riceveva in cambio l’equivalente in TheDAO, il token che serviva per operare. 

L’aspetto rivoluzionario risiede nel fatto che, possedendo TheDAO, per la prima volta i membri avevano diritto di voto sulla strada che The DAO avrebbe dovuto intraprendere: alla proposta “volete investire un numero X di ETH in questa start up con la promessa di ricevere X+10 ETH fra 6 mesi?”, gli holder di TheDAO potevano dire la loro. Adesso ci sembra scontato, soprattutto dall’esplosione della DeFi, ma nel 2016 è veramente un qualcosa nuovo, al punto che la ICO di TheDAO riesce a raccogliere in quattro settimane circa 150 milioni di dollari – 12 milioni di ETH. Ma era tutto troppo bello per essere… duraturo. 

Arriviamo al 17 giugno 2016. Un giorno apparentemente normale, è passato un mese dal lancio di The DAO, ma improvvisamente qualcuno si accorge di qualcosa: gli Ether bloccati nello smart contract iniziano a sparire o, per meglio dire, ad essere trasferiti ad un ritmo di 100 ETH al secondo. C’è un attacco hacker in corso. Nel panico generale, però, un gruppo di eroi decide di prendere la situazione in mano: si tratta del Robin Hood Group (RGH) capitanato da Griff Green, community manager di Slock.it. Perché Robin Hood Group? Perché la loro strategia di contrattacco è tanto semplice quanto efficace: togliere gli ETH da The DAO prima che lo faccia l’hacker cattivo. 

Inizia una furiosa battaglia fra il bene e il male fatta di tecnicismi e mosse che, come suggerito sopra, magari tratteremo un’altra volta. Ciò che conta, è che alla fine dello scontro il Robin Hood Group riesce a mettere in salvo il 70% degli ETH disponibili, mentre l’hacker se ne torna a casa con un 30%, equivalente a circa 2 milioni di Ether. Il prezzo del token, a causa di quanto accaduto, perde più della metà del valore, passando da 20$ a 9$.

…E il (secondo) dilemma: to Fork or not to Fork?

Alla fine della guerra fra “bene” e “male”, la community di Ethereum si trova di fronte a un secondo dilemma amletico: procedere col Fork o preservare l’immutabilità della chain?

Ma perchè questa domanda esistenziale? Per un cavillo interno alla DAO: gli ETH prelevati – nel caso dell’hacker, rubati – non erano immediatamente utilizzabili, ma dovevano rimanere bloccati per 28 giorni in un contract secondario.

Quindi, sulla base di ciò, l’hard fork – cioè la creazione di una nuova chain – avrebbe reso possibile “riscrivere le regole del gioco” e recuperare i fondi rubati. Come? Semplicemente inserendo una regola specifica: gli ETH bloccati sul contract secondario sarebbero stati reindirizzati a un wallet sicuro invece di essere trasferiti al wallet dell’hacker. 

Qui il dilemma etico: da una parte, il Fork avrebbe consentito il recupero dei fondi rubati, dall’altra, avrebbe compromesso quello che forse è il principio cardine su cui si fonda la blockchain, cioè l’immutabilità della chain. I sostenitori del “Not to Fork” sottolineavano proprio questo aspetto: “se cambiamo le regole del gioco, quindi se violiamo il principio di immutabilità adesso, chi ci garantisce che non succederà in futuro?

Alla fine, la community vota in maggioranza per il Fork: a partire dal blocco 1.920.000, la blockchain di Ethereum si sarebbe scissa in due: quella che oggi conosciamo col nome di Ethereum (ETH) ed Ethereum Classic (ETC).  

I CryptoKitties mandano in delirio la community ed Ethereum si congestiona 

Menzione d’obbligo per i CryptoKitties, la prima collezione NFT di sempre mai rilasciata sul mercato. Per dare un contesto, siamo nell’ottobre del 2017 e a Waterloo, in Canada, ha luogo l’ETHWaterloo, definito come il “World’s Largest Ethereum Hackathon”.

L’hackathon, qualora non lo sapessi, è un evento in cui vari sviluppatori si riuniscono per competere – ma anche collaborare – al fine di trovare soluzioni a problemi specifici o creare nuovi progetti. È una crasi fra le parole “hack” e “marathon”, proprio perché i partecipanti lavorano e programmano per un periodo di tempo compreso fra le 24 e le 48 ore. Al termine, si decretano i vincitori che, solitamente, ricevono premi in denaro.

Durante l’ETHWaterloo, il team dietro CryptoKitties, Axiom Zen, testa ufficialmente il programma di fronte a centinaia di sviluppatori e addetti ai lavori: si tratta di un gioco su blockchain in stile Tamagochi, in cui l’utente compra questi gatti-NFT e, fondamentalmente, li alleva, ci interagisce e li scambia. Ogni CryptoKittie possiede delle caratteristiche uniche che danno più o meno valore all’asset stesso: insomma, l’NFT per eccellenza da cui poi ha preso spunto la wave che ha avuto il picco di popolarità nel 2021-2022 – tra Bored Apes e CryptoPunks – feel old yet?  

Delirio totale. I presenti non hanno mai visto una cosa simile: il gioco funziona su blockchain e, come se non bastasse, l’interfaccia è estremamente user-friendly. Nell’aria la FOMO si può toccare con mano. 

Un mese dopo, i CryptoKitties vengono ufficialmente lanciati su Ethereum: una settimana dopo sono stati spesi circa 4,5 milioni di dollari su questi NFT, con un incremento sei volte maggiore delle transazioni in pending. Due settimane dopo il gioco supera i 150mila utenti registrati, con più di 260mila CriptoGatti “adottati” e un giro di soldi pari a 15 milioni di dollari. A un mese dal lancio, le transazioni legate alla compravendita di CryptoKitties rappresentano il 13% di tutte le transazioni su Ethereum. Qui, però, cominciano i problemi. 

Con tutta questa attività, il network di Ethereum comincia a rallentare fino a congestionarsi: le transazioni sono aumentate a dismisura e, con esse, le gas fees. La viralità dei CryptoKitties, infatti, ha fatto emergere un problema fondamentale costitutivo della blockchain: la scalabilità. Grazie a questo episodio, gli sviluppatori sono riusciti a comprendere quanto fosse necessario attivarsi per evitare situazioni del genere in futuro.  

DeFi Summer: quando la DeFi è diventata la… DeFi

Facciamo un salto di tre anni, dal 2017 al 2020. Non che in quel periodo non sia successo niente, anzi: escono degli aggiornamenti di sistema, tra cui Byzantium e Constantinople, che migliorano notevolmente le performance e, in generale, la rete. Nel 2020, però, succede qualcosa di straordinario che passerà alla storia come la DeFi Summer

Una breve premessa. La DeFi su Ethereum già esisteva e girava principalmente intorno a tre elementi: gli NFT, i protocolli di lend and borrow e gli exchange decentralizzati (DEX). Del primo dei tre abbiamo già parlato abbondantemente coi CryptoKitties.

Per quanto riguarda il lend and borrow, impossibile non menzionare MakerDAO, un protocollo attivo già dal 2017 attraverso cui gli utenti potevano prendere in prestito varie crypto o guadagnare interessi depositandole. Infine, uno fra i primi DEX lanciati sulla DeFi di Ethereum era EtherDelta, che però ha avuto un tragico epilogo: hack subito nel 2017 e founder condannato per gestione di exchange non autorizzato nel 2018 – in quello stesso anno verrà lanciato Uniswap. 

Torniamo al 2020. Fino a quel momento, come abbiamo visto, la DeFi era già realtà e faceva anche numeri interessanti: il TVL (Total Value Locked) su Ethereum oscillava fra i 400 e i 700 milioni di dollari. Verso febbraio 2020, però qualcosa inizia a muoversi. I protocolli già operativi, come Uniswap, Compound e Synthetix, iniziano a migliorare nettamente, arriva anche Yearn.finance e sempre più persone si avvicinano a questo mondo, desiderose di mettere a rendita le proprie crypto.

Il 15 febbraio 2020 il TVL supera il miliardo di dollari. Ma poi arriva il COVID. Il cigno nero genera il panico totale e, di conseguenza, il crash della DeFi. In un mese, il TVL si dimezza, arrivando a toccare quota 400 milioni di dollari. 

Col COVID, però, si sono verificate anche due cose particolari: il lockdown e gli aiuti di stato – leggi liquidità – per sopravvivere all’emergenza. Questo significa che, improvvisamente, un grandissimo numero di persone si è ritrovato ad avere un’enorme quantità di tempo libero e un bel po’ di soldi in tasca da spendere. La DeFi, così come il mercato crypto e quello finanziario, recupera immediatamente e parte verso la Luna: signore e signori, via alla DeFi Summer!

A metà maggio, il TVL torna ai livelli del febbraio 2020. A metà giugno, supera il miliardo di dollari. A metà luglio, sfonda il tetto dei 2 miliardi. Ormai l’afflusso di denaro nella DeFi sembra inarrestabile. Il 14 agosto, il TVL su Ethereum raggiunge i 4,5 miliardi. Il giorno dopo, il 15 agosto, siamo a 5,5 miliardi! Un miliardo in un giorno! Tra settembre e ottobre 2020 c’è una leggera flessione, naturale, ma a novembre 2020 i miliardi diventano 11. È solo la prima parte di un viaggio che culminerà un anno dopo, nel novembre 2021, con un TVL pari a 107 miliardi di dollari

The Merge: il 15 settembre 2022 cambia il meccanismo di consenso

Il Merge – letteralmente “fusione” – è un evento di enorme rilevanza per la storia di Ethereum e della blockchain in generale: si tratta, appunto, della fusione di due chain parallele – la mainnet, cioè quella principale, e la Beacon, quella di test – finalizzata al passaggio dal Proof-of-Work (PoW) a Proof-of-Stake (PoS). Parliamo quindi di un cambiamento radicale del meccanismo di consenso e, di conseguenza, della natura stessa del protocollo. 

L’idea non era una cosa dell’ultimo momento, dato che Vitalik aveva già proposto la transizione a PoS nel 2016. Tuttavia, avviene solamente 6 anni dopo, a seguito di ben due anni di esperimenti sulla Beacon chain, la test-net parallela.

L’esigenza di un meccanismo PoS era fondamentalmente legato a due ragioni: ridurre l’impatto ambientale, anche per una questione di regolamentazione e potenziali seccature, e aumentare la scalabilità, che la forma PoW limitava a 15 transazioni al secondo. Il 15 settembre 2022, finalmente, si entra in una nuova era: in corrispondenza del blocco 15.537.393, Ethereum diventa ufficialmente una chain basata su consenso Proof-of-Stake

Il Merge ha avuto un impatto considerevole sul consumo energetico, drasticamente ridotto del 99,9%; sulla scalabilità, con implementazione di soluzioni Layer-2 e aumento potenziale a 100.000 transazioni al secondo; sulla natura del token ETH, adesso più soggetto a deflazione (gli ETH delle gas fee ora vengono bruciati e non dati ai miner), e sulla sua valutazione, per via di tutto ciò che abbiamo detto finora. 

BlackRock ha deciso: Ethereum è la chain giusta

Nel marzo 2024 BlackRock, uno dei fondi di investimento più grandi al mondo, lancia il suo primo fondo tokenizzato e sceglie proprio Ethereum. Si tratta di un evento importantissimo per la storia della blockchain: i grandi player istituzionali hanno capito che il futuro della finanza passa anche da lì. Il fondo ha un nome particolare: BlackRock USD Institutional Digital Liquidity Fund, o BUIDL. Un meme che diventa realtà – un po’ come il Department Of Government Efficiecy, o DOGE, di Elon Musk.

Il fondo, fermo a quota 500 milioni per mesi, ha visto una crescita incredibile a partire da marzo 2025: in due mesi, il TVL si è sestuplicato, arrivando a toccare quota 3 miliardi di dollari. Al momento in cui scriviamo, BUIDL si aggira sui 2,39 miliardi, di cui 2,16 bloccati su Ethereum (più del 90%), 68,5 milioni sulla rete di Polygon e 53,9 milioni su Aptos

La SEC approva gli ETF Spot su Ethereum

Dopo l’approvazione degli ETF Spot su Bitcoin, è il turno di quelli su Ethereum: il 23 maggio 2024 la SEC (Securities and Exchange Commission) dà il via libera a nove ETF tematici su ETH, che vengono lanciati ufficialmente sul mercato due mesi dopo, il 23 luglio. Tra gli emittenti troviamo ovviamente BlackRock, Van Eck, Digital Currency Group (Grayscale), FMR LLC (Fidelity) e Invesco

Si tratta di un passo importantissimo che testimonia l’interesse istituzionale per ETH come asset e che, di conseguenza, legittima ancora di più l’universo che ruota intorno alla blockchain e alle criptovalute. Al momento in cui scriviamo, gli ETF Spot su Ethereum hanno raccolto un totale di 16,7 miliardi di dollari in AUM (Asset Under Management). Per dare un metro di paragone, gli ETF Spot su Bitcoin si attestano intorno ai 151 miliardi di dollari – quasi dieci volte tanto. 

Il nostro modo di festeggiare i dieci anni di Ethereum

Noi di Young Platform abbiamo particolarmente a cuore Ethereum, dato che il nostro token YOUNG (YNG) è costruito proprio su Ethereum secondo lo standard ERC-20. Inoltre, nel caso non ti fosse arrivata la notizia, dal 17 luglio YNG è ufficialmente disponibile su Uniswap e tracciabile su Coinmarketcap e Dexscreener.

Per questi motivi, solo per oggi sulla nostra app sarà disponibile una missione a tema Ethereum che ti permetterà di guadagnare delle gemme, cuore pulsante del nostro concorso a premi The Unbox. Nel link trovi tutte le informazioni necessarie per provare a vincere ricompense incredibili: se al nono posto si vincono le Airpods Max, riesci a immaginare cosa abbiamo pensato per il primo posto? Se non l’avessi ancora fatto, ti consigliamo di dare un’occhiata – e partecipare!

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+40% in cinque giorni: parliamo di Ethena (ENA)

+50% in quattro giorni: parliamo di Ethena (ENA)

ENA, il token di governance emesso da Ethena, negli ultimi giorni ha fatto un +40%, passando da un valore di 0,45$ agli attuali 0,63$. Cos’è successo? 

Ethena e il suo token hanno decisamente attirato la nostra (e non solo) attenzione: dal 24 al 29 luglio ENA ha messo a segno un +40%. In questo articolo capiremo insieme le cause dietro questa esplosione, in modo semplice e veloce. Possiamo iniziare!

Ethena, un po’ di contesto: di cosa stiamo parlando? 

Per dirlo con le loro parole, Ethena è un protocollo su Ethereum che emette un dollaro sintetico, l’USDe, e un asset di risparmio globale in dollari, chiamato sUSDe, offrendo così soluzioni monetarie crypto-native. Ok, tanta carne al fuoco: cosa significa nel concreto tutto ciò? Vediamolo pezzo per pezzo. 

USDe

Partiamo con USDe, uno dei due prodotti principali di Ethena. Detto facile, USDe è una stablecoin ancorata al dollaro, totalmente crypto-nativa e fully-backed. Quest’ultima caratteristica, traducibile come “completamente garantita”, fa riferimento al fatto che per ogni USDe circolante esiste un valore equivalente in altri asset sottostanti: Bitcoin, Ethereum, Solana, USDT e USDC.

Il peg, cioè l’ancoraggio al prezzo del dollaro, è mantenuto grazie al delta hedging, in italiano “copertura delta”, un meccanismo dal nome complesso che in realtà è molto semplice. Immagina di essere il signor (o la signora) Ethena e possedere 1.000 USDe, che naturalmente valgono 1.000$ (1 USDe = 1$). Questi 1.000 USDe devi “coprirli”, cioè devi fornire degli asset equivalenti per valore che giustifichino il prezzo di USDe: un mix di Bitcoin, Ethereum e Solana

Domanda: cosa succederebbe se i tre asset – BTC, ETH e SOL – salissero o scendessero? Risposta: cambierebbe il valore di USDe o, in parole più difficili, il delta sarebbe positivo. Ethena, invece, vuole mantenere il delta neutro. In che modo? Aprendo delle posizioni short per ciascun asset, per lo stesso valore, non appena acquisisce questi stessi asset – come quando qualcuno deposita ETH per coniare USDe. 

Così, se il valore degli asset sale, il guadagno viene compensato dalla perdita sulle posizioni short. Viceversa, se il valore scende, la perdita sugli asset viene bilanciata dal guadagno sulle posizioni short. Il delta ora è neutro e USDe mantiene il suo valore, indipendentemente dalle fluttuazioni del mercato.  

Esempio coi numeri, per capirci: 

  • Depositi 1 ETH e ricevi 3.800 USDe (che valgono 3.800$) → delta positivo
  • Ethena mantiene il tuo 1 ETH come garanzia e, contemporaneamente, apre una posizione short su 1 ETH nel mercato dei futures, per un valore di $3.800delta negativo
  • Risultato Finale: stabilità a $3.800 perchè se ETH sale a $4.000 il tuo ETH guadagna $200, ma la posizione short di Ethena perde $200 (totale: $3.800). Se invece ETH scende a $3.600, il tuo ETH perde $200, ma la posizione short di Ethena guadagna $200 (totale: $3.800) → delta neutro.

USDtb 

Anche USDtb è una stablecoin ancorata al dollaro statunitense e basata su blockchain. La differenza fondamentale con USDe riguarda la collateralizzazione. USDtb è chiaramente fully backed proprio come USDe, ma in modo diverso: la copertura non è garantita né da dollari né da criptovalute, ma dai fondi del Tesoro USA tokenizzati. Il collaterale specifico scelto, per ora, è il fondo BUIDL di BlackRock integrato con una riserva di stablecoin – USDC e USDT – necessaria a garantire liquidità immediata per le operazioni come la conversione di USDtb in dollari USA o in altre stablecoin. 

Ora capiremo perché USDtb è la causa del pump di ENA di questi giorni.

Perchè ENA ha fatto il +40% in quattro giorni?

Innanzitutto, cos’è ENA? Molto semplicemente, ENA è il token di governance di Ethena. Gli holder di ENA, infatti, hanno diritto di voto su alcune questioni fondamentali, come le proposal relative alla tokenomics e l’elezione dei membri della Commissione del Rischio (Risk Committee), un board di sei entità, elette dagli holder di ENA due volte all’anno, che si occupa di monitorare e gestire le componenti di rischio, con un focus sulla collateralizzazione di USDe. ENA, infine, può anche essere messo in staking in cambio di sENA per generare rendimenti.  

Teoricamente, il token di governance non dovrebbe essere soggetto a variazioni di prezzo importanti, proprio perché la sua utilità è legata esclusivamente alle attività di gestione e governo del protocollo. In pratica, però, questa tipologia di token – proprio come nel caso di ENA – può mettere a segno percentuali a due cifre, verso l’alto o verso il basso. Perchè?

In primo luogo, perché avere il diritto di voto sulle proposte centrali che definiranno il futuro del progetto può essere un incentivo rilevante a detenerlo, soprattutto se si ritiene che il progetto stesso sia destinato ad occupare una posizione importante nel panorama.   

In secondo luogo perché, in modo molto “emotivo”, il token di governance beneficia del prestigio riflesso della società che rappresenta. Per dirla malissimo, ma in modo che renda l’idea, i governance token sono percepiti dagli investitori come le azioni di una società quotata in borsa: “la società sta andando bene? Penso che in futuro varrà di più? Allora compro il token di governance”. Ecco perché ENA in questi quattro giorni ha fatto un +40%. Ma ora la domanda è: perché c’è tutto questo hype su Ethena?

Ethena Labs x Anchorage Digital: una partnership storica

Giovedì 24 luglio Anchorage Digital, una piattaforma – definita anche crypto-banca – valutata circa 3 miliardi, che si occupa prevalentemente di custodia, trading istituzionale e staking di criptovalute, ha annunciato al mondo la collaborazione con Ethena.  

Volendo essere più precisi, ha comunicato il lancio del suo nuovo servizio per l’emissione di stablecoin: Ethena è il primo partner scelto per questa nuova funzionalità. Ciò che è veramente rilevante è che, attraverso Anchorage Digital, Ethena potrà finalmente emettere USDtb negli Stati Uniti e sarà la prima stablecoin totalmente conforme al GENIUS Act, una legge federale che definisce un quadro normativo completo per le stablecoin ancorate al dollaro. Questo passo, definito da molti “spartiacque”, apre la strada all’utilizzo delle stablecoin – per ora solo di USDtb – a livello istituzionale, nel framework legale istituito dal GENIUS Act. 

Arthur Hayes ci ha visto lungo

Il giorno stesso dell’annuncio, Arthur Hayes, co-founder di BitMEX e figura di rilievo all’interno dell’universo crypto, ha acquistato circa 2,16 milioni di ENA per un valore di più di un milione di dollari. Subito dopo, il token ha registrato un +8% – probabilmente anche a causa dell’effetto a catena sulla community. Al momento in cui scriviamo, ENA è su del 40% rispetto a quel giovedì 24 luglio. Giusto per non aumentare il carico di FOMO, lo stesso Hayes ha previsto che ENA potrebbe raggiungere e superare la soglia di 1$ nel breve periodo. Vedremo. 

E tu invece? Cosa ne pensi a riguardo? Hai già comprato ENA perché pensi sia l’inizio di una nuova fase? Oppure è solamente un momento di hype ingiustificato?  
Nel dubbio, iscriviti al nostro canale Telegram perchè la situazione è troppo interessante per non essere motivata. In alternativa, anche se una cosa non esclude l’altra, ENA è listata sull’exchange di Young Platform: registrati qui sotto!

Meme Stock Mania: ritorno di fiamma?

Meme Stock Mania: ritorno di fiamma?

La Meme Stock Mania sta tornando? Stiamo per rivivere l’incredibile trend del 2021? Analizzando alcune chart, sembrerebbe di sì: diamo un’occhiata!

La Meme Stock Mania è stato un fenomeno pazzesco esploso nei primi mesi del 2021, quando milioni di investitori retail si sono coordinati attraverso Reddit e X e hanno comprato in massa azioni come GameStop e AMC: lo straordinario e improvviso acquisto collettivo ha portato i titoli a guadagnare percentuali a tre cifre in pochissimo tempo, generando perdite enormi agli hedge fund che, invece, avevano aperto posizioni short. Oggi, a distanza di anni, alcune chart sembrano confermare un revival del trend. Vediamo insieme cosa sta succedendo. 

Cos’è una meme stock? E cos’è successo nel 2021? 

Prima di partire in quarta e capire cosa sta succedendo, è necessario dare rapidamente un po’ di contesto. Innanzitutto, che cos’è una meme stock? Una meme stock è una società quotata in borsa che diventa virale a causa dell’elevato interesse social – il sentiment – su di essa. Tale popolarità spinge i membri delle varie community – anche milioni di utenti – ad acquistare le sue azioni per partecipare al meme, senza analisi e valutazioni di alcun tipo. 

Ma c’è anche qualcosa di più profondo dietro questo comportamento: a differenza dei trend popolari di TikTok, come i balletti in spiaggia e i vari “ciao sono Vitalik e questo è il mio primo drink”, la viralità che una meme stock guadagna può essere supportata da motivazioni quasi ideologiche. Utilizziamo l’esempio del 2021 per spiegare questa sfumatura. 

Il destino sembrava segnato

Ti sei mai chiesto perché proprio GameStop? Cioè perché, fra migliaia di società quotate, il subreddit r/wallstreetbets abbia scelto proprio la celebre catena di negozi di videogiochi? Perché prima dell’e-commerce, GameStop era il paradiso del gamer, un posto magico dove potevi comprare il nuovo GTA o la nuova Playstation. 

GameStop, per i nati negli anni ‘80 e ‘90, è un simbolo dell’infanzia e dell’adolescenza, un luogo che porta con sé i ricordi felici del periodo più bello. 

Tuttavia, con l’avvento di internet, dello streaming e dello shopping online, sono cambiate le abitudini di consumo e i rivenditori fisici di prodotti connessi al gaming – ma non solo – sono entrati in una fase di irreversibile declino. Arriviamo a gennaio del 2021, quando i grandi fondi di investimento erano fortemente short sulle azioni di GameStop (GME), proprio perché fiutavano il collasso della società. Il crollo era questione di settimane e gli hedge fund continuavano a guadagnarci sopra. Il destino sembrava segnato

Gennaio 2021: “I like the stock”

Ma qualcosa di assurdo stava per accadere. La community di r/wallstreetbets si accorge di tutto ciò e capisce che, forse, il finale era ancora da scrivere. Era il momento di dare una lezione agli squali di Wall Street: GameStop diventa l’emblema della ribellione

In massa, migliaia di retailer iniziano a comprare azioni GME, aprono posizioni long folli, continuano ad acquistare anche quando sono in perdita. Si supportano a vicenda al suono di “HODL”, “Diamond Hands”, “I like the stock”. I migliaia diventano centinaia di migliaia, poi milioni. GME diventa virale.  

Il titolo è oggetto di una pressione al rialzo clamorosa, gli hedge fund sono costretti a chiudere le loro posizioni short con perdite di miliardi di dollari. Nel mese di gennaio, GME guadagna qualcosa come il 2.500% e le azioni passano da 4,5$ a 120$ in meno di due settimane – stiamo parlando di finanza tradizionale, non di criptovalute. Davide ha vinto contro Golia.

Qual è la situazione attuale? 

Sembra che gli investitori retail stiano tornando a coalizzarsi intorno ad alcune società con caratteristiche particolari, come nel 2021: si tratta infatti di aziende in perdita, pesantemente shortate dagli hedge fund e che negli ultimi giorni hanno visto una crescita percentuale del titolo superiori anche al 500%. Questa volta, però, non c’è di mezzo GameStop ma Opendoor Technologies, Kohl’s e Krispy Kreme. Entriamo nel dettaglio.

Opendoor Technologies (OPEN)

Le azioni di questa società, che opera nel settore immobiliare online, dal dicembre 2023 ai primi di luglio 2025 sono arrivate a perdere quasi il 90% del proprio valore, passando da circa 5$ a 0,51$. Dal 15 luglio, però, si nota uno spike nei volumi: qualcuno sta acquistando tanto. Un paio di giorni dopo arriva lo short squeeze. Il 21 luglio OPEN torna a quota 5$. In una settimana ha guadagnato il 547%. Al momento in cui scriviamo, a seguito di – prevedibili – take profit, il valore dell’azione si aggira intorno ai 2,5$

Kohl’s (KSS)

Pattern simile per quanto riguarda Kolh’s, nota catena americana di grandi magazzini: dopo aver perso l’80% del valore da dicembre 2023 ad aprile 2025, scendendo da 29,4$ a 5,6$, KSS recupera un po’ di terreno tornando a quota 9,8$. Poi il classico short squeeze con un +126% in 24 ore. Il 22 luglio un’azione KSS valeva 22$ – oggi 13,6$.  

Krispy Kreme (DNUT)

Anche qui, stesse dinamiche per le azioni di Krispy Kreme, franchise di produttori di ciambelle. Dopo più di un anno di cali in cui il prezzo del titolo scende dell’85%, da 17$ a 2,3$, a luglio DNUT ha messo a segno un +114%: solo tra il 21 e il 23 luglio, la quotazione è salita dell’85% a 5,7$, in seguito al solito short squeeze. Adesso siamo sui 4,3$.

Se torna la Meme Stock Mania ne vedremo delle belle

È molto poco probabile che si ripeterà una Meme Stock Mania paragonabile al 2021, dal momento che quella volta si percepiva un coinvolgimento veramente ideologico e identitario del “noi contro loro”, del Davide contro Golia, dei “Retards” e delle “Apes” – i folli investitori retail – contro i grandi fondi di investimento come Melvin Capital e simili. 

Tuttavia, come abbiamo appena visto, qualcosa si sta effettivamente muovendo: i piccoli trader si stanno organizzando per agire in modo coordinato, convinti che l’unione faccia la forza. Cosa ci riserverà il futuro? Non lo sappiamo, ma nel dubbio prepariamo i pop corn.

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Nasce l’America Party: Elon Musk, crypto e IA

Nasce l'America Party: Elon Musk, crypto e IA

Elon Musk fa sul serio: nasce l’America Party. L’idea di un nuovo partito, risalente a un mese fa, ora prende forma. Tra i temi centrali crypto e IA

Elon Musk sembra intenzionato a scardinare il sistema politico americano a due partiti con la creazione dell’America Party, una formazione nata “per gli americani”, in risposta alla nuova legge fiscale approvata definitivamente giovedì 3 luglio. Il partito, che avrà in Musk il suo massimo rappresentante, dovrebbe portare avanti un programma visionario, incentrato su Bitcoin e mondo crypto, riduzione del debito pubblico, intelligenza artificiale e libertà di parola. Vediamo insieme cos’è successo e cosa ha in mente l’uomo più ricco del pianeta.   

Elon Musk, prima braccio destro di Trump, ora fonda il suo partito: cos’è successo?

Con la nascita dell’America Party comincia un nuovo capitolo della saga tra Elon Musk e Donald Trump: l’uomo più ricco del mondo contro quello più potente. I due, che adesso sembrano la versione istituzionale di Tom e Jerry, non sono stati sempre così distanti, anzi. Come è noto, il multimiliardario di origini sudafricane è stato fra i maggiori supporter della candidatura a Presidente degli USA di Donald Trump, con centinaia di milioni di dollari donati in campagna elettorale. Ma com’è possibile che, nell’arco di un mese, la situazione sia degenerata nel caos più totale?

Capitolo 1: Elon Musk alza il sopracciglio e inizia a sospettare

Tutto parte il 2 aprile, il Liberation Day, ovvero il giorno in cui The Donald ha trionfalisticamente annunciato i dazi lasciando a bocca aperta i governi di tutto il mondo. A quanto pare, anche il nostro amico anarco-tecno-capitalista Elon Musk ci sarebbe rimasto molto male: per un imprenditore come lui, le tasse sono fondamentalmente quanto di più malvagio la mente umana possa concepire. Nel semi-silenzio, il seme della rivincita muskiana cominciava a germogliare. Passano due mesi, arriva il 5 giugno

Capitolo 2: la goccia che ha fatto traboccare il vaso

Donald Trump, nel prestigioso studio ovale della Casa Bianca, dice di essere “molto deluso” da Elon Musk a causa dei commenti di quest’ultimo – “è un disgustoso abominio!” – sull’imponente legge di bilancio One Big Beautiful Bill Act (OBBBA). E non ha tutti i torti: per finanziare l’OBBBA, il tetto del debito pubblico americano deve essere alzato di 5 trilioni di dollari. Parliamo di una cifra mostruosa che andrebbe a gravare su un debito pubblico già spaventosamente alto – 36,2 trilioni. Che lo spettacolo abbia inizio.

Capitolo 3: lo scontro frontale e la pace apparente

Inizia una guerra a colpi di tweet impazziti carichi di risentimento, con accuse reciproche e minacce neanche troppo velate – qui abbiamo trattato lo scontro fra Musk e Trump in modo approfondito. Inoltre, il 5 giugno stesso, il Tony Stark di Pretoria posta su X un sondaggio chiedendo ai suoi 221 milioni di follower: “È arrivato il momento di creare un nuovo partito politico in America che rappresenti davvero l’80% che sta nel mezzo?”. L’80% risponde affermativamente, il 20% no, e il 7 giugno arriva il secondo tweet: “Il popolo si è espresso. In America serve un nuovo partito politico che rappresenti davvero l’80% che sta nel mezzo!”. Intanto Musk, che era già uscito dall’amministrazione trumpiana dimettendosi dal DOGE (Department of Government Efficiency), raffredda i toni del confronto e torna a concentrarsi su Tesla e Space X. Ma la pace era solo apparente.

Capitolo 4, parte 1: l’OBBBA passa al Senato prima e alla Camera poi. Musk non ci vede più 

Siamo finalmente arrivati ai giorni nostri. Il One Big Beautiful Bill Act viene approvato dal Senato (51 a 50) e dalla Camera (218 a 214) con una maggioranza risicatissima. Elon Musk ritorna prepotentemente al centro del dibattito con una serie di tweet incandescenti: “È evidente, con la spesa folle prevista da questo disegno di legge — che innalza il tetto del debito di ben CINQUE MILA MILIARDI DI DOLLARI, un record assoluto — che viviamo in un Paese a partito unico: il PORKY PIG PARTY!!”, per citarne uno. Continuerà in questo modo per quasi una settimana, sottolineando la gravità di un debito pubblico così alto. Fino al 4 luglio.

Capitolo 4, parte 2: la nascita dell’America Party

È l’Indipendence Day negli Stati Uniti, festa nazionale importantissima che celebra l’adozione della Dichiarazione d’Indipendenza dalla Gran Bretagna e, di conseguenza, la nascita della nazione. Il nostro eroe coglie la palla al balzo per sottoporre al popolo di X un sondaggio molto simile a quello del mese prima: “Il Giorno dell’Indipendenza è il momento perfetto per chiederci se vogliamo davvero liberarci dal sistema bipartitico (o, come direbbero alcuni, monopartitico)! Dovremmo creare l’America Party?”. A cui segue il relativo esito: “Con un rapporto di 2 a 1 – 65,4% si, 34,6% no – volete un nuovo partito politico e lo avrete!” aggiungendo anche “Oggi nasce l’America Party, per restituirvi la vostra libertà”. 

Il dado è tratto. Vedremo se questo partito avrà effettivamente un peso all’interno del sistema americano o se sarà un buco nell’acqua che determinerà la fine dell’esperienza politica muskiana. Quel che è certo, è che storicamente il terzo partito ha avuto un ruolo molto poco rilevante nella politica USA e Donald Trump lo sa bene: “Penso sia ridicolo fondare un terzo partito”, ha dichiarato il POTUS nella giornata di lunedì 7 luglio. Ai posteri l’ardua sentenza. 

America Party: qual è il programma di questa nuova formazione politica?

Prima di scendere in profondità, corre l’obbligo di fare una premessa: ad oggi, l’America Party rimane un progetto, più concreto rispetto a un mese fa, ma comunque un progetto. Ogni informazione sull’ideologia, sul programma politico e sulle intenzioni deriva soprattutto dalle dichiarazioni di Musk e dal profilo “America Party” su X, account creato ai tempi del primo sondaggio e dunque non (ancora) ufficiale. Allo stesso tempo, però, riteniamo che le posizioni politiche ufficiali – nel caso in cui veramente si passasse dalle parole ai fatti – non si discosteranno troppo da quello che leggiamo ora. 

Un secondo dettaglio, importante, è relativo agli obiettivi elettorali: con l’America Party, Elon Musk non punta a diventare il 48esimo Presidente degli USA, anche perché non potrebbe, essendo nato fuori dal suolo americano. L’obiettivo è diventare l’ago della bilancia, la forza che sposta gli equilibri: “Il modo in cui romperemo il sistema monopartitico è ispirato a come Epaminonda infranse il mito dell’invincibilità spartana a Leuttra: una forza estremamente concentrata in un punto preciso del campo di battaglia”. Che cinema. In che modo? Concentrandosi sulla conquista di due o tre seggi al Senato e otto-dieci alla Camera

Il programma: riduzione del debito, deregolamentazione, nascite, IA e free speech

In ogni caso, questo partito “di centro” dovrebbe concentrarsi su sei punti in particolare, tutti estremamente coerenti con l’ideologia tecno-capitalista o tecno-libertaria, di cui Musk è uno dei massimi rappresentanti. Il primo punto riguarda la riduzione del debito pubblico e non potrebbe essere altrimenti, dato che rappresenta il fondamento stesso del partito. In secondo luogo, deregolamentare: meno impedimenti, meno burocrazia, meno Stato. Anche qui, l’indole anarco-liberista di Elon Musk lascia nettamente il segno. Tanta attenzione, poi, verrà dedicata al tema della natalità, che al nostro futuro capo popolo sta molto a cuore – così tanto da essere diventato padre di Romulus a settembre per la 14esima volta. 

Tantissimo spazio anche alla tecnologia e all’intelligenza artificiale. Cosa potevamo aspettarci, d’altronde, dal proprietario di Tesla, SpaceX, Neuralink e X? Dal real-life Tony Stark che va in giro con la maglietta “Occupy Mars” e che aveva nella bio di X “Futuro Imperatore di Marte”? Nello specifico, il percorso immaginato dovrebbe essere questo: tanta ricerca e sviluppo per migliorare la tecnologia al fine di vincere la sfida del secolo sull’IA. E tanta IA super efficiente per potenziare le capacità militari e aerospaziali. Immancabile, poi, il rimando al free speech, cioè alla libertà di parola, cavallo di battaglia della campagna MAGA di Donald Trump. E il sesto punto?

America Party e Bitcoin: una cotta che potrebbe diventare Amore con la A maiuscola

Proprio così, l’America Party e Bitcoin potrebbero dar vita a una sinergia molto interessante. Come lo sappiamo? Beh, l’ha scritto lo stesso Musk su X: alla domanda di un utente “l’America Party sosterrà/adotterà Bitcoin?”, ha risposto con un lapidario “La valuta fiat è senza speranza, quindi si”. 

La questione, va detto, non è “limitata” a Bitcoin, ma potrebbe riguardare il mondo crypto in generale. Innanzitutto, lo stretto legame tra il protagonista di questa storia e Dogecoin è di dominio pubblico, tanto che i suoi endorsement alla prima memecoin della storia hanno stravolto il mercato più e più volte – senza dimenticarci che un apparato governativo ufficiale è stato chiamato letteralmente D.O.G.E

Inoltre, l’account America Party su X segue delle personalità molto importanti all’interno dell’universo crypto, il che potrebbe già segnalarci qualcosa: tolti i vari profili collegati a Dogecoin, tra i following spiccano Michael Saylor (MicroStrategy), Arkham e Autism Capital. Infine, è già stata lanciata la crypto $AP, che dal 5 luglio al momento in cui scriviamo (7 luglio), ha messo a segno un +1200% circa, passando da 0,0025$ agli attuali 0,03$.

Ma quanto ci fanno divertire? 

Concludiamo questa ricostruzione degli eventi con una domanda semplice: ma quanto ci fanno divertire ‘sti due? Sicuramente tanto, due personaggi come Elon Musk e Donald Trump non smetteranno mai di riempire il palinsesto, come direbbe qualcuno. A parte gli scherzi, se il progetto America Party andrà in porto, sarà un’estate interessante, con continui colpi di scena, di quelli possibili solo grazie a piattaforme come X e Truth – e ai relativi fondatori, Musk e Trump.

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Cobalto: la storia di un metallo artistico

cobalto

Il cobalto è stato utilizzato per creare un colore rivoluzionario amatissimo dai pittori dal 1800 in poi: il blu cobalto. Qual è la sua storia?

Il cobalto, un metallo bianco con riflessi azzurri, ha avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’arte. Il monossido di cobalto, infatti, è un ingrediente fondamentale per la realizzazione del blu cobalto, un colore che ha affascinato generazioni intere di pittori, soprattutto quelli della corrente impressionista. Qual è la sua storia? E quali altri casi d’uso possiede?

Cobalto: l’identikit 

In questa sezione, prima di partire con contenuti più leggeri e artistici, forniremo l’identikit di questo particolare metallo: che cos’è, chi lo controlla e perché è importante.

Che cos’è il cobalto?

Il cobalto è un metallo bianco argenteo che, in casi estremi, può essere anche blu. Il nome sarebbe associato al medico e alchimista svizzero Paracelso, che coniò il termine latino cobaltum a partire dal tedesco kobalt. Questa parola veniva utilizzata dai minatori tedeschi per descrivere dei “folletti”, accusati di scambiare i metalli preziosi con dei metalli inutili, come nel caso del cobalto con l’argento (molto simili esteticamente).

Dove si trova il cobalto? 

Il cobalto, tanto nell’estrazione quanto nella raffinazione, è concentrato nelle mani di pochissimi attori. Per quanto riguarda l’estrazione, i top 3 detengono l’81% della quota mondiale delle attività a essa connesse, con la Repubblica Democratica del Congo in prima posizione assoluta. Lo stato centrafricano, infatti, nel 2024 ha prodotto 182 kt (una kilotonnellata equivale a un milione di kg) di cobalto mentre la seconda, cioè l’Indonesia, è arrivata “solo” a 33 kt. In terza e ultima posizione troviamo la Russia, con 6 kt estratte l’anno scorso. 

Una volta estratto, il cobalto deve ovviamente essere raffinato. Qui la concentrazione è ancora maggiore: la top 3 delle nazioni raffinatrici è responsabile dell’89% dei processi di raffinazione. In questa classifica, al primo posto troviamo la Cina, che nel 2024 ha raffinato 196 kt di cobalto, ovvero più del 70% del totale estratto a livello mondiale. Sul secondo gradino del podio c’è la Finlandia, con 20 kt, mentre la terza posizione se la prende il Giappone, con circa 6 kt.  

Sulla base di questi dati, si potrebbero aprire mille discorsi relativi ai rischi di tale accentramento sulla catena di approvvigionamento, di cui parleremo nell’ultimo paragrafo. 

A cosa serve il cobalto?

Tra le principali applicazioni troviamo sicuramente il settore energetico, che attualmente è il traino principale della domanda globale: viene utilizzato principalmente nelle batterie ricaricabili ed è un componente cruciale per le batterie agli ioni di litio, fondamentali per il funzionamento di veicoli elettrici, smartphone e computer portatili. 

Il cobalto viene anche impiegato nel settore aerospaziale e della difesa, poiché le leghe a base di questo metallo sono iper resistenti al calore, alla corrosione e al deterioramento. Nello specifico, sono usate per la progettazione di turbine per motori a reazione, di componenti di veicoli spaziali e, in generale, per i materiali con applicazione militare.  

Un altro caso d’uso è relativo all’ambito medico: le leghe di cobalto-cromo sono biocompatibili e resistenti all’usura, per cui hanno le caratteristiche adatte per essere delle protesi perfette, tanto a livello ortopedico (ginocchio e anca) quanto dentistico (corone e impianti dentali). 

Passiamo adesso a temi più rilassanti: il cobalto nell’arte.

Blu cobalto: un colore che ha fatto la storia

Il blu cobalto è un colore che viene inventato nei primi anni dell’800, in Francia, per motivi artistici, ovviamente, ma anche e soprattutto economici. Fino a quel momento, infatti, il blu non era un colore così “democratico”: il blu più utilizzato – il migliore per qualità e per effetto desiderato – era il cosiddetto blu oltremare. Questa tonalità, considerata il blu per antonomasia, era estremamente costosa poiché ottenuta attraverso la lavorazione dei lapislazzuli, pietre preziose importate dalle miniere afghane – per questo “oltremare” – e pagate letteralmente a peso d’oro

I costi erano tanto proibitivi che i pittori dell’epoca si limitavano ad utilizzarlo per opere importanti e, quando potevano, lo sostituivano con un pigmento simile più economico, l’azzurrite. Naturalmente, l’effetto ottenuto era nettamente differente – come bere un Campari Spritz fatto con un Campari “finto”, pagato un terzo rispetto all’originale. Era quindi necessario trovare un altro blu, che avesse le stesse caratteristiche del blu oltremare ma con costi ridotti. Arriva il momento della svolta

Perché e come nasce il blu cobalto?

Grazie alla richiesta che il Ministro degli Interni francese Jean-Antoine Chaptal fece al celebre chimico Louis-Jacques Thénard. Il ministro chiese al chimico di risolvere questo problema del blu, trovando un equivalente economico al blu oltremare. Thénard si mise all’opera e nel 1802 scoprì che, attraverso la sinterizzazione del monossido di cobalto con l’ossido di alluminio a 1200 °C, si poteva ottenere una miscela che rispondeva al desiderio del Ministro degli Interni. 

Da quel momento, gli artisti dell’epoca ebbero la possibilità di sperimentare utilizzando un colore che, fino a qualche attimo prima, non poteva essere sprecato. L’importanza di avere a disposizione grandi quantità di blu cobalto è tale che il celebre pittore Pierre-Auguste Renoir affermò (o almeno così si crede): “una mattina, siccome uno di noi era senza il nero, si servì del blu: era nato l’Impressionismo”. Una cosa del genere sarebbe stata impossibile col blu oltremare. 

Monet e lo stesso Renoir iniziarono ad utilizzare stabilmente il blu cobalto per le ombre, abbandonando il nero. Oltre l’Impressionismo, altri importanti pittori fecero uso di questa tonalità di blu nei loro capolavori: Van Gogh ne “La Notte Stellata”, Kandinsky ne “Il Cavaliere Azzurro”, Miró nel suo “Figure di Notte guidate da tracce fosforescenti di lumache”, per citarne alcuni. Una vera e propria rivoluzione. 

Una riflessione interessante: cosa lega il cobalto a Bitcoin? 

Al di là dell’arte, la storia del cobalto ci mette di fronte a una riflessione che, per certi versi, potrebbe confermare qualcosa che a noi di Young Platform sta molto a cuore: come anticipato sopra, il tema è relativo all’accentramento della catena di approvvigionamento e ai rischi che tale oligopolio porta con sé. In sintesi, si tratta del parallelismo tra il passaggio dal blu oltremare al blu cobalto e la transizione dal gold standard al sistema a valuta fiat. Ma procediamo per gradi. 

Dal blu oltremare al blu cobalto

Abbiamo visto che l’introduzione del blu cobalto nel 1802 ha avuto ricadute positive sul mondo artistico, dal momento che ha reso possibile la sperimentazione a basso costo di un colore considerato, fino a quel momento, abbastanza elitario. Tuttavia questa gradazione, molto utilizzata anche ai giorni nostri, è fortemente legata all’estrazione e alla raffinazione del cobalto, concentrata nelle mani di pochissimi attori

Tolta la questione etica, importantissima, legata allo sfruttamento del lavoro minorile e alla violazione dei diritti umani, che Repubblica Democratica del Congo e Cina, purtroppo, sembrano ignorare, consideriamo i meri aspetti logistici: quella del cobalto è una filiera in cui la totalità delle attività di estrazione e di raffinazione è concentrata, rispettivamente, per l’81% e per l’89% nelle mani di tre attori. Una situazione del genere, come vuole la teoria della diversificazione, è molto pericolosa perché rende il sistema vulnerabile agli shock, sia endogeni che esogeni. Infatti, eventi legati all’instabilità politica o alle questioni di economia interna da una parte, e ai disastri naturali o alle guerre dall’altra, potrebbero causare l’interruzione della fornitura a livello globale proprio perché i distributori della stragrande maggioranza del prodotto sono letteralmente tre. Il risultato, quindi, è una pesante dipendenza dell’industria globale da pochi attori, capaci di fare il bello e il cattivo tempo. 

Dal Gold Standard al Fiat Standard

Allo stesso modo, con l’annuncio del Presidente americano Richard Nixon il 15 agosto del 1971 – il Nixon Shock – si decretò la fine del Gold Standard, cioè si ebbe la fine della convertibilità del dollaro statunitense in oro, e si passò a un sistema basato sulla valuta fiat. Tale sistema, tuttora vigente, fa sì che il valore della valuta in questione, come potrebbe essere il dollaro USA, sia sostenuto esclusivamente dalla fiducia economica e politica di cui gode il governo emittente, nel nostro caso quello americano.

Questo passaggio, così come nel caso precedente, in qualche modo creò una situazione più “democratica” e discrezionale: se prima i governi facevano molta fatica nel finanziare grandi progetti di spesa pubblica, poiché vincolati al sottostante aureo, adesso hanno il controllo totale della moneta circolante e possono permettersi una maggiore flessibilità nella gestione dell’economia. Ma anche qui, seguendo la stessa logica di prima, c’è un tema legato all’accentramento, dal momento che il potere monetario, inteso come la capacità di controllare e gestire la politica economica, è concentrato nelle mani di pochi attori, le banche centrali – come la Federal Reserve o la Banca Centrale Europea

Tale centralizzazione, per quanto efficace nel regolare inflazione e scenari di crisi, non è assolutamente priva di rischi e, soprattutto, si basa molto sulla componente umana, fallace per definizione, come dimostrato durante la crisi dei mutui subprime del 2008. Il risultato finale è che, spesso, l’economia mondiale può muoversi in diverse direzioni in funzione delle decisioni di un manipolo di alti funzionari. Quando va bene, evviva! Ma quando va male? 

La morale della favola: Bitcoin e decentralizzazione

La concentrazione di tanto potere in poche mani non è mai una cosa buona. Politica, economia, finanza, riunioni di condominio, gruppi di progetti universitari e squadre di calcetto funzionano male quando un’unica entità decide per tutti. Bitcoin nasce proprio per questa ragione: restituire il potere agli individui ed eliminare gli attori centrali ingombranti, o comunque ridurne l’autorità decisionale; sfruttare la decentralizzazione per creare un sistema democratico, dove ci si interfaccia tra pari senza la necessità di intermediari che, in qualche modo, decidano per il singolo o ne condizionino le scelte. Naturalmente, questa è solamente una tra le qualità e i casi d’uso di Bitcoin nel mondo reale. Se questa introduzione ti ha fatto scattare qualcosa, il consiglio è di dare un’occhiata a quanto abbiamo scritto sulla storia e sul funzionamento di BTC, per avere un’idea chiara e completa sulle potenzialità rivoluzionarie della regina delle criptovalute. 

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USA-Iran: la guerra si allarga? Occhio ai mercati

USA-Iran: la guerra si allarga? Occhio ai mercati

Gli USA attaccano l’Iran bombardando i siti nucleari: cos’è successo? Cosa ne pensano i mercati? Occhio al comportamento di Bitcoin! Qui il focus

Gli Stati Uniti hanno bombardato i siti nucleari iraniani nella notte italiana tra sabato 21 e domenica 22 giugno, entrando nel conflitto a fianco di Israele. In questo articolo cercheremo di capire cosa è successo, quali potrebbero essere le conseguenze e, soprattutto, come hanno reagito i mercati finanziari. E attenzione a Bitcoin! 

Gli Stati Uniti sono entrati in guerra contro l’Iran? 

Nella notte italiana tra sabato 21 e domenica 22 giugno, gli Stati Uniti hanno portato a termine la missione segreta “Martello di Mezzanotte” (Midnight Hammer), bombardando i siti nucleari iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan. L’attacco ha visto l’azione coordinata dell’aviazione e della marina militare americane ed è stato eseguito in circa 18 ore, in modo estremamente chirurgico. Se non hai la minima idea di cosa stiamo parlando, innanzitutto iscriviti al nostro canale Telegram, perché su certe cose occorre essere sul pezzo. Poi, mettiti comoda/o che ora ripercorriamo al volo gli ultimi avvenimenti.   

Perché gli Stati Uniti hanno bombardato l’Iran? 

La risposta è molto semplice: per neutralizzare le strutture in cui la Repubblica islamica dell’Iran, da anni, sta arricchendo l’uranio. Ora, arricchire l’uranio non significa necessariamente costruire un ordigno atomico, dal momento che l’energia nucleare, come sappiamo, viene utilizzata principalmente per scopi civili. 

Per esempio, l’uranio a basso arricchimento (LEU, Low Enriched Uranium), arricchito al 3-5%, è largamente impiegato come combustibile per le centrali nucleari, mentre già l’uranio ad alto arricchimento (HEU, Highly Enriched Uranium), arricchito oltre per oltre il 20%, è considerato weapon-usable”, cioè utilizzabile per le armi o, in generale, per il settore militare. Infatti, i reattori che alimentano la propulsione di sottomarini e portaerei nucleari, spesso fanno uso di uranio arricchito dal 50% al 90%. La Repubblica islamica, secondo l’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), aveva raggiunto un livello di arricchimento superiore al 60% – lo standard attuale per le armi nucleari statunitensi è al 93,75% –  soprattutto nella struttura di Fordow, considerata la più importante. Questo impianto, però, era già stato preso di mira dall’IAF (Israeli Air Force) nella notte tra il 12 e il 13 giugno. Allora passiamo alla seconda domanda.

Perché è stato necessario l’intervento degli Stati Uniti?

La risposta qui è un po’ più complessa: a causa dell’architettura della centrale di Fordow. Questo impianto, infatti, è unico nel suo genere e totalmente diverso dagli altri che abbiamo menzionato. Lasciando da parte le specifiche tecniche relative ai processi di arricchimento, la struttura di Fordow differisce dalle altre perché è stata costruita dentro una montagna. Questo dettaglio è cruciale perché, insieme alla contraerea iraniana, protegge gli scienziati nucleari e i costosissimi strumenti dai potenziali raid israeliani. È qui che subentrano gli USA.

L’esercito degli Stati Uniti è l’unico al mondo a possedere delle bombe progettate per penetrare fino a 60 metri di profondità ed esplodere una volta entrate nella struttura sotterranea: pesano circa 30.000 pound – 13.600 kg – e si chiamano GBU-57 MOP “bunker buster” (anti-bunker). Inoltre, la USAF (United States Air Force) è anche l’unica in grado di trasportare questi ordigni, grazie ai celebri bombardieri stealth B-2 Spiritstealth perché sono invisibili ai radar. 

Arriviamo al momento dell’operazione Midnight Hammer. Sette bombardieri B-2 Spirit si alzano in volo verso l’Oceano Pacifico, in quello che poi è stato definito un depistaggio: l’obiettivo era far credere agli iraniani che le destinazioni fossero Guam e Diego Garcia, basi militari americane situate rispettivamente nell’Oceano Pacifico e Indiano. Arriva il cambio di rotta, i B-2 adesso viaggiano verso Est, attraversano l’Oceano Atlantico e giungono sopra l’Iran dopo quasi 18 ore di volo ininterrotto, scortati dai caccia dell’aeronautica americana. Una volta vicini a Fordow e Natanz, i B-2 sganciano 14 di queste letali bombe e, nel mentre, un sottomarino della marina USA appostato nel Golfo Persico lancia 20 missili Tomahawk contro la centrale nucleare di Isfahan. Da quanto si legge, la contraerea iraniana non ha sparato neanche un colpo per difendersi. 

L’esito dell’operazione è ancora incerto. Donald Trump e la sua amministrazione, ovviamente, hanno parlato di successo totale e danni “monumentali”, mentre la controparte iraniana ha dichiarato che gli strumenti per l’arricchimento dell’uranio erano già stati spostati in un altro luogo segreto, sconosciuto a USA, Israele e AIEA. I primi report dell’intelligence americana, però, mostrano come l’attacco non abbia distrutto gli impianti come sperato, ma abbia solamente provocato danni tali da ritardare le operazioni nucleari di qualche mese .  

Cosa è successo dopo i bombardamenti USA?

Gli iraniani, naturalmente, hanno promesso una vendetta eterna e il Ministro degli Esteri ha parlato di “superamento della linea rossa”: le forze militari dell’Ayatollah Khamenei – guida suprema della Repubblica Islamica dell’Iran – hanno reagito con un attacco missilistico alla base americana in Qatar. La cosa curiosa è che prima dell’offensiva, il Qatar è stato avvertito proprio dagli ufficiali iraniani. Gli americani hanno quindi avuto tutto il tempo di evacuare il personale militare e preparare al meglio le difese. La risposta iraniana, infatti, è stata facilmente neutralizzata. 

Lato Stati Uniti, le dichiarazioni di queste ore sembrano indicare la volontà di non essere coinvolti in questa guerra. A quanto sembra, gli USA intendevano eseguire l’operazione Martello di Mezzanotte e ritornare nella loro posizione, senza intraprendere ulteriori azioni militari. Tuttavia, nella giornata di domenica, Donald Trump sul suo social Truth ha parlato di cambio di regime – il rovesciamento della dittatura islamica in Iran – scrivendo che “Non è politicamente corretto usare il termine “cambio di regime”, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di RENDERE L’IRAN DI NUOVO GRANDE, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime??? MIGA!!!”. Il giorno dopo, sempre su Truth, il POTUS ha dichiarato al mondo che il cessate il fuoco era in vigore, “ordinando” alle parti in causa di rispettarlo. 

Qualche ora dopo, Israele e Iran hanno ripreso a scambiarsi missili, ignorando totalmente quanto detto dal Presidente degli Stati Uniti, che ha reagito in modo visibilmente arrabbiato: “Sono due nazioni che si combattono da talmente tanto tempo, che non sanno più che c***o stanno facendo!”. Cinema totale. Adesso, però, sembra che effettivamente i due paesi abbiano messo la parola fine agli scontri. 

Il resto del mondo, ovviamente, ha condannato quanto accaduto e sta a guardare nell’attesa di capire come si comporteranno gli attori coinvolti in questa guerra, già ribattezzata la “guerra dei 12 giorni”. 

Come hanno reagito i mercati?

In primo luogo, diamo uno sguardo al petrolio, materia prima che più di tutte subisce gli effetti di quanto accade in Medio Oriente. Il prezzo del Brent e del WTI – per chiarimenti rimandiamo all’articolo sulle previsioni del prezzo del petrolio – all’inizio della giornata di lunedì 23 giugno, subito dopo l’attacco USA, hanno raggiunto i massimi da gennaio 2025, toccando rispettivamente 81,40$ e 78,40$, per poi ritracciare e oscillare fra territorio positivo e negativo.

La cosa incredibile, è che dal 23 al 25 giugno – momento in cui scriviamo — Brent e WTI hanno perso rispettivamente il 17,6% e il 16,6%, attestandosi sui 67$ e i 65,3$ dollari per barile. Movimenti così repentini verso il basso stanno a indicare che gli attori finanziari sono molto ottimisti e non pronosticano un’interruzione forzata delle forniture mondiali di petrolio e gas naturale liquido. Tutto dipenderà dai prossimi avvenimenti. 

Vediamo ora i principali listini in giro per il mondo. 

Le borse asiatiche

Partendo dal Giappone, Tokyo chiude in positivo, mettendo a segno un +0,39%. Stesso discorso per la Cina, con Shanghai e Hong Kong che aprono e terminano la sessione in positivo, chiudendo rispettivamente a +1,04% e +1,23%.

Le borse europee

Un po’ di calma piatta per le borse del Vecchio Continente, che si oscillano fra rosso e verde, rimanendo comunque vicine alla parità. Al momento in cui scriviamo, la peggiore è Francoforte, che nella giornata di oggi viaggia in territorio negativo perdendo lo 0,20%. Seguono Parigi con un +0,03%, Londra con un +0,05% e Milano, che mette a segno un +0,17%.  

Le borse americane

Per quanto riguarda Wall Street, essendo in questo momento ancora chiusa, faremo riferimento alla chiusura di ieri, martedì 24 giugno: l’S&P500 ha guadagnato l’1,11%, il Dow Jones l’1,19% e il Nasdaq, che ha chiuso meglio degli altri, un +1,43%. Anche qui, l’attacco degli Stati Uniti alle strutture nucleari iraniane non sembra aver generato troppa preoccupazione, anzi. 

Come si sta comportando Bitcoin?

Incredibilmente bene, anche se, stando allo storico, dovremmo smettere di utilizzare la parola “incredibile” e, al contrario, iniziare ad abituarci. Bitcoin sta dimostrando, evento dopo evento, di essere un asset che resiste e reagisce alle crisi e agli shock esterni in modo eccezionale. Questa resilienza potrebbe essere la conseguenza di una sempre più diffusa presa di consapevolezza tra singoli individui, aziende e investitori istituzionali, che Bitcoin rappresenti un rifugio – o, per dirla in modo coerente, un ₿unker – contro questo tipo di situazioni.

Volendo prendere giusto un paio di esempi, come il Covid Crash e l’invasione russa dell’Ucraina – trovi più informazioni sul nostro account Instagram – dopo sessanta giorni, Bitcoin aveva rispettivamente guadagnato il 21% e il 15%. Se prendiamo invece S&P500 e oro, a parità di situazioni, in occasione del primo evento, l’uno aveva messo a segno un +2% e l’altro un +3%, mentre nel secondo caso si parla, nell’ordine, di +3% e addirittura -9%

Questo comportamento si sta verificando anche nel caso dell’intervento USA in Iran: un’azione militare di questa portata, in teoria, avrebbe potuto generare il panico nei mercati finanziari, a causa del suo carattere improvviso e fortemente aggressivo. Il grafico, però, parla chiaro. Bitcoin, dopo aver perso circa il 5% nella notte fra domenica 22 e lunedì 23 giugno, arrivando a toccare i 98.000$, adesso si aggira intorno ai 106.000$. Ciò significa che dal bottom di lunedì, BTC ha rimbalzato recuperando la perdita e guadagnando l’8,8%. 

È chiaro che la correlazione non indica necessariamente causalità, dato che è possibile che siano intervenuti altri fattori contestuali. Tuttavia, ha senso iniziare a ragionare in questi termini: Bitcoin si starebbe affermando come un “coltellino svizzero” dell’economia globale, cioè come uno strumento utile per ogni imprevisto, economico o geopolitico. Ci stai facendo un pensiero? Dai un’occhiata a Bitcoin e alle criptovalute cliccando qui sotto.

Non fartelo raccontare, i “te l’avevo detto!!!” non piacciono a nessuno.

Litio: a cosa serve? Batterie, farmaci e utilizzi

Litio: a cosa serve? Batterie, farmaci e utilizzi

A cosa serve il litio? Cosa sono le batterie al litio? Come funziona il litio come farmaco? Scopriamo insieme perché questo metallo è così richiesto!

Il litio è un metallo color bianco-argentato che, negli ultimi anni, è diventato una risorsa critica estremamente richiesta dalle super potenze mondiali e non solo. I motivi dietro a questa crescita incredibile della domanda sono da ricercare nei suoi molteplici casi d’uso: batterie, farmaci, ceramiche, grassi lubrificanti e altro ancora. In questo articolo partiremo alla scoperta di un minerale diventato così popolare nel giro di pochissimi anni. Iniziamo!

Litio: che cos’è, chi lo controlla e chi lo se lo contende

Il litio è il metallo alcalino più leggero e meno denso sulla Terra, di colore bianco-argentato che, a contatto con acqua o aria, si ossida e prende una colorazione più scura. Presenta delle caratteristiche fisiche particolari che lo rendono estremamente richiesto in ambiti differenti, come vedremo in seguito. Tra queste, leggerezza, alta densità energetica – cioè la capacità di immagazzinare molta energia in poco spazio – e reattività sono le più importanti per il mondo dell’industria. 

Ma come funziona la filiera del litio? Qual è la geopolitica dietro questo metallo? Per rispondere a queste domande, abbiamo letto e studiato il report della AIE (Agenzia Internazionale dell’Energia) dal titolo “Global Critical Minerals Outlook”, pubblicato a maggio 2025. Cosa ci dicono gli esperti?

Chi sono i produttori principali di litio?

Il primo dato rilevante che ci fa capire l’importanza di questo metallo riguarda la sua produzione: nel 2024, l’estrazione globale di litio ha registrato un aumento significativo, pari o addirittura superiore al 35%, per un totale di 255 kilotonnellate (kt) – per fare un paragone, il grattacielo più alto del mondo, il Burj Khalifa, pesa circa 110 kt. La top 5 dei maggiori produttori di litio nel mondo è insolita, perché include delle nazioni di cui non si sente parlare spesso. 

Infatti, al primo posto troviamo l’Australia che, con 90 kt di litio estratto nel 2024, si prende la medaglia d’oro per distacco. Distacco che, secondo l’AIE, è destinato ad aumentare: entro il 2030 si prevede che il mining di questo metallo crescerà di un ulteriore 30/35%, raggiungendo quota 124 kt. Il secondo posto se lo prende la Cina, con 57 kt nel 2024, mentre l’ultimo gradino del podio spetta al Cile, che l’anno scorso ha prodotto 49 kt di litio, guadagnando lo status di produttore dominante dell’America centro-meridionale. Per il quarto posto dobbiamo spostarci nel continente africano, più precisamente in Zimbabwe con 23 kt all’attivo. Infine, in ultima posizione c’è un’altra nazione sudamericana, l’Argentina, che ha ricavato 13 kt di litio dalle sue miniere. In merito, l’AIE ci comunica che questo paese ha aumentato la produzione del 65% nel 2024, con l’obiettivo di diventare, nel 2030, un attore ancora più importante. 

Un altro dato da menzionare riguarda la concentrazione delle attività di estrazione: se nel 2024 i primi tre produttori erano responsabili del 77% della produzione mondiale di litio, entro la fine di questo decennio, l’AIE prevede che la quota scenderà al 67%. Un cambiamento del genere indica una certa diversificazione geografica, frutto della volontà diffusa di entrare in questo mercato. Gli analisti ritengono che, entro il 2030, la parte prodotta dal “resto del mondo” passerà dagli attuali 17 kt a 49 kt. Inoltre, la quantità di litio estratto a livello globale raddoppierà nei prossimi cinque anni, arrivando a un totale pari a 471 kt

Una volta estratto il litio, chi si occupa della raffinazione?

Nel 2024, secondo il report, la produzione globale di prodotti chimici raffinati è stata pari a 242 kt. La discrepanza fra il litio estratto (255 kt) e quello raffinato, naturalmente, è dovuta alle inefficienze intrinseche e inevitabili dei processi di purificazione. In ogni caso, queste attività sono concentrate per il 96% nei primi tre paesi della classifica dei raffinatori, ma si ritiene che entro il 2030 l’oligopolio perderà qualche quota, scendendo all’85%. A proposito di classifica, vediamo la top 5.

Al primo posto c’è la Cina, in posizione di dominio assoluto, che nel 2024 ha lavorato 170 kt di prodotti chimici di litio: da sola, la Repubblica popolare controlla il 70% della raffinazione totale a livello mondiale e non intende fermarsi, dato che al 2030 questa cifra dovrebbe salire a 277 kt. Il secondo posto va all’Argentina, che raffina la stessa quantità di litio che estrae, cioè 13 kt. Medaglia di bronzo per l’Australia, nazione che, a quanto pare, ha interesse solo nell’estrazione. Nella fantastica terra dei canguri, infatti, viene raffinato solo il 4,5% del litio raccolto, cioè 4 kt. In quarta posizione troviamo a pari merito Stati Uniti e Corea del Sud, con 3 kt di litio a testa. Con 1 kt prodotto nel 2024, l’ultimo posto di questa speciale classifica va al Giappone.

Tornando rapidamente alla Cina, l’AIE afferma che il Dragone, nonostante abbia un quasi-monopolio dei processi di raffinazione, in dieci anni potrebbe perdere una fetta rilevante di mercato. Nello specifico, la quota potrebbe passare dal 70% al 60% entro il 2035. Questo anche perché, sempre secondo le previsioni, l’Argentina e gli Stati Uniti dovrebbero aumentare i kt di litio raffinati, rispettivamente, del 270% e dell’800% – cioè da 13 a 49 kt e da 3 a 27 kt.

Il mercato del litio: qual è la domanda? 

Nel 2024, il litio ha visto una crescita della domanda del 30%: il settore energetico, ovviamente, ha trainato questo incremento, proprio per il ruolo fondamentale che questo metallo ricopre nella costruzione di batterie, macchine elettriche e componenti per le rinnovabili

Per quanto riguarda la domanda nel futuro, l’AIE immagina tre differenti tipi di scenario con tre differenti tipi di output. Gli scenari in questione sono chiamati STEPS, APS e NZE: lo scenario STEPS (Stated Policies Scenario o Scenario delle Politiche Dichiarate), è lo scenario base e rappresenta il futuro come la prosecuzione del presente, col mantenimento delle attuali politiche energetiche; lo scenario APS (Announced Pledges Scenario o Scenario delle Promesse Annunciate) presuppone che i governi raggiungano i loro obiettivi in materia energetica e climatica, come l’abbandono dei combustibili fossili e l’aumento delle energie rinnovabili; lo scenario NZE (Net Zero Emission) raffigura un futuro in cui il settore energetico globale ha raggiunto l’obiettivo di emissioni nette zero, entro il 2050.

Nel primo scenario – STEPS – la domanda di litio dovrebbe passare a 700 kt entro il 2035 e a 1.160 kt entro il 2050, crescendo quindi di quasi cinque volte rispetto al 2024. Nel secondo e terzo scenario – APS e NZE – la domanda sarebbe più alta, nell’ordine, del 30% e del 20% rispetto allo scenario base, arrivando quindi a 1.500 kt e 1.400 kt

E il prezzo? 

Il prezzo del litio è un tema che a prima vista può sembrare controintuitivo: dal 2023, il valore di questo metallo è diminuito dell’80%. Allora uno potrebbe chiedersi come possa essere possibile, dato che c’è stato un incremento di domanda del 30% nel solo 2024 e che nei prossimi venti anni la richiesta quintuplicherà. La risposta, come la legge della domanda e dell’offerta vuole, è proprio nell’offerta, che è cresciuta a dismisura ed è destinata a continuare su questo trend.

Il litio è il 25esimo materiale più abbondante sulla Terra e, al contrario dell’oro e di Bitcoin, non è scarso. Ciò vuol dire che se la domanda sale, anche del 30% in un anno, l’offerta si adegua più o meno agilmente e il prezzo rimane stabile o addirittura scende, nel caso di sovrapproduzione. Ma comunque, volendo dare due numeri, il costo del litio in una batteria tipica da 57 kWh – una batteria di un’auto elettrica comune di medie dimensioni – è calato da 67$ a 15$.   

Dato che si parlava di batterie e auto elettriche, passiamo alla prossima sezione, quella dei principali casi d’uso.

A cosa serve il litio? I principali casi d’uso

Il litio, come abbiamo sottolineato più volte, deve la sua popolarità principalmente al settore energetico, primo motore della domanda, in particolare per le batterie delle auto elettriche. Esistono, però, anche altre applicazioni, meno conosciute ma comunque fondamentali. L’industria farmaceutica, ad esempio, utilizza il litio come farmaco nel trattamento di alcuni disturbi psichiatrici, mentre il settore manifatturiero lo impiega nella lavorazione del vetro e della ceramica, ma anche nella lubrificazione dei macchinari. Vediamo caso per caso. 

Cosa sono le batterie al litio?

Le batterie al litio, o più correttamente le batterie agli ioni di litio, sono batterie estremamente funzionali perché più piccole, più leggere e allo stesso tempo più potenti delle batterie tradizionali, come quelle al piombo. Questo tipo di batteria rappresenta un’innovazione così importante che nel 2019 i suoi tre inventori hanno ricevuto il Premio Nobel per la Chimica

Oggi le batterie al litio alimentano smartphone, pc portatili, auto elettriche e altro ancora proprio perché questo metallo possiede una caratteristica fisica particolare che costituisce un vantaggio rilevante nei confronti dei suoi competitor: l’alta densità energetica. Detto facile, ciò vuol dire che, a parità di peso o volume, le batterie al litio riescono a conservare e rilasciare molta più energia rispetto alle batterie più datate e convenzionali. In più, sono ricaricabili. Una vittoria su tutti i fronti. 

Come funziona una batteria al litio? Senza andare troppo nello specifico, queste batterie funzionano grazie agli ioni di litio – motivo per cui è più corretto chiamarle batterie agli ioni di litio: uno ione, in due parole, è un atomo che ha perso un elettrone e che, quindi, assume una carica positiva. La batteria, poi, è composta da due elementi principali, ovvero il catodo e l’anodo. Quello che succede, spiegato in modo molto semplice, è che gli ioni di litio, durante la fase di scarica in cui la batteria fornisce energia, si muovono dall’anodo al catodo generando elettricità

Insomma, grazie all’invenzione di tre scienziati, adesso siamo in grado di produrre strumenti tecnologici sempre più compatti, leggeri ed efficienti. 

Il litio come farmaco 

Il litio nella medicina viene utilizzato principalmente per il trattamento del disturbo bipolare, una condizione psichiatrica caratterizzata da cambiamenti estremi dell’umore, per cui il paziente alterna stati di forte euforia e irritabilità – gli episodi di mania e ipomania – a periodi di profonda depressione. Questo particolare metallo, grazie alle sue proprietà, viene impiegato per ridurre quanto più possibile gli switch tra i due stati d’animo e, quindi, stabilizzare l’umore

L’efficacia del litio come farmaco in questo ambito viene scoperta alla fine degli anni ‘40 da John Cade, uno psichiatra australiano, quando fu catturato dai giapponesi durante la guerra: il medico si accorse che alcuni suoi compagni di cella, a causa della scarsa alimentazione, mostravano reazioni insolite a livello comportamentale. Al termine del conflitto mondiale, Cade riprese gli studi e scoprì che il carbonato di litio aveva un effetto calmante sulle cavie da laboratorio. Provò questo composto chimico anche su se stesso e su dieci pazienti e, documentando il trattamento, notò miglioramenti importanti sullo stato psichiatrico dei soggetti.

La scoperta, però, passò inosservata ma venti anni dopo lo psichiatra danese Mogens Schou, decise di riprendere in mano la scoperta e validarla a livello scientifico, seguendo le procedure del metodo sperimentale. Nel 1970, finalmente, la ricerca venne revisionata, accettata e quindi validata: il litio era senza dubbio un farmaco efficace per il trattamento del disturbo bipolare. 

Litio: effetti collaterali

Il litio, come ogni farmaco, non è privo di effetti collaterali. Tra quelli meno gravi, che non richiedono l’intervento istantaneo del medico, troviamo mal di stomaco, indigestione, perdita o aumento di peso, labbra gonfie, salivazione eccessiva e prurito. Ci sono poi altri effetti tali per cui è consigliato rivolgersi rapidamente a un medico, come forte sete, gonfiore alle gambe, difficoltà di movimento e svenimenti, anomalie del battito cardiaco e mal di testa forte. Infine, quelli che richiedono l’intervento immediato di un dottore: vertigini gravi e vista appannata, parlata confusa, forte sonnolenza, nausea e vomito. 

Altri casi d’uso 

Il litio, come già abbiamo anticipato, è utilizzato anche in altri settori, come quello manifatturiero, industriale e chimico. Vediamo alcuni esempi: 

  • Vetro e ceramiche: il litio viene impiegato per abbassare la temperatura di fusione di vetri e ceramiche, con notevoli risparmi energetici e, quindi, economici. Ha anche effetti positivi sulla resistenza, la durabilità e la lucentezza dei prodotti finali.
  • Grassi lubrificanti: i settori industriale e automobilistico fanno uso di grassi lubrificanti che contengono litio, perché estremamente resistenti all’acqua e alle alte temperature. 
  • Chimica organica e polimeri: alcuni composti del litio sono utilizzati con frequenza dalle industrie chimiche per via della loro qualità di potenti reagenti. In particolare, sono fondamentali per la realizzazione della gomma sintetica.

Siamo giunti al termine di questo lungo viaggio alla scoperta di questo metallo e dell’infrastruttura alla base della sua produzione, raffinazione, distribuzione e domanda. Il litio rimarrà così importante nel futuro? Verrà sostituito da altre tecnologie? Iscriviti al nostro canale Telegram o qui sotto a Young Platform per non perderti gli aggiornamenti!

Investimenti: 5 falsi miti da sfatare

Investimenti: 5 falsi miti

Sai che non è vero che per investire bisogna, per forza, seguire con costanza i mercati? Scopri i 5 falsi miti più diffusi sugli investimenti

Quali sono i falsi miti per gli investitori attivi sui mercati? Il pane integrale ha meno calorie di quello normale, i carboidrati la sera fanno ingrassare e i cani vedono il mondo in bianco e nero. Un classico. I falsi miti costellano la nostra quotidianità fino a quando, all’improvviso e a volte per caso (o leggendo un articolo come questo), li scardiniamo. Ma quando si parla di soldi i falsi miti diventano quasi leggende metropolitane. Quali sono però i più comuni nel dorato mondo degli investimenti?

Scoprili in questo articolo: dall’orizzonte temporale che i giovani investitori credono di avere, fino al paradosso dell’investitore iper-informato che finisce per farsi del male da solo.

Il PAC è il modo migliore di investire

Cooosa? Siamo partiti subito con una cannonata, eh? Ma davvero questo è un mito? Fermo, non scappare, che ora ti spiego. Il PAC (Piano di Accumulo Capitale, per gli amici) è indubbiamente un ottimo metodo per mettere fieno in cascina, soprattutto se non hai a disposizione ingenti quantità di denaro liquido o se l’idea di versare “tutto subito” ti fa venire l’orticaria. Inoltre, mettere da parte regolarmente una sommetta, oltre a mitigare il rischio di entrare nel mercato nel momento sbagliato, è un modo super efficace per darsi una disciplina da monaco tibetano, specie con i versamenti automatici. E poi, diciamocelo, riduce l’impatto emotivo del vedere i mercati fare le montagne russe.

Però, e c’è sempre un però, non è matematicamente il modo più efficiente per investire. Dal punto di vista statistico, il PIC (l’investimento in un’unica, coraggiosa soluzione) tende ad offrire rendimenti superiori. Perché? Semplice: tutto il capitale si mette subito al lavoro e sfrutta appieno la magia dell’interesse composto fin dal primo giorno. Inoltre, dato che i mercati, nel lungo periodo, tendono a salire, le probabilità di acquistare un asset a un prezzo più basso oggi sono generalmente maggiori rispetto a domani o dopodomani. 

Infine, consideriamo che l’efficacia del PAC nel mediare il prezzo d’acquisto durante le fasi ribassiste, quella che tanto ci piace raccontarci, è in realtà piuttosto limitata, soprattutto se il portafoglio è ancora nelle sue, diciamo, “fasi di crescita”. In altre parole, i primi versamenti di un PAC hanno più chance di fare la differenza sul prezzo medio, ma questa capacità si annacqua man mano che il gruzzoletto cresce.

Detto questo, sia chiaro: il PAC rimane un ottimo modo per investire e, contemporaneamente, risparmiare. Anzi, per tantissimi investitori, probabilmente la stragrande maggioranza, è la soluzione migliore. Non sarà il più efficiente in termini assoluti, ma a volte la pace dei sensi vale più di qualche zero virgola di rendimento.

Più rischio significa più rendimento

Questa sembra una bestemmia finanziaria, un affronto al sacro Graal del “no pain, no gain”. Come può il bilanciamento tra rischio e rendimento essere un mito?

Per spiegarlo dobbiamo sfiorare il concetto fisico/statistico di ergodicità. In breve, un sistema si dice ergodico se, nel lungo periodo, la media temporale di un singolo percorso equivale alla media su tutti i possibili percorsi. Se non ci avete capito nulla, siete in buona compagnia.

Ok, proviamo con un esempio più terra terra. Mettiamo caso che il tuo motociclista preferito sia un fenomeno, il più talentuoso del campionato. Quando finisce una gara, è quasi sempre sul podio. Allo stesso tempo, però, guida come un pazzo scatenato: frena all’ultimo nanosecondo, impenna in curva ma purtroppo spesso cade e si infortuna. Per semplificare, diciamo che ha il 20% di probabilità di vincere ogni gara, ma anche un bel 20% di farsi male seriamente e saltare il resto del campionato. Quali sono le sue probabilità di vittoria in un campionato di 10 gare?

L’intuito ci suggerirebbe che, con il 20% a gara, su 10 gare potrebbe portarne a casa circa 2. Logico, no? No. Il rischio elevato di farsi la bua complica tutto. Se il nostro eroe spericolato si infortuna seriamente (20% di probabilità ad ogni singola gara, ricordiamolo), addio sogni di gloria. La sua partecipazione al resto del campionato sarebbe compromessa, azzerando le chance di vittoria finale. Il nostro campione potrebbe vincere due gare e poi passare il resto della stagione a guardare gli altri dal divano con una gamba ingessata.

Qui entra in gioco la non ergodicità: la sua bravura è legata a doppio filo con la sua propensione al rischio che può portarlo alla “rovina” (sportiva, in questo caso). Negli investimenti, un rischio elevato, anche se associato a rendimenti potenzialmente stellari, può portare alla “rovina” dell’investitore, rendendo le medie storiche inutili. In contesti non ergodici, la priorità assoluta diventa la sopravvivenza, non la massimizzazione del rendimento. Per scongiurare questi rischi da brivido, la parola magica è diversificare, per ridurre la probabilità di quelle perdite da cui non ci si riprende più.

Per investire bisogna essere informati

Forse anche questo vi stupirà, ma a volte più un investitore è beatamente ignorante (nel senso che ignora, sia chiaro) ciò che accade sui mercati, più è efficace. Sì, avete letto bene. Questo perché chi è sommerso da informazioni, grafici, opinioni e tweet allarmistici è molto più propenso a prendere decisioni troppo frequenti e impulsive.

Inoltre, chi si sente un piccolo Warren Buffett, super informato e sempre sul pezzo, può cadere nella tentazione di sperimentare, utilizzare strumenti finanziari che sembrano usciti da un film di fantascienza, acquistare asset “esotici” o costruire strategie talmente complesse da far impallidire un ingegnere della NASA. Il risultato? Spesso, più rischi e meno controllo. L’investitore super-informato a volte finisce per assomigliare a quel cuoco che, a furia di aggiungere spezie “particolari”, rovina un piatto semplicemente buono.

I giovani hanno un lungo orizzonte temporale

Più che un falso mito, qui siamo di fronte a una fallacia logica bella e buona, un classico errore di prospettiva. Spesso si pensa che i giovani abbiano davanti praterie di decenni per investire. Vent’anni, venticinque, trenta… un’eternità! Questo accade perché ragioniamo come se stessimo giocando a un videogioco, con l’obiettivo di massimizzare il punteggio finale (l’accumulo di capitale per la pensione).

La realtà, però, è ben diversa e, se sei giovane e ci rifletti un attimo, te ne accorgi subito: è altamente probabile che i soldi che hai in mente di investire ti serviranno ben prima della tua dorata pensione, che tra l’altro non sappiamo se riceverai, “vero INPS?” L’anticipo per la casa, il matrimonio, un master costoso, quel viaggio che sogni da una vita… Insomma, prima o poi quei soldi vorrai (o dovrai) usarli.

Per questo motivo, l’idea di mettere tutto sull’azionario perché “tanto c’è tempo” è un po’ come preparare una maratona mangiando solo dolci. È saggio affiancare al mercato azionario – che spesso ha bisogno di tempo per dare frutti – altri tipi di asset con un diverso profilo di rischio/rendimento. Qualche esempio? Obbligazioni o ETF obbligazionari, ma anche criptovalute o materie prime.

L’ETF globale è il santo graal che replica fedelmente l’economia mondiale

Ed eccoci al dogma dei dogmi per l’investitore da forum, il cavallo di battaglia di molti: il mitologico “VWCE & Chill” (o un suo equivalente globale). Una filosofia di vita, quasi una religione, con tanto di scomuniche per chi osa deviare dalla retta via dell’indice globale. Molti investitori approcciano il mondo della finanza con questo atteggiamento quasi fideistico, ignorando la reale natura delle proprie scelte.

La prima cosa da capire è che la borsa non rappresenta fedelmente l’economia mondiale nella sua interezza, ma solo un sottoinsieme, per quanto grande, di aziende che scelgono (e possono) quotarsi. Negli Stati Uniti, la cultura finanziaria e la propensione al mercato azionario sono talmente radicate che un numero enorme di grandi aziende è quotato. In Europa, invece, e in altre parti del mondo, molte imprese di successo restano felicemente private (non si quotano in borsa), preferendo altre forme di finanziamento. Di conseguenza, un ETF azionario globale, per quanto diversificato, si perde per strada pezzi importanti dell’economia reale.

Come non includere in questo discorso il mondo crypto? In particolare Bitcoin che negli ultimi anni, grazie alla sua crescita in un certo senso prevedibile per via della ciclicità dei suoi movimenti, ha fatto la fortuna di tantissimi investitori. Oggi è uno degli asset più popolari al mondo, grazie anche agli ETF emessi dai grandi fondi di investimento americani che lo sostengono. Un oro digitale, un bene rifugio cruciale per l’era moderna. L’offerta matematicamente finita e la natura decentralizzata di Bitcoin lo pongono come un baluardo contro le politiche monetarie sregolate e i “pasticci” delle banche centrali. Di fronte al dilagante debito pubblico statunitense e alle continue turbolenze che minano la fiducia nelle valute tradizionali, Bitcoin si propone non come semplice alternativa, ma come soluzione di resilienza e riserva di valore strategica. Diventa così un tassello fondamentale per una diversificazione patrimoniale consapevole, volta a proteggersi da un sistema finanziario tradizionale con crescenti e manifeste fragilità.

La sua pur innegabile volatilità è un tratto tipico di un’asset class rivoluzionaria in fase di adozione globale. Ignorare Bitcoin oggi, nel grande risiko finanziario, equivarrebbe a ripetere l’errore di chi, ai suoi tempi, sottovalutò la portata di internet.

Diversificazione: cos’é e perché é importante

Diversificazione: cos’è e perché è importante

La diversificazione è una delle nozioni fondamentali dell’arte dell’investire, anche se in troppi la snobbano. Ma cos’è? E perché è così importante? 

La diversificazione è un principio fondamentale che dovrebbe guidare la strategia di investimento di chiunque voglia addentrarsi nel mondo crypto. È un concetto proprio della finanza tradizionale, ma che ha accompagnato l’umanità durante tutto il processo di civilizzazione. In questo articolo, cercheremo di rispondere a due domande tanto semplici quanto complete: che cos’è la diversificazione? E perché è tanto importante?

Diversificazione: che cos’è e cosa significa?

La diversificazione, in finanza, è definita come una strategia o principio fondamentale per minimizzare il rischio: concretamente, significa distribuire le risorse finanziarie su una gamma eterogenea di asset, invece di concentrare il capitale su un singolo investimento. L’esempio principe, il classico intramontabile, utilizzato da chi vuole spiegare in modo semplice questo concetto, è quello delle uova nel paniere. Più precisamente, la frase “non mettere tutte le uova nel paniere!”, accompagnata da un indice che oscilla avanti e indietro, solenne come un oracolo. 

Scherzi a parte, il paragone è calzante, diversificare significa proprio evitare di mettere tutte le uova all’interno dello stesso paniere. Il motivo è semplice: se tutte le uova sono in un unico paniere e questo, per disgrazia, dovesse scivolarti dalle mani, ti ritroveresti con una frittata immangiabile. In altre parole, avresti perso tutto. Ma se lo stesso numero di uova fosse stato sapientemente distribuito su più panieri, avresti perso il contenuto di uno di questi, preservando il resto. Allo stesso modo, come si può capire con semplice intuito, spalmare gli investimenti su più asset diversi fra loro riduce di molto il rischio di perdere tutto in una sola botta. E il portafoglio ringrazia.

Se ci pensi, come abbiamo anticipato nell’introduzione, questa regola ha attraversato i secoli insieme all’umanità, fin dai tempi dei primi insediamenti. Già nel Neolitico, le comunità allevavano contemporaneamente più tipi di bestiame – tra cui mucche, pecore e capre – in modo da avere a disposizione diverse qualità di risorse alimentari e materiali, ma anche per evitare che, per esempio, un’unica malattia fosse in grado di sterminare tutti gli animali. Anche durante il Medioevo, gli agricoltori avevano compreso l’importanza di coltivare più tipi di cereali con la rotazione triennale. I vantaggi erano evidenti: miglioramento della fertilità del suolo, aumento della produzione complessiva e riduzione del rischio di carestie, dal momento che le perdite causate da un raccolto andato male si recuperavano grazie agli altri. 

Tra le altre cose, la diversificazione determina anche la nostra dieta alimentare. È chiaro che sarebbe stupendo mangiare tutti i giorni pizza, ma è fondamentale alternare con cibi più sani e noiosi per evitare di scavarsi la fossa da soli. Insomma, se la diversificazione guida ogni aspetto della vita umana, perché non dovrebbe fare lo stesso con i nostri investimenti?

Diversificazione: perché è importante?  

La diversificazione, come precedentemente illustrato, è un criterio imprescindibile in ottica conservativa, vale a dire di riduzione del rischio. Allora qui uno potrebbe giustamente obiettare: “a me non interessa nulla del rischio, voglio puntare tutti i soldi su quella meme coin e diventare milionario in tre giorni”. Lecito, tuttavia questo non è investire ma scommettere, e le probabilità di vincere quando si gioca d’azzardo sono estremamente basse. Tornando agli investimenti, diversificare conviene anche dal punto di vista dei profitti, poiché ti permette di non farti scappare l’asset, o gli asset, del decennio. 

Facciamo un esempio concreto prendendo il megatrend di internet dei primi anni 2000, appena dopo lo scoppio della bolla delle dot-com. In quel momento, il caso d’uso principale di internet era la funzione di ricerca e Google era il Re assoluto e incontrastato. Avresti potuto pensare, legittimamente, che l’azienda californiana era il vero e unico cavallo su cui puntare, poiché dominava su una concorrenza quasi inesistente. Oggi, quella scelta ti avrebbe senz’altro dato ragione, dal momento che la quotazione di Google è cresciuta più del 6.000%, tuttavia ti saresti mangiato le mani. Perché? Perché intendendo internet come uno strumento progettato esclusivamente per la ricerca online, avresti perso altre aziende come Netflix e Amazon, che hanno messo a segno performance superiori ritagliandosi la loro personale fetta di mercato. 

Diversificare nel mondo crypto

La diversificazione nel mondo delle criptovalute segue le dinamiche dell’esempio appena descritto: dipende da come intendi la blockchain e i suoi casi d’uso. Bitcoin è, senza ombra di dubbio, l’attore dominante in questo mondo, dal momento che da solo rappresenta più del 64% del mercato. Tuttavia, la sua utilità è “limitata”” – per ora – ai pagamenti e al fatto di essere riserva di valore, anche se la BTCFi potrebbe promettere bene. Dunque, se ritieni che la blockchain non andrà oltre Bitcoin, allora ha senso investirci tutto quanto, a tuo rischio e pericolo. 

É innegabile, però, che la blockchain si stia inserendo, neanche così lentamente, in altri settori strategici e il futuro potrebbe riservare sorprese in questo senso. Il punto fondamentale è fare un passo indietro e osservare la situazione nel suo complesso: non focalizzarsi sul presente per non farsi ingannare da euristiche e bias cognitivi ma, come direbbe il filosofo Baruch Spinoza, considerare le cose sub specie aeternitatis – sotto l’aspetto dell’eternità – in senso assoluto e universale. Per diversificazione si intende proprio questo, cioè evitare di esporsi troppo su una singola crypto sia per ridurre i rischi, sia per non perdere gigantesche opportunità tipo Ethereum, che dall’1 gennaio 2020 all’1 gennaio 2025 ha messo a segno un +1.880%. 

Chiaramente, per poter investire con consapevolezza, è necessario aggiornarsi ed essere sempre sul pezzo su ciò che accade in questo mondo in costante evoluzione. Il consiglio – per niente di parte – è di iscriverti ai nostri canali Telegram e Whatsapp o direttamente qui sotto, in modo da avere tutti i giorni le notizie rilevanti già pronte e impacchettate!

Finanziamento auto: come funziona? La guida

Finanziamento auto: come funziona? La guida

Il finanziamento auto è una forma di indebitamento comune che consente di comprare una macchina a rate. Ma attenzione ai costi nascosti. Qui la guida

Il finanziamento auto è una soluzione molto utilizzata perché permette l’acquisto di una macchina nel caso in cui l’acquirente non disponesse immediatamente del capitale totale necessario: nel 2023, in Italia, questa formula ha riguardato la vendita dell’80% delle auto. Tuttavia si tratta di un prestito che, come vedremo, viene concesso da banche o altri attori finanziari e, per questo motivo, è importante avere chiaro il quadro. Qui la guida

Finanziamento auto: che cos’è?

Il finanziamento auto, come abbiamo anticipato, è un contratto attraverso cui una figura creditrice, che può essere una banca o un’istituzione finanziaria in generale, anticipa i soldi necessari all’acquisto della macchina in cambio dell’impegno – firmato e controfirmato – alla restituzione di questa somma, nel tempo. Naturalmente, chi concede il finanziamento fa questo “favore” non perché è gentile e neanche perché ha a cuore la mobilità del cittadino, ma perché guadagna, e anche abbastanza, con le rate mensili maggiorate dagli interessi. In parole semplici, il finanziamento non è altro che un prestito che andrà ripagato con gli interessi, entro un tempo prestabilito. Nello specifico, esistono tre forme di finanziamento – anche se sarebbe più corretto dire “due e mezzo”. Vediamole.

Finanziamento o prestito personale

La forma “classica”, diciamo. Questa soluzione di finanziamento prevede che il richiedente, cioè l’individuo che ha bisogno del prestito, si rivolga personalmente a una banca o a una società di credito esterna per fare la richiesta di danari. A questo punto, l’ente che ha a disposizione la grana farà tutti i controlli necessari per accertare che il soggetto richiedente in questione sia in grado di ripagare la somma, con gli interessi: immobili di proprietà, figli a carico, contratto a tempo determinato o indeterminato e via dicendo. In caso di esito positivo, si procede con l’erogazione del prestito. Ora, il nostro futuro automobilista ha a disposizione il cash per comprare la macchina dei suoi sogni e si reca col sorriso in concessionaria: firma due carte, paga e diventa subito proprietario dell’automobile (e di 36 comode rate). 

Finanziamento o prestito finalizzato

Questo secondo tipo di finanziamento differisce dal primo perché, come dice il nome, è finalizzato all’acquisto di un bene preciso, in questo caso dell’auto. Mentre nel primo caso la banca o l’istituto di credito dice semplicemente “io ti presto i soldi, tu fai quello che ti pare basta che me li ridai”, ora c’è il vincolo all’acquisto dell’automobile. Un’altra differenza importante sta nel fatto che è la concessionaria a fare da intermediario fra chi chiede e chi presta i soldi: anzi, molto spesso può capitare che la società finanziaria sia collegata direttamente alla casa automobilistica produttrice della macchina che si intende acquistare – ad esempio Stellantis Financial Services. Rispetto alla prima formula, i vantaggi di richiedere un finanziamento auto finalizzato risiedono principalmente nella competitività delle offerte, che possono includere promozioni iniziali come il famoso “tasso zero” e le “mini rate iniziali”.

Leasing 

Il leasing è il motivo per cui nel primo paragrafo abbiamo precisato “due e mezzo”: se nei precedenti due casi si parla di finanziamento vero e proprio, ora è più corretto parlare di affitto con possibilità di acquisto. Col leasing non c’è un attore terzo che anticipa i soldi, ma solamente una concessionaria, un cliente e un contratto in cui è indicato il canone mensile da pagare per poter utilizzare la macchina. Tale contratto ha una durata definita oltre la quale, se il cliente è d’accordo, è possibile comprare definitivamente la vettura saldando la celebre quanto temuta maxi-rata finale. Altrimenti, il cliente ha la facoltà di iniziare un altro leasing, magari con un’altra auto, o terminare il rapporto.

Quanto costa e quali sono i requisiti per ottenerlo

Il finanziamento auto costa, nessuno ti regala i soldi. Ti sarà capitato di vedere una pubblicità di una macchina recentemente, magari un fuoristrada: strade bellissime nella natura incontaminata, potenza del motore, vetri oscurati e sensazione di libertà. Poi la réclame arriva al termine e l’annunciatore inizia a parlare straveloce: “TanquattropuntonovantapercentoTaegseiottantunooffertavalidaconfinanziamentopressofinanziariasalvoapprovazione…” eccetera, eccetera, eccetera. Bene, ora cerchiamo di capire cosa sono questi TAN e TAEG che sentiamo in tv da quando abbiamo la facoltà di comprendere il linguaggio umano. 

TAN E TAEG: i tassi di interesse

Il TAN e il TAEG, questi strani acronimi, non sono altro che i tassi di interesse applicati alla somma richiesta: è il guadagno che la banca, l’istituto di credito o la finanziaria legata alla casa automobilistica, incassano per averti prestato i soldi. Il TAN, ovvero il Tasso Annuo Nominale, rappresenta l’interesse puro applicato alla cifra erogata. In che senso “puro”? Nel senso che è la percentuale base al netto dei costi di gestione o legati alle pratiche burocratiche. Il TAEG, cioè il Tasso Annuo Effettivo Globale, come dice il nome è proprio il TAN sommato ai costi extra non indicati nel TAN stesso. Dunque il TAN ti permette di capire l’interesse netto che andrai a pagare con le rate, mentre il TAEG ti fornisce il quadro completo del costo reale del finanziamento auto. 

Sulla base di ciò, una persona potrebbe chiedersi: “se il TAEG è più completo del TAN, perchè vengono indicati entrambi? Per ingannare il cliente?” No, o meglio, non proprio. È chiaro che, di per sé, mostrare il tasso di interesse puro – più basso rispetto al TAEG – fa un effetto migliore al momento della vendita, tuttavia ci sono delle ragioni ben precise che giustificano questa procedura. In primo luogo, il TAEG non indica il tasso di interesse ma la percentuale finale totale, il che rende più complessa la distinzione tra costo del finanziamento e spese extra. In secondo luogo, avendo più chiaro il tasso di interesse netto, il cliente è in grado di confrontare meglio le varie offerte a prescindere dai costi accessori. Infine – a causa di quanto menzionato sopra – c’è l’obbligo normativo di imporre l’indicazione di entrambi gli indici. 

I requisiti per ottenere un finanziamento

Il finanziamento auto viene concesso solamente nel caso in cui il richiedente soddisfi dei requisiti fondamentali dato che chi presta i soldi, da parte sua, vuole assicurarsi che li riavrà indietro. Tra queste condizioni, naturalmente, la maggiore età e la residenza in Italia sono imprescindibili per poter avviare la pratica. Seguono quelle relative al reddito e alla storia creditizia: occorre dimostrare di avere delle entrate fisse, attraverso buste paga o dichiarazione dei redditi, e soprattutto di essere un debitore affidabile. Quest’ultimo punto è fondamentale, dal momento che segnalazioni negative da parte di banche dati come il CRIF (Centrale Rischi Finanziari) potrebbero compromettere totalmente l’operazione finanziaria. In merito a questi ultimi punti, cerchiamo di rispondere a due domande che potresti esserti posto: 

  • Posso ottenere un finanziamento auto senza busta paga? È molto molto difficile. Come abbiamo appena precisato, chi concede il prestito vuole avere la certezza che i suoi soldi non vengano persi nell’etere. Presteresti mai dei soldi – tanti soldi – a uno sconosciuto incontrato per strada? 
  • Cosa succede se non riesco a pagare le rate del prestito auto? Potresti andare incontro a conseguenze non proprio leggere. Il primo step, solitamente, è l’applicazione dei cosiddetti interessi di mora, cioè di tassi extra rispetto al TAN, calcolati su base giornaliera o mensile, che il creditore impone come risarcimento. Il secondo, spesso in concomitanza col primo, è la segnalazione presso enti come il CRIF, che sporcherebbe in modo significativo la tua fedina penale di debitore. Infine, se, nonostante le sollecitazioni, le rate sono ancora scoperte, l’istituzione creditizia del caso può procedere al recupero dei crediti attraverso strumenti come il prelievo forzoso e il pignoramento dei beni. 

Insomma, aprire un finanziamento auto, così come aprire un mutuo, è una decisione che va presa con estrema cura perché cambierà la tua vita: è fondamentale fare un’analisi costi/benefici completa e precisa, per evitare di ritrovarti al verde da un mese all’altro. Per questo, iscriviti ai nostri canali Telegram e Whatsapp o direttamente al sito di Young Platform cliccando qui sotto, potrebbe esserti utile per il futuro.