Come funziona il prelievo forzoso?

Prelievo forzoso: come funziona?

I miei soldi possono davvero sparire dal conto? Tutto sul prelievo forzoso

L’idea che i propri risparmi, frutto di lavoro e sacrifici, possano svanire dal conto corrente è fonte di ansia per molti. Questo timore, a volte alimentato da informazioni imprecise, merita chiarezza. 

Sebbene esistano circostanze in cui terzi possono accedere legalmente ai fondi depositati in banca, non si tratta di un evento arbitrario o improvviso, ma di una procedura ben definita dalla legge, nota come prelievo forzoso o, più tecnicamente, pignoramento presso terzi. Capiamo meglio di cosa si tratta.

Cos’è esattamente un prelievo forzoso?

Un prelievo forzoso non è un furto né un errore della banca: è l’atto finale di un procedimento legale attraverso il quale un creditore, munito di un titolo esecutivo (un documento che accerta il suo diritto), recupera somme dovute da un debitore agendo direttamente sul suo conto corrente. La banca, in questo scenario, agisce come “terzo pignorato”, ovvero come soggetto che detiene somme del debitore e che è obbligato per legge a trasferirle al creditore su ordine dell’autorità competente.

È fondamentale sottolineare che si arriva al prelievo forzoso solo dopo che il debito è stato formalmente accertato e il debitore ha avuto diverse occasioni per regolarizzare la propria posizione.

Chi può autorizzare un prelievo forzoso e per quali debiti?

Non chiunque vanti un credito può presentarsi in banca e chiedere i soldi di un altro. L’azione richiede sempre l’intervento di un’autorità e il rispetto di precisi passaggi. I principali soggetti che possono attivare questa procedura sono:

  1. L’agenzia delle entrate-riscossione (ader): è l’ente preposto alla riscossione dei crediti dello stato e di altri enti pubblici. Parliamo di:
    • tasse non pagate (irpef, iva, imu, tari, ecc.);
    • contributi previdenziali inevasi;
    • multe stradali non saldate;
    • bollo auto scaduto e non pagato. In questi casi, il percorso tipico prevede la notifica di un avviso di accertamento, seguito dalla temuta “cartella esattoriale”. Se il debito non viene saldato o rateizzato entro i termini (solitamente 60 giorni dalla notifica della cartella), l’ader può inviare un’intimazione di pagamento e, successivamente, procedere con il pignoramento del conto.
  2. L’autorità giudiziaria (tribunale): a seguito di una causa civile, un giudice può ordinare il pignoramento del conto per soddisfare crediti di natura privata. Ad esempio:
    • assegni di mantenimento non corrisposti all’ex coniuge o ai figli;
    • canoni di locazione non pagati;
    • fatture insolute verso fornitori o professionisti;
    • risarcimenti danni stabiliti da una sentenza. Il creditore privato deve prima ottenere un “titolo esecutivo”, come una sentenza passata in giudicato, un decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo, o un assegno/cambiale protestati.

Come funziona la procedura di pignoramento del conto corrente?

Una volta ottenuto il via libera, il creditore notifica l’atto di pignoramento sia al debitore sia alla banca. Da quel momento la banca è tenuta a bloccare sul conto del debitore una somma pari all’importo del credito vantato, aumentato delle spese legali. 

Se il saldo è inferiore, viene bloccato l’intero importo disponibile. Dopodiché, entro termini stabiliti, la banca deve comunicare al creditore l’effettiva esistenza di fondi pignorabili. Se il debitore non si oppone o se l’opposizione viene respinta, il giudice (o l’ader in caso di debiti fiscali) ordina alla banca di versare le somme bloccate al creditore.

Esistono però dei limiti al pignoramento per tutelare la sussistenza del debitore:

  • Stipendi e pensioni: se accreditati sul conto, non possono essere pignorati integralmente. Per le somme già accreditate al momento del pignoramento, la parte che eccede il triplo dell’assegno sociale (un importo annuo aggiornato dall’inps, nel 2024 pari a circa 534 euro mensili) può essere pignorata. Quindi, se l’assegno sociale è 534 euro, il limite di impignorabilità sul saldo esistente è di circa 1.602 euro. Per i futuri accrediti di stipendio o pensione, il pignoramento può avvenire generalmente nella misura di un quinto, ma la frazione può variare a seconda dell’importo e di eventuali altri pignoramenti in corso.
  • Conti cointestati: si presume che le somme appartengano ai cointestatari in parti uguali. Pertanto, di norma, può essere pignorata solo la quota del debitore (solitamente il 50%).
  • Somme impignorabili: alcune somme sono per legge assolutamente impignorabili, come le pensioni di invalidità, gli assegni di accompagnamento, o le rendite da assicurazioni sulla vita (in determinate condizioni).

Cosa fare se si riceve un avviso di pignoramento del conto?

La prima regola è: non ignorare il problema, perché in questo modo la situazione peggiora drasticamente. 

Innanzitutto è bene controllare attentamente la documentazione per capire l’origine del debito, l’importo e se è effettivamente dovuto. Se il debito è legittimo, la soluzione più rapida per sbloccare il conto è pagare l’intero importo. Con l’agenzia delle entrate-riscossione è spesso possibile richiedere una rateizzazione del debito, che, una volta concessa e pagata la prima rata, può portare alla sospensione del pignoramento. Se, invece, si ritiene che il pignoramento sia ingiusto (es: debito già pagato, errore di notifica, pignoramento di somme impignorabili), è possibile presentare opposizione davanti al giudice competente. È un’azione legale complessa per cui è indispensabile l’assistenza di un avvocato.

Prevenzione: come evitare brutte sorprese

La migliore strategia è la prevenzione:

  • Tenere sotto controllo le proprie scadenze fiscali e i pagamenti.
  • Non ignorare mai avvisi di accertamento, cartelle esattoriali o comunicazioni legali (soprattutto le raccomandate).
  • In caso di difficoltà economiche temporanee, cercare un dialogo con i creditori o con l’ader per trovare soluzioni sostenibili (es. piani di rateizzazione) prima che la situazione degeneri.

Il prelievo forzoso dal conto corrente è una misura seria, l’ultima spiaggia per i creditori per recuperare quanto loro dovuto. Sebbene l’idea possa spaventare, è importante ricordare che si tratta di una procedura legale. Conoscere le regole, i propri diritti e i limiti imposti dalla legge al pignoramento è il primo passo per affrontare la situazione con maggiore consapevolezza. La gestione responsabile delle proprie finanze e l’azione tempestiva in caso di difficoltà restano le armi più efficaci per evitare che i propri soldi “spariscano” davvero dal conto.

Contratto a tempo determinato o indeterminato?

Contratto a tempo determinato o indeterminato?

I contratti a tempo determinato e indeterminato presentano differenze nette e potrebbero essere influenzati dal prossimo referendum. Come?

Contratto a tempo determinato o indeterminato? Questo è il dilemma, direbbe l’Amleto di Shakespeare se vivesse nel ventunesimo secolo. Qui esploreremo insieme le differenze fra le due tipologie di contratto, concentrandoci sui diritti e i doveri tanto del lavoratore quanto del datore di lavoro. Tratteremo poi le questioni relative a dimissioni, licenziamento e riassunzione e vedremo infine come cambierebbe la normativa grazie al referendum di giugno. Rilassati che si parte!

Contratto a tempo determinato: caratteristiche

Il contratto a tempo determinato è un contratto di lavoro subordinato – di segno opposto al lavoro autonomo – in cui è prevista una data di cessazione del rapporto. La durata massima è di 12 mesi ma può essere prorogata a 24 mesi nel caso in cui si verificassero alcune circostanze specifiche, dette causali, come l’aumento della normale attività lavorativa, la sostituzione di altri lavoratori (non quelli in sciopero) o generiche esigenze temporanee e impreviste. Deve essere firmato per iscritto e, importante, deve essere indicato il termine di scadenza poiché se tale data non viene specificata, sostanzialmente l’aggettivo “determinato” non ha valore. 

In sintesi, il contratto a tempo determinato non può avere una durata superiore a 24 mesi, anche se esistono delle eccezioni che consentono di prorogare questo tipo di rapporto: i contratti collettivi nazionali (CCNL), territoriali e aziendali potrebbero presentare delle clausole frutto di contrattazioni sindacali. Inoltre, nel caso di rinnovo con lo stesso lavoratore per la stessa posizione, subentra l’obbligo di stop and go, cioè di “pausa obbligatoria”. Il lavoratore, quindi, potrà firmare il nuovo contratto dopo uno stop di 10 o 20 giorni se, rispettivamente, il precedente contratto aveva durata di 6 mesi o più. Se questi intervalli di tempo non vengono rispettati, il secondo contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato. 

Diritti e doveri del lavoratore

Un contratto a tempo determinato, generalmente, presenta tutele molto simili a quelli del contratto a tempo indeterminato con una variabile ovvia, la proporzionalità. Tradotto, ciò significa che il lavoratore a tempo determinato maturerà ferie, permessi e TFR in proporzione alla durata del rapporto contrattuale. Allo stesso modo, verrà coperto in caso di malattia o infortunio, ma la garanzia del posto è assicurata solo entro la data di scadenza prefissata. Anche lo stipendio, a parità di mansioni, è comparabile a quello del contratto a tempo indeterminato. C’è poi il diritto a congedi speciali come maternità e paternità, alla sicurezza sul posto di lavoro e alla formazione continua. 

I doveri sono identici a quelli del lavoratore a tempo indeterminato, tra cui diligenza, obbedienza e fedeltà all’azienda – li vedremo in modo più approfondito più avanti. 

Diritti e doveri del datore di lavoro

I diritti del datore di lavoro sono espressione dell’autorità formale e gerarchica che il boss ha in azienda: sono strumenti strutturali e legali di gestione, connessi al ruolo di responsabilità e di comando che questa figura ricopre all’interno dell’organizzazione. Si parla pertanto di potere direttivo, disciplinare e di controllo e di diritto alla prestazione lavorativa. I primi tre fanno riferimento alla facoltà del datore di lavoro di dare ordini in merito all’esecuzione e alla disciplina delle mansioni, di verificare che effettivamente il lavoratore esegua quanto comunicato e di sanzionare eventuali mancanze. Il diritto alla prestazione lavorativa, infine, è relativo al fatto che il datore è legittimato a pretendere dal lavoratore quanto pattuito nel contratto a livello di mansioni e impegni. 

Tra i doveri, invece, ricordiamo gli obblighi di corresponsione puntuale della retribuzione, quindi di pagamento dello stipendio secondo i tempi prestabiliti, di concessione di ferie e permessi e di versamento dei contributi previdenziali e assicurativi, che non possono essere trattenuti. Il datore di lavoro, poi, deve accertarsi che l’ambiente professionale sia sicuro e salubre e che siano rispettate la dignità e la privacy del lavoratore, secondo la normativa vigente. 

Vediamo ora il secondo tipo di contratto, quello a tempo indeterminato. 

Contratto a tempo indeterminato: caratteristiche

Il contratto a tempo indeterminato, in Italia, è la forma di rapporto lavorativo più comune: secondo i dati provvisori pubblicati dall’ISTAT a marzo 2025, i dipendenti a termine sarebbero circa 2 milioni e 594mila, contro i 16 milioni e 560mila che invece hanno un contratto permanente. È detto a tempo indeterminato, o permanente, perché privo di una data di scadenza e, per questa ragione, la firma non necessita di causali specifiche. 

Anche questo tipo di contratto deve essere redatto in forma scritta e deve includere tutte le informazioni essenziali relative al rapporto lavorativo. Tra queste, l’insieme delle attività richieste al lavoratore, l’inquadramento, la data di inizio, i giorni di ferie e le ore di permesso. 

Diritti e doveri del lavoratore

I diritti del lavoratore permanente, come abbiamo anticipato, sono praticamente sovrapponibili con quelli previsti dal contratto a termine. Il soggetto, quindi, ha diritto a una retribuzione congrua col tipo di lavoro svolto, a lavorare in un ambiente sicuro e inclusivo, a ferie, permessi e congedi speciali e al trattamento di fine rapporto (TFR). Una delle poche differenze, in questo senso, risiede nella sezione malattie e infortuni. Diversamente dal contratto a tempo determinato, l’indeterminato presenta delle condizioni particolari: il lavoratore può usufruire di un periodo massimo di assenza, detto periodo di comporto, la cui durata è stabilita dalla normativa vigente, dai contratti collettivi nazionali di settore o dal contratto individuale di lavoro. Se, al termine di questo periodo, il lavoratore non rientra in azienda, il datore può procedere al licenziamento. Ciò non vale nel caso in cui, invece, la malattia o l’infortunio fossero causate da attività connesse alle mansioni lavorative. 

La parte dei doveri rimanda ai vincoli di collaborazione e correttezza nei confronti dell’azienda e del datore di lavoro. Troviamo infatti l’obbligo alla fedeltà, all’obbedienza e alla diligenza. Per fedeltà si intendono quei comportamenti di lealtà professionale e di protezione dell’organizzazione: non trattare affari con la concorrenza e non divulgare informazioni sensibili o segreti industriali. Con obbedienza, naturalmente, si indica il dovere del lavoratore di eseguire quanto richiesto dal datore e, infine, la parte della diligenza fa riferimento alla buona condotta lavorativa, al rispetto delle norme disciplinari e degli orari di lavoro. 

Diritti e doveri del datore di lavoro

I diritti e i doveri del datore di lavoro sono gli stessi, sia in caso di contratto a tempo determinato che indeterminato. Dunque, rimandiamo a quelli che abbiamo visto nel paragrafo precedente. 

Dimissioni, licenziamento e riassunzione: determinato vs indeterminato

Il contratto a tempo determinato si basa su un principio preciso: il lavoratore, firmando, si impegna a prestare servizio per un intervallo di tempo determinato. Per questo motivo, rispetto all’indeterminato, dove le dimissioni sono libere con preavviso, la rinuncia volontaria all’impiego non è consentita. In caso, l’azienda potrebbe chiedere un risarcimento sotto forma di penale. Ma esistono delle eccezioni. Il lavoratore può dimettersi se c’è una giusta causa, quindi se diventa oggettivamente impossibile proseguire col rapporto lavorativo. Le giuste cause più comuni sono il mancato pagamento dello stipendio, l’assenza di rispetto delle norme di sicurezza, situazioni di mobbing o molestia. Un fatto curioso è che le dimissioni possono essere presentate solamente online. Questa procedura è diventata obbligatoria nel 2016, col Jobs Act, e il motivo è molto semplice: contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco, una pratica illegale in cui il datore di lavoro, al momento dell’assunzione, fa firmare il foglio delle dimissioni privo di data, così da riempirlo all’occorrenza. 

Per quanto riguarda il licenziamento, nel caso del contratto a termine valgono le stesse regole delle dimissioni, ma dalla prospettiva del datore di lavoro. Questo vuol dire che il dipendente a termine non può essere licenziato prima della scadenza, a meno che non si tratti di una giusta causa. Anche qui, per giusta causa si intende una circostanza così grave da rendere impossibile l’attività lavorativa. Lo stesso discorso vale per il contratto a tempo indeterminato, a cui però si aggiunge una clausola: il giustificato motivo oggettivo o soggettivo. Il primo, riguarda le ragioni obiettive, del funzionamento dell’azienda e della sua produttività. Il secondo, dall’altro lato, si riferisce ai comportamenti scorretti del dipendente, come il mancato rispetto degli obblighi descritti sopra. 

La riassunzione, infine, è un procedimento che vale solamente per i contratti a termine perché, per definizione, un contratto a tempo indeterminato non presuppone una data di scadenza. Le pratiche per il reintegro del dipendente in azienda sono quelle dello stop and go, che abbiamo già trattato nel primo paragrafo. 

Cosa cambia coi referendum di giugno?

I referendum del prossimo giugno sono cinque, divisi in due aree tematiche: una collegata alla cittadinanza e una al mondo del lavoro. Quest’ultima è composta da quattro quesiti referendari differenti. Il primo e il secondo si occupano di licenziamenti illegittimi – o senza una giusta causa – e indennità previste verso i dipendenti nel caso in cui si verificasse questa scorrettezza. Il terzo pone l’attenzione sui contratti a tempo determinato e chiede il ripristino dell’obbligo di causali che giustifichino una scadenza a 12 mesi o inferiore. 
Se vuoi informarti in modo più approfondito – e dovresti – abbiamo scritto una guida sui referendum dell’8 e 9 giugno dove potrai leggere con attenzione e comprendere cosa ti verrà chiesto al momento del voto. Dopo di ciò, iscriviti a Young Platform e facilitati la vita!

Spese condominiali: manuale di sopravvivenza

Spese condominiali: manuale di sopravvivenza

Le spese condominiali rientrano nell’immenso insieme di seccature tipiche del condominio. Tuttavia, sapere cosa pagare è cruciale. Qui il manuale

Le spese condominiali sono solo una delle numerose noie che costellano la vita di chi vive in un condominio. Naturalmente, il primo posto spetta di diritto alle fatidiche riunioni: luoghi immortali di scontro verbale e fisico che tormentano le sere di madri e padri di famiglia. È nato prima l’uomo o la riunione condominiale? In ogni caso, in questo articolo purtroppo (o per fortuna) ci occuperemo solo delle cose da pagare, senza toccare altro. Chi prima inizia prima conclude no? E allora partiamo!

Spese condominiali: come non farsi fregare

Le spese condominiali sono una fra le principali cause di discussione fra gli inquilini di un condominio: le epiche dispute verbali volte a identificare chi non ha messo i soldi per la potatura delle siepi in cortile si susseguono senza fine, perse nelle pieghe della storia. Scherzi a parte, sapere cosa si paga e perché è importante per evitare guai legali e, soprattutto, per non rischiare di sostenere spese inutili. Con questo manuale di sopravvivenza, scopriremo insieme il mondo delle spese condominiali in modo da non rimanere fregati di fronte al temibile e tenebroso amministratore di condominio. Nello specifico, vedremo come si calcolano, quali possono essere detratte, quali spettano al proprietario e quali all’inquilino e, infine, cosa succede in caso di mancato pagamento.  

Ripartizione delle spese condominiali: il calcolo in base ai millesimi

La ripartizione delle spese condominiali è la modalità attraverso cui si assegna a ciascun condomino una quota della totalità delle spese comuni. Il sistema adottato è quello del calcolo in base ai millesimi, che definisce in modo proporzionale l’importo dovuto da ciascun residente. Questo calcolo viene effettuato utilizzando uno strumento, detto tabella millesimale, elaborato considerando la superficie e il volume di ogni singolo appartamento. 

La logica dietro questo sistema concepisce il condominio come diviso in mille parti: ogni unità, in funzione dei parametri esposti prima, equivale a una parte di queste mille. A questo punto, ogni residente dovrà pagare una quota proporzionale alla fetta di condominio di cui è proprietario. Facciamo un esempio. Se per assurdo un condominio ha cinque appartamenti uguali – stesse metrature e stessi volumi – allora ognuno di questi equivale a 200 su 1000 (mille parti diviso cinque). Al pagamento delle spese condominiali, che ipotizziamo essere di 1000€ per semplicità di calcolo, ogni condomino pagherà 200€, ovvero un quinto delle spese comuni totali. Alcune di queste, però, sono detraibili dalle tasse

Spese condominiali detraibili: quali sono?

Le spese condominiali detraibili sono quelle incluse negli interventi di natura straordinaria: la riqualificazione dell’immobile, il miglioramento della classe energetica, la messa in sicurezza antisismica e la manutenzione delle aree verdi condominiali. Insomma, la detrazione fondamentalmente riguarda i lavori che rientrano nei vari bonus erogati a pioggia in questi ultimi anni, come il Superbonus, l’Ecobonus, il Sismabonus e chi più ne ha più ne metta. Non sono invece detraibili le spese ordinarie comuni come quelle relative alla pulizia e alla manutenzione o al consumo di energia elettrica delle aree condivise. Queste spese, per essere scalate dalle tasse, devono essere inserite all’interno del modello 730, cioè del modello per la dichiarazione dei redditi.

Ma cosa succede se chi vive nell’appartamento è in affitto? E se invece è proprietario? Nella prossima sezione esamineremo quali spese condominiali deve pagare uno e quali l’altro. 

Proprietario vs inquilino: a chi tocca pagare?

Fin dai tempi dei primi insediamenti umani, fin dalle prime capanne di legno e argilla, si consuma l’eterna lotta tra inquilino e proprietario. Due entità incompatibili, legate da un contratto firmato e false cortesie: “spese straordinarie, non di mia competenza!” dice il primo, “il regolamento condominiale parla chiaro!” ribatte il secondo, indicando il comma 3-ter/bis dell’articolo 12, scritto in corpo 3 con inchiostro grigio chiarissimo, visibile solo al microscopio ottico. Un’iperbole di fantozziana memoria che ci ricorda quanto il terreno della ripartizione delle spese condominiali sia spinoso e fonte di controversie. Cerchiamo quindi di chiarire una volta per tutte chi paga che cosa. 

Spese condominiali: l’inquilino 

Le spese condominiali che spettano all’inquilino fanno parte della categoria che comprende la manutenzione ordinaria e i consumi. A livello concettuale, l’inquilino è responsabile di ciò che utilizza e lo riguarda durante la sua permanenza: tinteggiatura delle pareti, pulizia delle grondaie, manutenzione di corrimano e ringhiere, disinfestazione, derattizzazione, riparazione dell’impianto elettrico, di riscaldamento e di condizionamento – quest’ultima solo se ordinaria, quindi relativa a piccoli interventi. In sintesi, l’inquilino deve farsi carico dei costi connessi alla gestione e al mantenimento dell’appartamento e del condominio al momento in cui è presente. Per capirci, potrebbe essere utile il paragone con l’affitto di una macchina. Se noleggi un’auto per qualche giorno dovrai occuparti del carburante o delle gomme in caso di foratura, ma non della sostituzione del motore o dell’assicurazione RCA. 

Spese condominiali: il proprietario

Il proprietario invece si occupa delle spese di manutenzione straordinaria, cioè degli interventi riguardanti tutto ciò che viene installato in modo stabile nel tempo, al di là della presenza del coinquilino. Alcuni di questi possono essere l’allacciamento alla rete fognaria, l’installazione della caldaia nuova, la sostituzione integrale di pavimenti e rivestimenti e l’acquisto di bidoni della spazzatura. Quindi, per riassumere, il proprietario deve pagare per tutte le spese che riguardano l’alloggio a prescindere dal coinquilino. 

Esiste poi una serie di costi condivisi fra i due, come le questioni attinenti al portiere del palazzo, se esiste. In questo caso, la spesa è per il 90% a carico dell’inquilino, mentre il restante 10% è compito del proprietario. 

Passiamo ora all’ultimo paragrafo, quello relativo al mancato pagamento delle spese condominiali. 

Spese condominiali non pagate: scatta la prescrizione

La leggenda narra che l’inquilino dell’interno 22, terzo piano, si dimenticò di pagare le spese del condominio di via Roma 35: arrivò l’avviso, poi la raccomandata, infine la condanna unanime da parte dei membri dell’assemblea condominiale, con messa al bando e foto segnaletica. Nessuno sa che fine abbia fatto. Voci dicono che il suo fantasma continui ad aggirarsi fra i contatori, armato di torcia e regolamento. 

La realtà, naturalmente, è ben diversa. Secondo il codice civile, in caso di mancato pagamento è previsto un limite di tempo entro il quale l’amministratore può richiedere il pagamento degli arretrati: cinque anni per le spese ordinarie e dieci anni per le spese straordinarie. Se tale richiesta, sotto forma di domanda formale o azione legale, non ha luogo, il debito va in prescrizione e il condomino moroso non è più legalmente obbligato al pagamento. Nel caso in cui, invece, l’amministratore richieda ufficialmente il rimborso, al momento stesso della presentazione della domanda riparte il conto alla rovescia. Tradotto, significa che il condominio ha più tempo per recuperare la somma mancante perché il limite di cinque o dieci anni si azzera e il timer ricomincia da capo. 

Tutto questo, però, si riferisce al proprietario dell’immobile, che è l’unico vero responsabile per i debiti dell’inquilino. Il primo deve quindi sollecitare il secondo all’estinzione del debito e può avvalersi del diritto di sfratto qualora la cifra arretrata sia pari o superiore a due mensilità di affitto.  

Condomini e blockchain: la tokenizzazione

Per concludere questo viaggio nel fantastico mondo dell’amministrazione condominiale, è interessante collegare la blockchain e i suoi casi d’uso alla semplificazione e all’ottimizzazione delle procedure. Nello specifico, genera molta curiosità la tokenizzazione immobiliare. Tokenizzare un immobile significa rappresentarlo – o frazionarlo – digitalmente attraverso dei token emessi su blockchain, affinché ognuno di questi corrisponda a una parte dell’edificio. Il token, poi, acquisisce o perde valore in funzione dell’aumento o riduzione del prezzo dell’intero stabile. 

Nel caso del condominio, l’associazione immediata è fra token e calcolo in base ai millesimi, di cui abbiamo parlato sopra: essendo “fisicamente” in possesso di un numero di token proporzionale al valore dell’appartamento, i proprietari potrebbero essere più incentivati a collaborare per gestire in modo efficiente gli affari condominiali e prendersi cura delle aree comuni. Una cooperazione di questo tipo, avrebbe ripercussioni positive sul prezzo del token e, conseguentemente, sulla valutazione del complesso condominiale. 

Se hai trovato utile questo vademecum per la sopravvivenza nella giungla delle spese condominiali, faresti bene a iscriverti qui sotto: noi di Young, oltre alle notizie di attualità economica e geopolitica, pubblichiamo spesso guide simili, funzionali alla vita quotidiana, come quella sulla tassazione del TFR o sul bonus bollette. Alla prossima!

Tassazione TFR: guida al calcolo delle imposte sulla liquidazione

Tassazione TFR: guida al calcolo delle imposte sulla liquidazione

Guida al calcolo della tassazione del TFR: spiegazione ed esempio

Come funziona la tassazione del TFR e con quale calcolo si può trovare? Se sei alle prime armi con contratti di lavoro e contributi, forse non sai che quando decidi di incassare il TFR ovvero il “Trattamento di Fine Rapporto” devi pagare delle tasse. Se invece lo stai accumulando già da qualche anno, può esserti d’aiuto leggere questa breve guida al calcolo della tassazione TFR!

Cos’è il TFR e come si calcola

Prima di addentrarci nel calcolo della tassazione TFR, chiariamo innanzitutto cosa si intende per “Trattamento di Fine Rapporto”. In pratica è una somma di denaro che viene riconosciuta a tutti i lavoratori dipendenti alla risoluzione di un contratto di lavoro (sia a tempo determinato che indeterminato). 

IL TFR viene chiamato anche “liquidazione”, “buonuscita” o “retribuzione differita” ed è un compenso erogato con l’ultima busta paga solo alla fine del rapporto lavorativo che sia in caso di dimissioni che di licenziamento o pensionamento.

Per il calcolo della tassazione TFR è indispensabile conoscere l’importo della liquidazione. Il primo passo da fare per trovare questo valore è dividere la propria RAL (retribuzione annua lorda) per 13,5 così da trovare la quota annuale del TFR. Ora occorre moltiplicare questa quota per il numero totale degli anni di lavoro effettuati presso l’azienda. Infine bisogna aggiustare il TFR per l’inflazione aggiungendo:

  • il coefficiente di rivalutazione complessivo che corrisponde al 75% dell’indice dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati (Indice FOI) calcolato dall’ISTAT;
  • Un tasso fisso dell’1,5%

Calcolo tassazione TFR: i fattori da considerare 

Il calcolo della tassazione del TFR dipende da diversi fattori come l’ammontare accumulato dal lavoratore ma anche “dove” è stato conservato nel corso del rapporto lavorativo. 

Quando si inizia un nuovo impiego, con la firma del contratto, viene chiesto al lavoratore se intende far maturare il TFR in azienda o destinarlo a un fondo pensione. Questa scelta dipende dalle considerazioni personali di ciascuno dal momento che esistono pro e contro per entrambe le opzioni. In ogni caso questo influenza il calcolo della tassazione TFR come vedremo nell’esempio. 

Un altro aspetto da considerare è un eventuale anticipo del TFR, i lavoratori del settore privato a certe condizioni possono richiedere una quota della loro liquidazione prima della risoluzione del rapporto per far fronte a spese mediche, all’acquisto della prima casa, alla nascita di un figlio. 

Tassazione TFR: il calcolo con un esempio

La tassazione TFR  viene imposta nell’ultima busta paga del dipendente. Tornando ai casi citati in precedenza, se il lavoratore ha mantenuto l’importo in azienda, la tassazione prevista deve tenere conto dell’aliquota media ponderata. L’aliquota media è il livello medio di tassazione che il lavoratore ha pagato sul reddito imponibile – cioè sul reddito al netto di detrazioni e riduzioni previste dalla legge – in un determinato periodo di tempo. Nel caso del TFR, questo intervallo corrisponde agli ultimi cinque anni di lavoro e si calcola sommando tutte le imposte pagate in quell’arco di tempo, divise per il reddito imponibile complessivo dello stesso quinquennio. Questo numero viene poi moltiplicato per 100 per ottenere una percentuale, ovvero l’aliquota media ponderata, che sarà poi applicata al TFR maturato. 

Esempio su TFR di 30.000€: con aliquota media ponderata del 20%, l’imposta dovuta sarà di 6.000€ e il TFR corrisponderà a 24.000€. 

Se invece il TFR è stato maturato in un fondo pensione, la tassazione è più vantaggiosa e va dal 15% al 9%. L’aliquota – cioè la percentuale di tassazione – varia in base agli anni di permanenza nel fondo: a partire dal quindicesimo, si riduce annualmente dello 0,3% fino, appunto, a un minimo del 9%. 

Esempio su TFR di 30.000€: con 18 anni di permanenza, l’aliquota si riduce dello 0,9% (0,3% x 3 anni) e sarà del 14,1%, cioè 4230€. A questo punto il TFR corrisponderà a 25.770€. 

Attenzione! In questo calcolo non è inclusa la tassazione sul rendimento del fondo in cui è stato depositato il TFR: sui Titoli di Stato equivale al 12,5%, mentre su altre forme di investimento tra il 20% e il 26%. 

Infine, per chi ha chiesto un anticipo, il calcolo della tassazione TFR è più complesso e dipende dalle motivazioni della richiesta. Per le spese mediche, l’imposta è ridotta e oscilla tra il 9% e il 15% in base agli anni di contribuzione, scalando dello 0,3% per ogni anno di contribuzione; per la prima casa, l’aliquota è fissa e corrisponde al 23%. L’anticipo massimo accessibile su richiesta è pari al 70% del totale e può essere richiesto solo dopo un minimo di 8 anni di servizio.   

Come abbiamo visto, la tassazione TFR tiene conto di diversi casi particolari non sempre dimostrabili con esempi pratici. Per questo è bene rivolgersi a dei professionisti ed effettuare il calcolo della liquidazione in maniera precisa.  Intanto, iscriviti a Young Platform e non perderti gli aggiornamenti che contano!

Carta di credito fisica vs virtuale: quale conviene?

Carta di credito fisica vs virtuale: quale conviene?

Carta di credito: fisica o virtuale? Come orientarsi con la digitalizzazione che guida l’evoluzione del mondo dei pagamenti? Qui la sintesi    

Meglio la carta di credito fisica o quella virtuale? Quali sono le differenze principali? E i vantaggi? In un mondo in cui la digitalizzazione è una delle forze motrici principali per l’innovazione, avere una panoramica chiara delle soluzioni di pagamento più adatte potrebbe facilitarti la vita. In questo articolo metteremo a confronto le due tipologie di carte di credito e cercheremo di capire quale è più conveniente in base ai profili. Buona lettura!

Cos’è una carta di credito

La carta di credito è una tessera, fisica o virtuale, che contiene i dati del proprietario, il numero della carta, la scadenza, i codici sicurezza – detti codici di controllo CVV2 o CVC2 – e lo spazio per la firma del titolare. Nonostante disponga di funzionalità specifiche, viene spesso confusa con la carta di debito. 

La vera particolarità della carta di credito, infatti, risiede nelle modalità di pagamento: se con la carta di debito le operazioni vengono scalata dal conto corrente ogni singola volta, con la carta di credito l’addebito avviene in un momento successivo, solitamente entro 30 giorni, o a rate. 

Questo perchè se con la carta di debito è possibile spendere o ritirare solo i soldi presenti sul conto, con la carta di credito si parla di plafond, cioè di tetto massimo di spesa concesso a credito dalla banca al titolare. Quindi le spese possono superare la disponibilità effettiva di denaro sul conto dato che verranno rimborsate dal proprietario della carta entro un termine di tempo prefissato. Il plafond, naturalmente, viene stabilito in funzione al profilo del cliente che intende attivare la carta. Nello specifico, si valuta la sua solvibilità (o capacità di rimborso) sulla base del reddito e dell’affidabilità creditizia. 

Carta di credito fisica: il classico intramontabile (per alcuni)

La prima carta di credito nacque negli Stati Uniti nel 1950 quando un signore, Frank McNamara, si rese conto di non poter pagare la cena al ristorante perché si era scordato i soldi contanti a casa. In quel momento, Mcnamara realizzò che il mondo aveva bisogno di un sistema di pagamento universale cashless e fondò il Diners Club International – dall’inglese diner, ristorante.

La carta di credito fisica, nonostante siano passati 75 anni dalla prima transazione, è un oggetto ancora molto utilizzato specialmente dai meno avvezzi alla tecnologia. Questa solida base di utenti, infatti, continua a preferire la tessera fisica, tangibile, all’alternativa virtuale soprattutto per motivi di natura psicologica: l’idea di toccare la carta di credito con mano, di controllarla fisicamente, potrebbe infondere maggiore sicurezza rispetto alla “carta nel telefono”, considerata meno infallibile – e se ti hackerano il telefono che fai?

A parte questo luogo comune, la carta di credito fisica presenta alcuni vantaggi oggettivi rispetto alla cugina virtuale, primo fra tutti l’indipendenza dai dispositivi elettronici come i telefoni. Se ci pensi, questo effettivamente è un bel punto a favore: hai appena fatto serata, è ora di rientrare a casa, la fame bussa alla porta e il pensiero va immediatamente verso lo spuntino notturno. Ti dirigi contento verso il tuo posto di fiducia con l’acquolina in bocca, arrivi lì davanti e… il telefono è scarico. Non puoi pagare. Torni a casa in lacrime. Si, è un bel punto a favore. 

La carta di credito fisica presenta anche un altro vantaggio considerevole, il prelievo di contante facilitato. Calma, anche quella virtuale permette di ritirare i soldi allo sportello, a patto che questo sia contactless. Il problema è che il prelievo contactless, generalmente, è consentito solo ai clienti della banca che possiede quello sportello. Quindi, tornando all’Odissea del Post-Serata, il telefono è carico ma il ristorante ha il POS “rotto”. Cerchi l’ATM più vicino per ritirare qualche bella vecchia banconota. L’unico nei dintorni è Intesa San Paolo, tu sei cliente Unicredit. Non puoi prelevare. E anche qui torni a casa in lacrime.   

Un altro vantaggio, in breve, è relativo al fatto che la carta fisica è statisticamente meno rifiutata negli esercizi commerciali, perché meno soggetta a problemi di natura tecnologica che possono riguardare app, smartphone o POS.

Carta di credito virtuale: il digitale che avanza

La carta di credito virtuale, per definizione, esiste esclusivamente in formato digitale e solitamente è localizzata all’interno del wallet integrato nel telefono. Proprio perché presuppone un certo livello di skill tecnologiche, questo tipo di carta è di gran lunga più popolare fra le nuove generazioni

Le carte di credito virtuali non sono tutte uguali ma si distinguono principalmente per durata e modalità d’uso. Esistono, infatti, le carte di credito monouso e quelle permanenti. Le carte monouso sono utilizzate per singole transazioni o per periodi di tempo molto limitati: una volta effettuato l’acquisto o raggiunta la scadenza prefissata, la carta diventa inutilizzabile. Le carte permanenti, dette anche multiuso, hanno una scadenza più lunga e sono l’equivalente digitalizzato delle carte di credito fisiche. 

Le carte di credito virtuali, rispetto a quelle fisiche, presentano molti vantaggi specialmente per gli aspetti legati alla sicurezza e all’accessibilità. Per quanto riguarda la sicurezza, le carte virtuali monouso riducono nettamente il rischio di furto dei dati sensibili, proprio perché dopo la transazione perdono la loro utilità. Inoltre, il formato digitale consente soluzioni di protezione innovative come il CVV dinamico, generato al momento dell’acquisto e valido per un breve arco di tempo. Poi, nel caso in cui si possedesse anche la carta di credito fisica, è possibile creare un clone virtuale permanente che abbia dati differenti e utilizzarlo per le transazioni online: in questo modo, se si verificasse una violazione sul sito dove hai acquistato, nessuno sarebbe in grado di risalire alla carta originale

Il tema dell’accessibilità fa riferimento alla possibilità di avere a disposizione uno strumento per effettuare pagamenti online in modo quasi istantaneo, senza aspettare la spedizione a casa o doversi recare in filiale. Può sembrare una cosa da nulla, ma solo in Italia quasi 5 milioni di persone risiedono in comuni che non registrano la presenza di alcuna banca: un problema reale che anche Young Platform ha a cuore

Le carte di credito virtuali, poi, hanno vantaggi secondari che le carte di credito fisiche non possono avere per costituzione. Uno di questi è il controllo delle spese, più facilmente tracciabili e gestibili, grazie alla creazione di carte digitali ad hoc, a seconda delle esigenze. Per esempio, se hai mai organizzato una vacanza con un gruppo di amici saprai quanto è noioso gestire la “cassa comune” affinché tutti paghino in modo equo: una carta dedicata esclusivamente alle spese del gruppo potrebbe risolvere questa seccatura. Oppure potresti utilizzarne una per pagare i vari abbonamenti, così da tenerli sotto controllo ed evitare sprechi di denaro. Se ti interessa l’argomento della gestione del budget, troverai le migliori app del settore in questo articolo

Il secondo vantaggio collaterale è connesso alla sostenibilità ambientale: non dovendo produrre tessere di plastica, le tessere virtuali rappresentano una scelta di gran lunga più ecologica. 

Quindi, è meglio il fisico o il virtuale? 

La scelta fra carta fisica o carta virtuale dipende molto dalle abitudini di vita e di spesa. Per esempio, se sei una persona che viaggia spesso, la scelta dovrebbe ricadere sulla carta fisica tradizionale, principalmente per la vasta accettazione e la facilità con cui puoi prelevare cash. Va considerata anche l’eventualità di ritrovarsi col telefono scarico o perderlo durante gli spostamenti. Se invece fai molti acquisti online, allora dovresti prediligere quella virtuale per via della sicurezza offerta dalle carte monouso o dai cloni, come abbiamo visto prima. Il consiglio finale, in realtà, è quello di possederle entrambe per combinare i vantaggi e ridurre gli imprevisti. 

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Fondo di emergenza: cos’è e perché è fondamentale

Fondo di emergenza: cos’è e perchè è fondamentale

Il fondo di emergenza è un tesoretto personale liquido per gli imprevisti e potrebbe salvarti la vita. Come si costruisce? E perché è utile?

Il fondo di emergenza è la classica cosa di cui tutti conoscono l’importanza ma che viene continuamente rimandata nel tempo. Il motivo è semplice e il nome ci aiuta a capirlo: un’emergenza è un evento indefinito e lontano e, ai nostri occhi, perde di rilevanza rispetto a questioni concrete con scadenza ravvicinata. Poi l’emergenza arriva puntuale e la disperazione domina incontrastata. Qui vedremo insieme perché cominciare a costruirne uno e come farlo, passo dopo passo. 

Avere un fondo di emergenza: in un mondo di cicale, sii la formica

L’importanza del fondo di emergenza è parte della cultura umana da tempo immemore, se pensiamo che Esopo più di duemila anni fa scriveva la favola de “La Formica e la Cicala”. Certo, l’autore greco non ci parla letteralmente del fondo di emergenza ma ci fa capire quanto sia importante arrivare preparati di fronte alle sfide che la vita, prima o poi, ci presenta. La cicala infatti canta tutta l’estate e non si preoccupa dell’inverno, mentre la formica lentamente accumula le provviste necessarie: arriva il freddo, la cicala soffre la fame e la formica si gode serena il frutto del suo lavoro

Questa morale, per quanto a prima vista semplice e scontata, ci spiattella in faccia la realtà: sappiamo perfettamente che il futuro prima o poi arriverà a bussare alla porta ma, nonostante ciò, siamo disposti a prendere iniziativa solamente quando avvertiamo il fiato sul collo. Il risultato? L’impreparazione più totale mista a panico e stress. 

Il fondo di emergenza serve proprio ad evitare queste situazioni spiacevoli e continuare a vivere la nostra vita in tranquillità, a prescindere da incidenti, sorprese o desideri improvvisi. Serve a permetterti di comprare un telefono nuovo, riparare la macchina, o anche andare a sentire i Green Day a Firenze senza dover – un esempio a caso – vendere gli Ethereum che hai messo in stake su Young Platform. Bene, ora che la sua utilità è evidente, andiamo a vedere come si costruisce un fondo di emergenza, step by step. 

Creare un fondo di emergenza è impegnativo, ma si può fare

Prima di procedere col mettere da parte le finanze, è necessario capire il proprio obiettivo di risparmio perché è poco stimolante, oltre che poco sensato, accumulare denaro a oltranza. Per fare ciò occorre tenere traccia e analizzare le spese mensili, fisse ed extra, come l’affitto, la benzina, il cibo, gli abbonamenti e via dicendo. Puoi segnartele a penna, usare Excel o facilitarti la vita con un’app per la gestione del budget. Adesso, prendi la cifra e moltiplicala per tre o sei, a seconda delle tue necessità: il risultato di questa complessa operazione matematica equivale al tuo obiettivo di risparmio, perché lo scopo primario del fondo di emergenza è proprio permetterti di vivere nella condizione di assenza di entrate fisse. Una volta capito quanto devi risparmiare, è il momento di creare una strategia per trasformare il progetto in realtà.

Mettere da parte i soldi è una prova di grande disciplina: l’arte del risparmio deve fare i conti con l’animo umano e la sua irrefrenabile e impulsiva voglia di gratificazione. Inoltre, quando l’obiettivo corrisponde a una cifra importante, è faticoso anche solo cominciare perché il traguardo sembra lontanissimo. Per ridurre questo carico cognitivo, esistono alcune strategie che ti consentono di raggiungere la meta sfruttando il tempo, quindi rateizzando l’importo prefissato in quote periodiche. Tra queste, con la famosa sfida delle 52 settimane impiegheresti un anno per creare il tuo fondo di emergenza. Se invece vuoi accelerare il percorso, il consiglio è di fare una sorta di piano di accumulo e prelevare una quantità fissa di denaro. In questo caso, ricorda l’insegnamento del noto libro “L’uomo più ricco di Babilonia”: se ricevi un’entrata fissa mensile, prima togli la somma e poi vivi col resto, mai il contrario. Ciò significa che se guadagni 1300€ al mese, prima levi 100€ e poi ricalibri la tua vita sulla base dei 1200€ che restano, come se i 100€ non fossero mai esistiti. 

Facciamo un esempio pratico per evitare ogni tipo di dubbio. Il nostro esempio sarà Mario, un ragazzo di 28 anni che vive a Milano e lavora come impiegato in ufficio. Mario per un mese si segna tutto e scopre che le spese essenziali ammontano a circa 1.185€, divise come segue: 

  • 750€ di affitto al mese per un bilocale (è stato molto fortunato)
  • 100€ di bollette
  • 45€ di internet (Wi-Fi e cellulare)
  • 40€ di abbonamento mezzi 
  • 250€ di spesa al supermercato 

Mario decide che è il momento di iniziare a pensare a un fondo di emergenza. Ha 28 anni, è giovane e sa che se perderà il lavoro potrà trovarne un altro in relativamente poco tempo. Il suo fondo, quindi, dovrà corrispondere a quattro mesi di spese: 1185 x 4 = 4740€. Arrotonda per eccesso e opta per i 5000€. A questo punto dovrà solo capire come accumularli. 

Perfetto. Sai quanto devi risparmiare, sai anche come farlo. È arrivato il momento di lavorare sull’autocontrollo. Ovviamente essere rigorosi e costanti nel processo di risparmio non implica abbracciare l’ascetismo: nessuno ti chiede di essere il nuovo Mahatma Gandhi. Vuol dire solamente concentrarsi e comprendere di cosa si ha realmente bisogno. Una tecnica interessante è aspettare il giorno dopo e chiederti: “Mi serve ancora quel poster limited edition con Walter White e Gus Fring che pranzano a Los Pollos Hermanos?” Sì, ti servirà ancora. Ma ti sei allenato e la prossima volta questo esercizio potrebbe farti risparmiare qualcosa in più. 

Bello ma… questo tipo di fondo ha un grosso problema

Il tuo fondo di emergenza adesso esiste e non è più solamente un buon proposito per l’anno nuovo. Tuttavia non finisce qua, rimane ancora un ostacolo da superare, il nemico numero uno del risparmio, il boss finale: l’inflazione. Infatti, in teoria, questo tesoretto liquido che hai costruito con tanta fatica come una piccola formica, è destinato a rimanere fermo per un bel po’ – tocca ferro – perché pensato per le emergenze. Il problema è che il tempo passa, l’inflazione cresce e il tuo fondo di emergenza perde valore. 

Pensavi di avere subito la soluzione pronta per affrontare il boss finale eh? Super Mario ha dovuto attraversare ben otto mondi per sconfiggere Bowser e recuperare Peach. A te basta iscriverti qui sotto e leggere gli articoli che pubblichiamo in merito, come questo. Alla prossima!

ESG e sostenibilità: l’investimento etico verso un futuro incerto?

ESG e sostenibilità: l’investimento etico verso un futuro incerto?

ESG e sostenibilità sono termini che nella finanza tradizionale andavano molto di moda. Da qualche mese il clima è cambiato e il futuro appare incerto. Cosa è successo? 

L’investimento sostenibile ESG è stato il tema del momento per molti anni: una ricerca Google “ESG” nel 2022 avrebbe prodotto più di 200 milioni di risultati. Ciò era perfettamente coerente col periodo storico, caratterizzato da una forte sensibilità verso i rischi del cambiamento climatico e dalla relativa attuazione delle politiche green da parte delle istituzioni. I dati, però, ci dicono che potremmo essere di fronte a un cambio di direzione. In questo articolo capiremo cosa si intende per investimenti ESG e come questo trend, forse,  non sia più così popolare. Buona lettura!

ESG: significato, criteri e rating

ESG è un acronimo che sta per Environmental (Ambientale), Social (Sociale) e Governance (Modello di governo aziendale) e rappresenta i pilastri fondamentali utilizzati per valutare la sostenibilità, la responsabilità sociale d’impresa (CSR, Corporate Social Responsibility) e l’impatto etico di un’azienda o di un investimento. L’ESG è parte del concetto più ampio di investimento sostenibile e responsabile (SRI, Socially Responsible Investing) e, come abbiamo anticipato, è il prodotto di un momento storico segnato da una forte attenzione verso le questioni ambientali. Detto in parole semplici, l’investimento ESG seleziona e sostiene quelle imprese che concretamente operano in modo tale da salvaguardare l’ambiente e rispettare i diritti umani e dei lavoratori. Questa selezione si basa su dei criteri specifici.

I criteri ESG sono divisi in tre macroaree e sono necessari per comprendere quanto un’impresa o un investimento siano sostenibili e socialmente responsabili. Immagina di essere il gestore di un mega hedge fund sostenibile che deve esaminare una società per decidere se investirci o meno. Cominceresti con l’analisi dei criteri ambientali, quindi con la valutazione dell’impatto delle attività aziendali sull’ambiente e della volontà della società in questione di limitare i danni. I fattori principali della sezione Environmental includono ovviamente lo sfruttamento delle risorse naturali, la gestione dei rifiuti, l’inquinamento e, in generale, la conformità ambientale. Passeresti poi ai criteri sociali, parte del pilastro Social, per verificare le relazioni della società con le parti coinvolte, dunque coi dipendenti, i fornitori, i clienti e la comunità in cui essa opera. L’obiettivo di questa indagine è misurare le conseguenze del business e la responsabilità dimostrata nei confronti dei vari soggetti interessati elencati sopra. Nel concreto, dovresti controllare le condizioni di lavoro dei dipendenti, il rispetto dei diritti umani, la qualità dei prodotti e l’impegno nei confronti delle comunità locali.

Infine, concluderesti con lo studio del modello di governo aziendale, ovvero coi criteri di governance. Questa sezione monitora la struttura societaria, i processi decisionali e le politiche che guidano la gestione dell’impresa affinché siano in linea coi principi etici e le buone pratiche. I punti fondamentali in questo caso riguardano per lo più la trasparenza, l’anticorruzione, l’indipendenza dei membri del CdA (Consiglio di Amministrazione), il rispetto delle minoranze e della diversità di genere. Chiaramente, queste valutazioni potresti farle tu in prima persona o delegare il compito ad agenzie specializzate in rating ESG

I rating ESG sono giudizi espressi in punteggi numerici o scale alfabetiche che mirano a valutare il livello di sostenibilità aziendale complessiva. La loro funzione è, appunto, offrire informazioni aggiuntive agli investitori nel momento in cui decidono se investire. A livello internazionale, le agenzie – o provider – di rating ESG più famose sono MSCI ESG Research di Morgan Stanley, Sustainalytics di Morningstar, S&P Global ESG scores di Standard & Poor’s e Moody’s ESG Solutions di Moody’s. Esistono poi provider che si concentrano su temi specifici come Standard Ethics, specializzato sulla conformità agli standard internazionali. 

Però, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Vediamo alcuni Difetti con la D maiuscola relativi a questa corrente finanziaria, che poi sono anche parte delle ragioni dietro l’inversione del trend.

ESG e contraddizioni: scandali e greenwashing

L’investimento sostenibile ESG, come abbiamo visto, è un tentativo onorevole che unisce la ricerca del profitto alla consapevolezza dell’impatto tangibile sulla Terra delle decisioni economico-finanziarie. Tuttavia alcuni tra grandi aziende e fondi di investimento, hanno sfruttato l’immensa popolarità di questo filone etico per farsi belli agli occhi degli investitori e dei consumatori, senza realmente rispettare le promesse. Lo scopo? Aumentare il fatturato

Un esempio viene dal celebre Dieselgate del 2015, che vede protagonista la VolksWagen: a seguito di indagini si scoprì che la casa automobilistica, in realtà, truccava i test delle emissioni delle auto diesel per apparire più ecologica e rispettosa dell’ambiente agli occhi del mercato e posizionarsi come leader green. La class action si risolse poi col pagamento di 14,7 miliardi di dollari da parte di VolksWagen ai proprietari ingannati.

Un altro caso riguarda Wirecard, un’azienda tedesca che offriva servizi di pagamento digitale. Questo scandalo è particolare perché coinvolge anche le agenzie di rating ESG: nonostante avesse ricevuto dei rating medi – nel senso che non era considerata nè eccellente né carente rispetto ai competitor – nel giugno 2020 la società tedesca ha dichiarato il fallimento a seguito di un buco di 1,9 miliardi di dollari nel bilancio. Il pensiero va alla crisi del 2008, quando le agenzie di rating valutavano con triple A dei prodotti finanziari assolutamente scadenti. 

Lato fondi di investimento invece, un report dell’ESMA (European Security and Markets Authority), dimostra come il solo fatto di avere nomi ESG attiri investimenti significativi: in media, si registra un aumento di capitale dell’8,9% nel primo anno successivo al cambio di nome e i termini legati all’ambiente, quindi al pilastro Environmental, hanno mostrato l’effetto più importante. Il rischio principale, come evidenzia il report, è scadere nel greenwashing, ovvero la strategia di comunicazione e marketing utilizzata per promuovere un’immagine di sostenibilità ambientale, nascondendo o minimizzando gli effetti negativi. Per questo motivo, ha fornito delle linee guida consigliandone l’adozione. 

Manca ancora un tassello per capire le motivazioni dietro al calo di popolarità dell’investimento sostenibile ESG: l’elezione di Donald Trump.

Sostenibilità ESG e Donald Trump non vanno d’accordo: Drill, baby, drill!

Lo scorso novembre, Donald J. Trump è diventato il Presidente degli Stati Uniti d’America grazie a una campagna elettorale fondata sull’isolazionismo americano e sulla volontà di mettere fine all’ideologia “woke”, termine ombrello che include anche le questioni relative al clima e all’ambiente. Al discorso di inaugurazione del 20 gennaio, The Donald ha messo subito le cose in chiaro: “con le mie azioni, oggi, termineremo il Green New Deal” – un piano di riforme economiche e sociali incentrate sul cambiamento climatico e sulle disuguaglianze. È improvvisamente mutato lo scenario o, per rimanere in tema, è cambiato il clima.

Infatti I fondi sostenibili globali ESG, secondo un report di Mornigstar, nel Q1 del 2025 hanno subito deflussi record per 8,6 miliardi di dollari, contro i 18,1 miliardi di dollari di afflussi del trimestre precedente. Lo stesso report ci comunica inoltre che gli investitori negli Stati Uniti hanno ritirato denaro da questi fondi per il decimo trimestre consecutivo. Contemporaneamente, l’Europa ha registrato i suoi primi deflussi netti dal 2018, con 1,2 miliardi di dollari ritirati, contro i 20,4 miliardi di dollari di afflussi nel Q4 del 2024. Occorre anche sottolineare che, nonostante ciò, i fondi ESG a livello globale formano un patrimonio di più di 3 trilioni di dollari

Un altro dato interessante, sempre di Morningstar, riguarda l’attività di chiusura e rebranding dei fondi ESG: per quanto riguarda il 2024, 94 fondi sostenibili sono stati chiusi nel Q4, per un totale di 351 nell’anno, mentre 213 fondi europei hanno cambiato nome, in accordo con le linee guida del report ESMA che abbiamo visto prima. Di questi, 50 hanno introdotto riferimenti ESG, 115 li hanno eliminati e 48 li hanno modificati

Infine, ci arriva un sondaggio dalla Stanford University che potrebbe fornire informazioni utili per comprendere la direzione del trend ESG: nel 2022, il 44% dei giovani investitori riteneva estremamente importante che i fondi di investimento utilizzassero la loro influenza sulle società investite per dare priorità alle questioni di carattere ambientale. Nel 2023, la pensava così il 27% mentre l’ultimo sondaggio, relativo al 2024, rivela che solo l’11% del campione analizzato ha mantenuto la stessa opinione. Se poi gli veniva fatta la stessa domanda ma relativa al miglioramento delle pratiche sociali e di governance, il crollo è stato ancora più marcato: per il sociale dal 47% al 10% mentre per la governance dal 46% al 7%

Sostenibilità e Bitcoin: una sfida aperta

Quando si parla di sostenibilità e Bitcoin, la sfida principale riguarda il consumo energetico necessario per le attività di mining, che abbiamo trattato in modo approfondito in questo articolo del 2021. Da quel momento sono stati fatti dei passi avanti notevoli, tanto che la CCAF (Cambridge Center for Alternative Finance) dell’Università di Cambridge, in un report pubblicato in aprile 2025, ha stimato che ad oggi il 52,4% dell’energia utilizzata per il mining proviene da fonti sostenibili – di cui il 23,4% dall’idroelettrico, 15,4% dall’eolico e il 9,8% dal nucleare. 

Esistono poi altre idee innovative come nel caso di El Salvador, che sta implementando un sistema di mining basato sull’integrazione fra l’energia geotermica della regione vulcanica e l’energia solare ed eolica. Oltre alla produzione, si parla anche di recupero dell’energia. MARA, una delle più grandi aziende di mining del mondo, sta minando Bitcoin convertendo l’APG (Associated Petroleum Gas) in elettricità. L’APG, detta in modo facile, è un gas che viene scartato durante l’estrazione del petrolio per essere poi bruciato o disperso nell’atmosfera. Qui, invece, viene recuperato e convertito in energia elettrica attraverso la combustione per alimentare i mining center, risparmiando sui costi.

ESG nel futuro: e quindi?

E quindi, come si dice spesso, nessuno ha la palla di vetro. Il dilemma è sempre lo stesso: è la fine dei fondi ESG o è solo un momento di riassestamento? Che idea ti sei fatto leggendo l’articolo? Nel dubbio, iscriviti a Young Platform e resta aggiornata/o sulle cose importanti!

Franchigia dei 2.000€: come funziona e cosa cambia per le imposte sulle criptovalute

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Con l’arrivo della stagione delle dichiarazioni, l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato un nuovo aggiornamento riguardante la tassazione delle criptovalute. Dopo un periodo caratterizzato da interpretazioni diverse, arrivano finalmente chiarimenti ufficiali sul funzionamento della franchigia per il 2023 e il 2024. È importante sottolineare, però, che dal 2025 sono previste nuove modifiche.

Aggiornato il 5 maggio

Ecco perché potresti aver diritto a 520€ di rimborso 

Partiamo da un dato certo: le fonti normative relative alle imposte sugli anni 2023 e 2024 sono le medesime e non è variato nulla in merito alla franchigia/soglia di 2.000 euro applicata alle plusvalenze da criptovalute. Detto in parole semplici: la norma è identica per entrambi gli anni. Ciò che cambia, però, è l’applicazione pratica della norma.

Nel 2023 e 2024, questa franchigia esenta da imposta la parte di plusvalenze fino a 2.000 euro. Il problema è che, con riferimento al 2023, il software dell’Agenzia trattava i 2.000 euro come soglia (on-off), facendo pagare il 26% su tutto il guadagno una volta superato il limite. Il programma ministeriale riferito al 2024 invece li tratta, nella versione definitiva, alla stregua di una franchigia. Cioè si deve pagare il 26% solo sull’importo che supera i 2.000€.

Infatti, il 30 aprile 2025 l’Agenzia delle Entrate, tramite una apposita F.A.Q: ha “definitivamente” sentenziato che i 2.000 euro sono una franchigia, non una soglia. Questo significa che, se nel 2023 hai pagato le imposte anche sui 2.000€ di plusvalenze, hai diritto a richiedere un rimborso fino a 520€ all’Agenzia delle Entrate. 

L’annuncio del 30 aprile dell’Agenzia delle Entrate 

Faq del 30 aprile 2025 – Tassazione sostitutiva delle plusvalenze derivanti da cripto attività

Come vengono tassate le plusvalenze e gli altri proventi derivanti da cripto-attività nei confronti delle persone fisiche?

Sulle plusvalenze e gli altri proventi derivanti da cripto-attività si applica un’imposta sostitutiva del 26%. Per il calcolo della base imponibile delle plusvalenze e gli altri proventi realizzate nell’anno d’imposta, è riconosciuta una franchigia di euro 2.000.

Esempio: se il contribuente nel 2024 ha realizzato plusvalenze e altri proventi per un ammontare complessivo di 2.500 euro, la base imponibile determinata a seguito della compilazione della specifica sezione del quadro T del Modello 730/2025 o del quadro RT del Modello REDDITI 2025 PF sarà pari all’importo di euro 500, ovvero all’importo eccedente la franchigia.

Nel caso in cui il contribuente non abbia potuto tener conto di tale franchigia della dichiarazione dei redditi 2024 (anno d’imposta 2023) può richiedere il rimborso della maggior imposta sostitutiva versata.

Fonte ufficiale: FAQ Agenzia delle Entrate – 30 aprile 2025

Dal 2025 cambia tutto: addio franchigia

Con la Legge di Bilancio 2025 (Legge 207/2024), la franchigia è stata eliminata.
A partire dal 1° gennaio 2025, tutte le plusvalenze saranno tassabili integralmente, indipendentemente dall’importo. Non esiste più alcuna soglia o franchigia.

Cosa significa questo per te?

Anno d’imposta 2023 (dichiarazione nel 2024)

  • Plusvalenza di 1.900 euro → Nessuna imposta dovuta
  • Plusvalenza di 2.100 euro →
    • Calcolo errato (vecchio software): 2.100 x 26% = 546 euro
    • Calcolo corretto: solo su 100 euro → 26 euro
    • Rimborso spettante: 520 euro

Anno d’imposta 2024 (dichiarazione nel 2025)

  • Plusvalenza di 1.900 euro → Nessuna imposta
  • Plusvalenza di 2.500 euro → Imposta su 500 euro → 130 euro

Anno d’imposta 2025 (dichiarazione nel 2026)

  • Plusvalenza di 1.500 euro → 1.500 x 26% = 390 euro
  • Plusvalenza di 3.000 euro → 3.000 x 26% = 780 euro

Nel 2025, ogni euro di guadagno è tassato.

Compensazione delle minusvalenze

Se durante l’anno hai registrato perdite, puoi compensarle con i guadagni ottenuti nello stesso anno o nei quattro successivi.

Esempio:

  • Plusvalenza: 3.000€
  • Minusvalenza: 1.000€
  • Plusvalenza netta: 2.000€ → Nessuna imposta, perché rientra nella franchigia.

Rimborso per chi ha pagato troppo

Se nel 2024 hai pagato le imposte su guadagni realizzati nel 2023 superiori a 2.000€, con molta probabilità hai pagato più del dovuto. 

Ma ci sono buone notizie: puoi richiedere un rimborso per l’imposta versata in eccesso. Parliamo del 26% sui 2.000€ che, alla luce del chiarimento del 30 aprile, non dovevano essere tassati.

L’Agenzia non ha ancora fornito istruzioni dettagliate su come presentare la richiesta di rimborso, anche se si presume che sarà sufficiente effettuarla tramite il modello Unico o il modello 730 come per qualsiasi richiesta di rimborso ordinario. Non appena verrà pubblicato un nuovo aggiornamento, pubblicheremo le nuove disposizioni sul nostro blog ufficiale. 

Tutti coloro che hanno acquistato il Report Fiscale di Young Platform o il Report Young-Okipo verranno contattati via mail nei prossimi giorni con le indicazioni da seguire per ricevere gratuitamente il report e i facsimile aggiornati in base alle ultime disposizioni dell’Agenzia delle Entrate.

Come risparmiare soldi: la sfida delle 52 settimane

Come risparmiare soldi: la sfida delle 52 settimane

Non sai come risparmiare soldi per un telefono nuovo o per un viaggio in Spagna? Qui ti proponiamo un super metodo per realizzare i tuoi desideri

Se non sai proprio come risparmiare soldi in modo da avere del budget extra e toglierti qualche sfizio, non sei l’unico e ti capiamo perfettamente. Risparmiare è faticoso, necessita di una buona disciplina e implica molti sacrifici. Tuttavia esistono dei metodi che potrebbero alleviare questo sforzo: uno di questi è la sfida delle 52 settimane, che ti consente di mettere da parte una bella cifra senza quasi accorgertene. Qui ti spieghiamo in cosa consiste.

Come risparmiare soldi in 52 settimane: perché mettersi in gioco  

Partendo dal presupposto che risparmiare è fondamentale e andrebbe fatto a prescindere, iniziare a mettere da parte i soldi con questa challenge conviene perché lo sforzo percepito è minimo rispetto al risultato finale. Questo perché la 52-week money challenge ha la sua forza nel porre l’obiettivo a un anno di distanza, così da permetterti di risparmiare con calma senza stravolgere il tuo stile di vita.

Adesso immagina di passare di fronte alla vetrina di un negozio di musica, vedere una bellissima chitarra Fender Stratocaster e innamorartene: la vuoi a tutti i costi. Entri e chiedi informazioni. Il prezzo? 1.149€. Tanti soldi, ma quella chitarra deve essere tua in tre mesi al massimo. Ciò significa rinunciare a circa 400€ al mese di spese varie. Tre mesi senza cene al ristorante, con venerdì e sabati sera in spending review. Se invece i mesi fossero dodici? Dovresti risparmiare solo 100€ al mese, una cifra molto meno impattante sulla tua vita e, di conseguenza, sullo sforzo percepito. 

La sfida delle 52 settimane ti spiega come accumulare denaro senza rendertene conto

Abbiamo visto che, logicamente, risparmiare 1.149€ in dodici mesi è molto meno faticoso che farlo in tre. Naturalmente, il metodo delle 52 settimane non è concepito per gli acquisti di impulso, proprio perché presuppone una finestra temporale molto ampia. Meglio così, dato che gli acquisti di impulso, come abbiamo evidenziato in questo articolo, sono nemici delle strategie di risparmio. La challenge delle 52 settimane si basa quindi su un intervallo di tempo di dodici mesi, ma si spinge oltre dal momento che frammenta ulteriormente il periodo di risparmio: pensala come un pagamento anticipato in 52 comode rate. 

Il principio che regola questo metodo è tanto semplice quanto efficace: si tratta di mettere via la quantità di denaro equivalente al numero della settimana in cui ci si trova. Nella pratica vuol dire che la prima settimana – la settimana numero uno – metterai da parte 1€, la seconda 2€, la terza 3€ fino all’ultima, la numero 52, dove inserirai 52€ in questo speciale salvadanaio. Alla fine, ti ritroverai con 1.378€ da spendere. L’ultimo mese potrebbe essere quello più faticoso, perché prevede un risparmio di circa 200€, ma se fai coincidere il primo giorno della sfida col primo gennaio, potresti contare sul bonus della tredicesima (o sulle buste di Natale di zia e nonna). Poi nulla ti vieta di adattare la sfida alle tue esigenze: potresti voler cominciare dalla settimana 52 per levarti subito la parte più impegnativa, o raddoppiare l’importo settimanale per arrivare con 2.756€ o anche ridurre le settimane in base al tuo obiettivo di risparmio. Insomma, questo sistema dà libero sfogo alla fantasia e ti offre la possibilità di allenarti a risparmiare in modo delicato e poco impattante. 

Una volta capito come risparmiare i soldi, è il momento di farli fruttare

Molto bene, sono passate 52 settimane, adesso possiedi una Fender Stratocaster nuova di zecca. Senza accorgertene, hai anche sbloccato una nuova skill: il vantaggio secondario di questa challenge sta nell’aver perfezionato l’arte del risparmio. Ora che sei abituato a mettere i soldi da parte, potresti comprare un nuovo salvadanaio – magari più capiente – e trattenere ogni mese una parte del tuo stipendio, senza un obiettivo specifico ma per la necessità di avere a disposizione un fondo di emergenza. Il risparmio, però, deve fare i conti con un nemico invisibile che inesorabilmente riduce il valore dei tuoi soldi nel tempo: l’inflazione

Proteggersi dall’inflazione significa far fruttare i propri soldi affinché il potere d’acquisto rimanga invariato nel tempo. Facciamo un esempio classico: se dieci anni fa il caffè al bar costava 1€, oggi il prezzo medio si aggira intorno a 1,20€. Il potere d’acquisto è diminuito, perché nel 2025 il caffè costa il 20% in più o, detta in un altro modo, l’inflazione ha svalutato del 20% quella moneta da 1€. Come fare per sconfiggere questo boss finale? Se ti interessa il tema, noi di Young Platform pubblichiamo moltissimi contenuti a riguardo, come questo articolo in cui abbiamo spiegato come proteggersi dall’inflazione grazie a Bitcoin. “Se non ti occupi dell’economia, l’economia si occuperà di te”, quindi non pensarci due volte e iscriviti qui sotto per restare aggiornato/a!

Come fare soldi: oltre le promesse dei guru

Come fare soldi: oltre le promesse dei guru

Come fare i soldi? Se lo chiedono in tantissimi, da sempre: i guru di TikTok lo sanno e vendono fuffa. Qui invece troverai argomenti seri. Partiamo!

I venditori di amuleti miracolosi o metodi infallibili per diventare super ricchi esistono da sempre: l’essere umano ha il bisogno esistenziale di credere che esistano modi per ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. Con internet, questi mercanti di aria fritta si sono moltiplicati inventandosi strategie via via più fantozziane. L’obiettivo di oggi è far crollare questi ridicoli castelli di carta e, soprattutto, fornirti alternative serie (ma più faticose) per accrescere il tuo patrimonio. Buon divertimento!

Il Fuffa Guru che ti spiega come fare soldi 

Nel 2024, l’autorevole enciclopedia Treccani ha inserito nel suo vocabolario il neologismo fuffa guru, descrivendolo come “chi, sfruttando tecniche da imbonitore, organizza e gestisce a scopo di lucro e in modo truffaldino corsi, video, seminari in rete nei quali si pubblicizzano modi facili di fare soldi”. Definizione perfetta, elegante ed estremamente realistica. Il fuffa guru è proprio questo, è un mercante di illusioni che si autocelebra come un eroe moderno. Viene dai bassifondi della società, spesso ha trascorso l’infanzia nella povertà assoluta, odiato da tutti prima e pieno di debiti poi, è un reietto destinato a restare fra i reietti. Condizione questa che il fuffa guru non è disposto ad accettare. Mosso dall’insopprimibile desiderio di ricchezza amplificato da una sete di rivalsa ancora più intensa, finalmente vede la luce: “non è questo il mio destino”, dice, “serve un cambio di mindset perché la povertà è prima di tutto uno stato mentale, non una questione di soldi”. 

Quindi il fuffa guru racconta le sue notti insonni passate a divorare libri, la sua rinuncia totale a feste, compleanni e matrimoni perché “mentre gli altri collezionavano serate, io collezionavo competenze“. Scopre segreti che la massa – il 99% – ignora, prende la pillola rossa ed esce dalla Matrix: il fuffa guru è pronto per la scalata verso il successo. Armato di questo nuovo mindset e delle conoscenze acquisite – che costituiranno il “metodo” – si vanta di essersi arricchito velocemente e in modo esponenziale. Adesso, guardando al passato, ringrazia sé stesso “per non essere stato debole e non aver mollato”. 

La fase finale è quella attuale, in cui vive nel lusso sfrenato fra Dubai e Manhattan, viaggia in jet privati e guida solo Lamborghini. Questo stile di vita è la prova tangibile che il suo metodo funziona e che chiunque, adottando il giusto mindset e seguendo i suoi consigli, è in grado di ottenere lo stesso. Pagando, ovviamente. Ma in cosa consiste questo infallibile metodo?

Fare soldi facili, velocemente e senza sforzo: the fuffa guru’s formula

Nonostante non ci sia traccia delle sue esperienze lavorative, cioè del modo con cui si è guadagnato questo ipotetico immenso capitale, il fuffa guru ha la pretesa di spiegarti come fare soldi, tanti soldi, velocemente e senza faticare. E lo fa per condividere la conoscenza, per permetterti di raggiungere la libertà. Come? Pagando centinaia – se non migliaia – di euro per poter partecipare ai suoi seminari o webinar e avere così il privilegio di poterlo ascoltare

La formula per la ricchezza si compone sempre, inevitabilmente, delle stesse side hustle. Il fuffa guru ti parla di dropshipping e ti spiega come aprire un negozio online di successo vendendo prodotti senza averli fisicamente in magazzino, con la promessa di profitti altissimi col minimo sforzo. Oppure può insegnarti nozioni “fondamentali” sull’affiliate marketing “passivo”, sistema per generare rendite passive stratosferiche in modo automatico sponsorizzando prodotti tramite link affiliati e guadagnando sulle commissioni. Un altro grande classico è il network marketing o marketing multilivello, spesso accompagnato dall’intrigante “diventa imprenditore di te stesso!”: in questo caso, il modo per fare i soldi deriverebbe dalla vendita di prodotti (cosmetici, integratori, servizi) ma soprattutto dal reclutamento di altre persone che, entrando nella tua rete, lavorerebbero per te. E come guadagnerebbero queste persone? Reclutando altre persone e così via. Suona familiare? 

Impossibile poi non citare il flipping immobiliare, che consiste nel comprare un immobile per sistemarlo e rivenderlo a un prezzo più alto, spesso in coppia con l’arbitraggio immobiliare, che invece mira ad affittare una proprietà a lungo termine e subaffittarla per rientrare dell’investimento. Ultimo ma non ultimo – rullo di tamburi – il trading online, Sacro Graal di questi mestieranti del nulla. Secondo questi giullari di corte, dedicandoci solo pochi minuti al giorno saresti in grado di guadagnare cifre astronomiche grazie a segnali infallibili e tecniche segretissime insegnate in corsi tanto esclusivi quanto costosi. Ma questi metodi sono veramente così infallibili?

Quello che i fuffa guru non ti dicono 

Quando “spiegano” come fare soldi a palate, in poco tempo e senza faticare, i fuffa guru si dimenticano sempre – che casualità! – di menzionare i lati negativi di tutte queste attività che, ricordiamo, sono legali e legittime. Il dropshipping per esempio presenta una serie di spese e costi relativi all’advertising, alla spedizione ma anche alla gestione dei fornitori e alla necessità di un servizio clienti. A questo, si aggiunge il fatto che il mercato è estremamente competitivo e il rischio di rimanere con grandi quantità di merce invenduta è molto alto. Passando all’affiliate marketing, è possibile generare rendimento passivo solo con alto traffico, quindi solo nel caso in cui un numero consistente di utenti comprino quel prodotto passando per quel preciso link: se sei un influencer con decine di migliaia di follower lo puoi fare, altrimenti è necessario costruire un’audience importante, creare contenuti di valore e investire in SEO e in pubblicità. Non proprio un’attività passiva. Il marketing multilivello poi è nient’altro che un sinonimo elegante e professionale di schema piramidale o schema Ponzi, dal momento che i guadagni si ottengono principalmente dalle new entry che reclutano altre new entry. E come ogni schema Ponzi, per definizione, è destinato a crollare.

Per quanto riguarda le side hustle relative all’immobiliare, quello che questi luminari del successo preconfezionato non ti dicono è che servono garanzie e ingenti risorse finanziarie iniziali per poter avviare qualsiasi tipo di attività in questo campo. Infine, l’attività di trading online, specialmente intraday e che contempla un utilizzo massiccio (e incosciente) della leva finanziaria, è estremamente rischiosa. Non è un mistero che la stragrande maggioranza dei trader retail (più del 90%) che si buttano a piè pari in queste operazioni perda denaro. Fare soldi col trading è possibile, ma richiede studio approfondito e grande competenza, oltre al capitale da rischiare: i segnali infallibili e le tecniche segretissime spesso sono inefficaci o vere e proprie truffe. 

Bene. Ci siamo divertiti, il fuffa guru è nudo. Ora passiamo alle cose serie.

Come fare soldi seriamente: la pazienza è la virtù dei forti

Generare delle entrate passive è possibile ma richiede tempo, pazienza e… denaro. L’affiliate marketing, ad esempio, è un sistema molto utilizzato, ma è il frutto di un lavoro precedente: come abbiamo detto, c’è bisogno di traffico per guadagnare commissioni importanti e questo si ottiene solamente dopo aver creato un prodotto valido. Fare il content creator è un mestiere proprio di questi tempi, ma richiede dedizione, sforzo, passione e competenze. Anche investire nell’immobiliare è un’attività evergreen che entusiasma gli italiani – quanto ci piace il mattone! – ma richiede disponibilità economica iniziale e supporto da parte di specialisti per analisi di mercato, consulenze legali e commerciali. In questo senso, una soluzione più “democratica” e accessibile potrebbe essere il crowdfunding immobiliare, ovvero un metodo di finanziamento collettivo in cui più persone investono insieme in progetti immobiliari per ottenere una parte dei profitti. Si divide principalmente in lending crowdfunding, che consente ai finanziatori di prestare denaro per operazioni immobiliari guadagnando un interesse; ed equity crowdfunding, in cui gli investitori acquistano quote della società, diventando soci e partecipano a utili e perdite.

Per concludere, se ci venisse chiesto come fare soldi e accrescere il proprio capitale non potremmo non menzionare gli investimenti in borsa. Attenzione: qui non si sta parlando di trading fuffaguresco, ma dell’arte dell’investimento a lungo termine. Il fondatore di Vanguard John Bogle, ad esempio, è stato un grande sostenitore dell’investimento passivo attraverso fondi indicizzati a basso costo. La sua filosofia si basava su alcuni principi chiave come ampia diversificazione, costi minimi, orizzonte temporale lungo e asset allocation calibrata in base al rischio. Ciò si traduce nel possedere per molti anni dei fondi che riflettono l’andamento del mercato (come il Total Stock Market o il Total Bond Market), tipicamente sotto forma di ETF.

Investire a lungo termine premia, lo dicono i dati

Quando ti spiegano come fare i soldi, i guru del denaro facile non parlano neanche per sbaglio degli investimenti. Partendo col mega disclaimer doverosoi rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri” (perché nessuno è in grado di prevedere il futuro), possiamo affermare che, storicamente, investire a lungo termine nel mercato azionario è stato sempre profittevole. L’S&P500, uno degli indici più famosi del mondo che rappresenta le 500 maggiori aziende quotate negli Stati Uniti, ha generato un rendimento reale medio annuo – al netto dell’inflazione – del 6.5%. Anche l’MSCI World, indice che invece include le principali società quotate a livello mondiale, ha messo a segno rendimenti reali medi annui per il 5,6%. A queste performance occorre aggiungere l’interesse composto che Albert Einstein ha definito “l’ottava meraviglia del mondo”. Concretamente, sfruttare l’interesse composto significa reinvestire i rendimenti guadagnati al fine di generare ulteriori rendimenti: si tratta dell’effetto “palla di neve” che, rotolando dal pendio, raccoglie altra neve, aumentando di volume e accelerando la sua velocità. 

Facciamo un esempio. Immaginiamo che un guru di TikTok, per spiegarti come fare i soldi col dropshipping, ti chieda 50€ per la lezione introduttiva, 500€ per il corso base completo e 2500€ per il corso avanzato. Totale: 3050€. Funzionerà? Non funzionerà? Chi lo sa. Ora immaginiamo di investire la stessa cifra nell’S&P500 per 20 anni: in base allo storico e reinvestendo i profitti, alla fine del periodo potresti ritrovarti con circa 10.500€. È chiaro che in nessuno dei due casi è possibile prevedere con esattezza il risultato finale. Tuttavia se nel caso dell’S&P500 abbiamo quasi 70 anni di dati storici e di letteratura accademica su cui basarci per prendere delle decisioni, nel caso del guru di Tik Tok il massimo a cui possiamo aspirare è un profilo gonfiato da follower finti e da auto noleggiate in giornata

La strada per fare i soldi è lunga e tortuosa e i guru lo sanno

Capire come fare un mucchio di soldi senza aspettare né faticare, come abbiamo detto, è un desiderio umano e comprensibile. Anche chi vende queste finte chiavi per la felicità non fa altro che cercare modi creativi – per non dire fraudolenti – per raggiungere questo obiettivo. Pensateci: per quale assurdo motivo una persona che viaggia in jet privati, guida solo Lamborghini e mangia solo tartare di manzo Kobe dovrebbe perdere tempo dietro a lunghi seminari e call 1to1? Per “diversificare”? O ancora, per “aiutare l’umanità”? O magari perché il vero metodo per diventare ricchi senza sforzo siete voi che comprate il corso? A voi le risposte.

Da parte nostra, anziché scommettere su figure poco attendibili incontrate sul web, è preferibile rimboccarsi le maniche, studiare e valutare alternative più realistiche e legittime, come possono essere gli investimenti in borsa a lungo termine. Se ti interessa l’argomento, noi di Young Platform pubblichiamo spesso contenuti di questo tipo, come il perché investire in Bitcoin a lungo termine. Iscriviti qui sotto e resta aggiornata/o!